Elaborazione grafica di Francesco Stati

il foglio del weekend

La missione di Virginia, la contessa-spia sabauda alla corte di Napoleone III

Annamaria Guadagni

Una nuova biografia della leggendaria contessa di Castiglione, agente di Cavour nel letto dei potenti, svela le sue fragilità

Bella era bella Virginia Verasis di Castiglione, anzi bellissima, divina creatura fin da bambina. E sapeva di esserlo, il suo amor proprio non avrebbe tollerato qualcosa di meno. Era così dannatamente vero che sua madre considerò la sua reputazione di adolescente “un affar serio”. Era astuta, anche: dotata di un sicuro istinto per l’ascesa mondana e di un vero talento per la simulazione. Avrebbe potuto essere una grande interprete, fece l’attrice nella vita spaziando dalla commedia al melodramma. Certamente è stata la prima celebrità nel senso moderno del termine. Una che voleva “essere famosa per essere famosa”. Ossessionata dal culto della propria immagine e capace di crearsene una, lavorando la propria icona con i mezzi offerti da un’arte allora in ascesa: la fotografia. I parigini avrebbero pagato volentieri il biglietto per vederla con uno dei suoi favolosi costumi e i giornali potevano attribuirle qualunque indecenza. Lo racconta Benedetta Craveri in una nuova biografia, pubblicata da Adelphi, che arricchisce la sua straordinaria collezione di ritratti di grandi dame con La Contessa - Virginia Verasis di Castiglione, una storia della Castiglione, la spia che Cavour mise nel letto di Napoleone III, rivisitata grazie alla scoperta di nuovi documenti, diari e corrispondenze di chi le fu vicino e – soprattutto – grazie alle lettere che scrisse lei stessa in una lingua meticcia, italo-francese, al suo solo amico, il principe Giuseppe Poniatowsky, con il quale aveva stretto un patto di complicità ai tempi della sua missione a Parigi. “Duemila pagine di straordinario monologo epistolare”, in cui la Contessa si racconta “all’unica persona con cui poté essere se stessa”.

 

Eccoci dunque dentro un sontuoso affresco d’epoca, dove la storia europea si intreccia con la vita, con il costume, con la mentalità e con la psicologia dei protagonisti. Tenendo sempre  al centro lei, Virginia, Nini, Ninny, Bisisi, Nicchia. La ragazzina di provincia, fiorentina-spezzina, figlia di un diplomatico già deputato del Parlamento subalpino e amico di Massimo D’Azeglio, che vediamo farsi largo nei salotti di Firenze, la città più gaia, sostenuta dalla benevolenza di Lady e Lord Holland, ministro del Regno Unito presso il granduca di Toscana. Aveva imparato rapidamente le lingue e a dodici anni padroneggiava il francese, l’inglese e il tedesco; a quindici era già nelle cronache mondane. Quando conquistò Torino, dove giunse  nel 1854, sposa diciassettenne  del conte di Castiglione, più anziano di lei di undici anni e devoto suddito d’amore, la severa aristocrazia sabauda si affollava a teatro sotto il suo palco per ammirarla. Per il debutto a corte, dove fu accolta grazie ai buoni uffici di Massimo D’Azeglio, la nobiltà saliva sulle sedie per poter assistere al suo incedere. Un fenomeno, la cometa di un’epoca. La tappa successiva sarà Parigi, dove Virginia giunse nel 1856 e dove divenne diva mondana, ideatrice di pirotecniche uscite in elaborate mise: abiti eccentrici e parrucche incipriate, cariche di piume e di perle, che fecero di lei una celebrità sempre presente sui giornali. Una meraviglia italiana talvolta velenosamente criticata per cattivo gusto, ma in fondo avvolta da un’aura di ammirato stupore. Qualcosa di cui non si potrebbe capire l’importanza – scrive acutamente Benedetta Craveri – senza considerare che all’epoca del Secondo Impero  la moda, il trucco, l’artificio, il travestimento rappresentavano, “non diversamente dalla letteratura, un processo artistico che estetizzava la natura, la ‘ornava’, sottraendo l’uomo alla sua animalità”. La Contessa era insomma lo spirito del tempo: la persona giusta nel posto e al momento giusto.

