Elaborazione grafica di Francesco Stati 

L'ascesa sociale negli stati uniti

Pregi (e limiti) di “The Tyranny of Merit” di Michael Sandel

Sergio Belardinelli

Contro la meritocrazia senza Dio, che esalta individualismo e disuguaglianze

È sufficiente che una società coltivi il merito per essere una società più giusta? Pur cercando di garantire una posizione di partenza la più equa possibile, è giusto pensare che coloro che salgono in alto nella scala sociale e coloro che non ce la fanno si trovano entrambi nel posto che meritano? Su questi interrogativi, in particolare sul risentimento dei cosiddetti “respinti”, aveva già richiamato l’attenzione il saggio fiabesco del sociologo inglese Michael Young, scritto nel 1958, ambientato nel 2033 e intitolato L’avvento della meritocrazia. Da quando le scuole e le industrie sono state progressivamente spalancate al merito, “affinché i fanciulli intelligenti di ogni generazione avessero la possibilità di salire”, secondo Young abbiamo trascurato di valutare lo stato mentale dei respinti, cosicché molti si comportano e soffrono come se fossero privi di dignità. Ecco, molto sinteticamente, il “lato oscuro” della meritocrazia, al quale il filosofo americano Michael Sandel lo scorso anno ha dedicato un libro importante dal titolo emblematico: The Tyranny of Merit. What’s Become of the Common Good?

 

A partire dai dibattiti religiosi sul rapporto tra merito e salvezza, Sandel mostra come l’odierna meritocrazia americana porti “il marchio del contesto teologico nel quale è nata”. Più diminuisce la fede in Dio e più prende vigore l’idea che siamo noi gli artefici del nostro destino, finché alla fine il merito ha la meglio sulla grazia e, detto un po’ brutalmente, ci si convince che i ricchi e i poveri sono tali perché in fondo se lo sono meritato. “Una sorta di provvidenzialismo senza Dio”, dice Sandel; un providenzialismo che santifica i vincitori e denigra i perdenti, generando arroganza negli uni e umiliazione negli altri. Si tratta di una mentalità che in America ha attecchito ormai in modo pervasivo sia nella cultura dei repubblicani sia in quella dei democratici e che emerge soprattutto nella centralità attribuita ai college e all’educazione quali trampolini privilegiati per godere dei benefici e delle ricompense del mercato. Molto interessanti in proposito i capitoli che Sandel dedica alla retorica dell’ascesa sociale e delle credenziali, all’etica del successo e alla macchina selezionatrice oggi assai di moda nei college e nelle università americane. 

Con una miriade di dati relativi all’accesso ai college e alle università più prestigiose ci viene offerto un quadro a dir poco preoccupante del loro clima culturale. Da noi, quando parliamo di università americane, siamo soliti discutere del dominio della “correttezza politica” o della cosiddetta cancel culture che le pervadono, ma Sandel richiama la nostra attenzione su un altro punto: il fatidico Sat (Scholastic Attitude Test): un test indispensabile per entrare nei college più prestigiosi, che assorbe totalmente non soltanto la vita di uno studente, ma anche quella della sua famiglia, generando ansia e stress, compensati soltanto dalla soddisfazione di avercela fatta (quando ce la si fa). “A partire dagli anni Novanta fino a oggi – scrive Sandel – sono sempre più numerosi tra i miei studenti coloro che sono convinti che il loro successo è dovuto a loro stessi, è un prodotto dei loro sforzi, qualcosa che si sono guadagnati. Tra gli studenti a cui insegno la fede meritocratica si è intensificata”.

Sulla scorta di un discorso pubblico condiviso da entrambi i principali partiti americani che esalta sempre di più l’educazione come la vera risposta ai problemi della società globale, il college e l’università prestigiosa diventano vere e proprie credenziali di successo, di un successo meritato con impegno e fatica, per il quale approntare eventualmente un campo di gioco che consenta di giocare anche a chi appartiene a ceti sociali più svantaggiati, ma da nessuno messo in discussione come criterio per poter salire in alto nella scala sociale. Questa la promessa meritocratica, intesa non tanto come “promessa di una maggiore uguaglianza, bensì come promessa di una maggiore e più equa mobilità”. Sennonché, come sottolinea Sandel sulla base di numerosi dati empirici, le università americane più prestigiose sono ormai come “ascensori in un palazzo dove la maggior parte degli inquilini abita al piano più alto… Più che espandere opportunità espandono privilegi”. Altro che maggiore e più equa mobilità sociale! Coloro che si trovano nella cerchia giusta, i vincenti, debbono pagare costi psicologici altissimi, cercando di compensare con l’arroganza le loro insicurezze e le loro ansie da prestazione; i perdenti, a loro volta, debbono fare i conti con un umiliante senso di fallimento: questo l’esito della tirannia del merito, dovuto per lo più al fatto che vincenti e perdenti condividono in fondo la stessa fede, e cioè l’idea che siamo interamente responsabili del nostro destino.

 

Secondo Sandel, è precisamente questa “concezione estrema della responsabilità individuale che rende difficile il senso di solidarietà e di obbligazione reciproca che potrebbero aiutarci a fronteggiare le disuguaglianze del nostro tempo”. A tal fine la sua proposta è rivolta soprattutto a un ripensamento su basi nuove sia dell’educazione sia  del lavoro. Ma per quanto sia azzeccata l’individuazione dei due ambiti, ho l’impressione che in questa sua pars construens il libro perda molto del suo fascino. E dire che l’idea di una sorta di responsabilità limitata da parte di ciascuno di noi rispetto al nostro destino, il peso della fortuna sulla vita degli individui e delle comunità, le innumerevoli conseguenze inintenzionali delle nostre azioni, un’educazione da ripensare ben oltre le esigenze della vita sociale, quali che siano, sono elementi fondamentali per una politica che, anziché limitarsi al pil o ai consumi, cerchi di “ricostruire i legami sociali distrutti dall’epoca del merito”, senza affidarsi troppo, aggiungo io, a forme più o meno esplicite di costruttivismo. Sandel ha sicuramente ragione quando scrive che “solo in quanto dipendenti dagli altri e in quanto riconosciamo questa dipendenza possiamo apprezzare il contributo degli altri al nostro benessere collettivo”. Ma mi sarebbe piaciuto un esito, diciamo così, più liberale in ordine al significato da attribuire a questo “benessere collettivo”, nonché qualche diffidenza in più in ordine alla capacità degli uomini di costruirlo a tavolino.

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