Jonathan Franzen scrive ancora grandi romanzi
Bravo, bravissimo anche nel suo nuovo “Crossroads”, uscito per Einaudi. Padre inetto, madre inquieta, tre figli, farmaci e droghe: l'ultima opera dell'autore racconta le loro storie di complicità, ribellione e fuga dalla realtà nei turbolenti Settanta americani
Siamo sicuri che Jonathan Franzen non sia un’installazione di Banksy? E’ l’ultima perfidia, tanto esagerata da ottenere l’effetto contrario, rivolta allo scrittore delle Correzioni. Non che le altre ci andassero leggere, si parla di “Franzenfreude”, modellato su “Schadenfreude”: la gioia irrefrenabile e malcelata che coglie quando qualcuno sbaglia, arriva ultimo, viene tirato giù dal piedistallo. “Non basta avere successo, bisogna che i nostri amici falliscano”, sosteneva Gore Vidal, gran cultore della materia.
Invece Franzen mette a segno un romanzo dopo l’altro. Intervallato, bisogna ammetterlo, da dichiarazioni tanto in controtendenza che l’ipotesi-installazione non è così assurda. Sta lontano dai social. Da birdwatcher assatanato, odia i gatti perché sterminano gli uccellini. Non vuole salvare il mondo prima di cena, come l’altro Jonathan: pensa che sia troppo tardi, e invoca il modello Candide “coltiviamo il nostro giardino”. E’ maschio, bianco, borbottone, avvolto in una fantozziana nuvola di misoginia che lo segue dappertutto.
Bravo, bravissimo anche in Crossroads, appena uscito da Einaudi vent’anni dopo Le correzioni (una specie di romanzo zero, a smentire le sue stesse profezie sulla morte di un genere capace di entusiasmare critici e lettori). Primo di una trilogia battezzata “La chiave di tutte le mitologie”. Come la grande opera mai finita da Casaubon in “Middlemarch” di George Eliot: studioso e pedante, il contrario di un romanziere come Franzen. Gesto scaramantico, considerato il tempo e la fatica per scrivere 600 pagine. Non autobiografiche. Sforzo inutile: nelle interviste gli chiedono sempre del papà, della mamma, dell’infanzia.
Due giorni prima del Natale 1971 (chi ha letto Le correzioni ricorda la straziante infelicità della faticosa riunione familiare). Il reverendo Russ Hildebrandt briga per passare qualche ora con la seducente vedova Frances Cottrell, sul pickup ad aiutare i bisognosi. Tre anni prima lo hanno cacciato da Crossroads, associazione giovanile da lui fondata. Ha avuto la meglio Russ Ambrose, un collega che propone meno preghiere, più chitarra, l’idea che Dio stia nell’onestà e intensità delle relazioni, nelle emozioni messe a nudo, nel dire sempre la verità a costo di ferire. Ricetta magnifica per i guai, non solo dottrinali. Ma intanto i fighi del gruppo salgono sul suo pullman per la gita in Arizona (nata come campo di lavoro per dare una mano ai nativi americani).
Guidando sulla neve rischia l’incidente, il ritardo lo sbugiarderebbe. Alla moglie Marion – innocente e devota, ai suoi occhi – ha raccontato che sarebbe uscito con un’altra parrocchiana. Il lettore scopre (prima di lui) che Marion ha un passato scabroso, a tutti taciuto. Tranne che a una strizzacervelli “con il fisico da raviolo”. Divide la sala d’attesa con un dentista, per non farsi notare nell’immaginaria cittadina di New Prospect (nella mappa di Franzen, abbastanza vicina a Chicago per fare volontariato a South Side).
Padre inetto, madre inquieta, tre figli, farmaci e droghe. Crossroads racconta le loro storie di complicità, ribellione, fuga dalla realtà (finché la realtà non viene a riacchiapparti). Il figlio grande Clem ha una fidanzata tanto brava a letto che lo distrae dallo studio, e gli fa notare che i pacifisti di buona famiglia protestano contro la guerra ma al fronte vanno gli altri. Il quindicenne Perry filosofeggia sul bene e il male: “Se faccio qualcosa di buono e me ne viene un tornaconto, è genuina bontà?”. La figlia Becky ha ricevuto una cospicua eredità da una zia. Altrettanti tasselli per un grande romanzo americano, altro che Banksy.