Conquistò Parigi in meno di un mese e  la sua irresistibile ascesa la spinse – come si sa –  tra le braccia dell’imperatore parvenu, quello che si era messo la corona in testa con un colpo di stato, che invano cercava la legittimazione dell’aristocrazia europea e che, per l’Italia, dove la sua famiglia aveva trovato rifugio, aveva un occhio di riguardo. Erano fatti per incontrarsi, dunque, forse anche perché lui era già in età, aveva cinquant’anni, mentre lei ne aveva solo diciannove: nelle corrispondenze e nei diari, infatti, lo avrebbe sempre chiamato sprezzantemente il Vecchio. Se al primo incontro lei fu intimidita, e lui la trovò “bella ma priva di esprit”, al secondo giro fece colpo. Si incontrarono sulle scale, la Contessa andava al ballo che l’Imperatore stava lasciando. Lui disse: “Arrivate assai tardi, signora”. E lei: “Siete voi, Sire, che andate via assai presto”. 

Napoleone III aveva intorno una corte giovane e gaudente, democratica e populista, dall’identità “sommaria e raccogliticcia”. Sua moglie, Eugenia de Montijo, era una grande di Spagna sposata per amore e al momento distratta dalla sua prima maternità. Del resto, era tutt’altro tipo di signora: romantica, utopista, poco interessata al sesso. Quando arrivò Virginia, dal matrimonio, lui non aveva ancora avuto un’amante titolare. Poi ne avrebbe avute altre, ma la Contessa era così provocatoria e incline allo spettacolo da suscitare sicuro imbarazzo. Si capì che l’affare era fatto durante una festa, quando i due si allontanarono in barca, con l’imperatore ai remi, verso un isolotto boscoso dal quale lei tornò spiegazzata. L’imperatrice avrebbe provveduto a farla sorvegliare e brigato nel tempo per favorire l’insediamento di un’altra amante ufficiale, tanto l’italienne le parve politicamente pericolosa e socialmente eccessiva.

 

Ormai la missione era in corso. La Contessa, che prima di lasciare Torino aveva ceduto a Vittorio Emanuele II, nominato nelle sue carte come “il Porco re” per la brutalità animalesca che esercitava in modo seriale, era stata arruolata  da Cavour “nei ranghi della diplomazia” e invitata “a conqueter e a sedurre, ove d’uopo”. Il prezzo pattuito per le informazioni sottratte all’imperatore (ma questo, mentre annunciava l’avvenuto ingaggio in una lettera al ministro degli esteri Cibrario, Cavour non lo diceva) era un incarico diplomatico di prestigio per il padre di lei, considerato “un imbecille” ma promosso con l’avallo del re. Insomma tutti avevano un tornaconto in quella complessa partita che - vista in prospettiva, dall’alto - aveva il suo grande obiettivo politico: ottenere l’appoggio della Francia in ragione del comune intento di sgretolare l’ordine europeo stabilito con il congresso di Vienna dopo la disfatta di Napoleone. E porre così la questione delle autonomie nazionali. La questione dell’Italia.

Visto dal basso, invece, tutto suonava piuttosto greve, come da missive inviate la fiduciario di Cavour alla Contessa: “Fatevi bionda, bionda come un campo di grano. È necessario, siamo intesi?”. Oppure: “Ricordatevi di tirar fuori il verme dal naso del Vecchio” (il curioso esercizio sul verme si deve alla mala traduzione di una frase idiomatica francese, che significa spillare informazioni). In fondo, lo sapevamo che questo era stato il compito della contessa di Castiglione e che l’impresa univa interessi di famiglia (la carriera del padre) e questioni di stato. La bellissima Contessa fu usata e poi scaricata quando divenne imbarazzante per tutti. Quello che non conoscevamo, e che questo libro ci svela, è la versione di Virginia.

Non ci sono documenti di pugno della Contessa al tempo della missione e dunque sul suo primo soggiorno a Parigi parlano i contemporanei, tratteggiando il ritratto di una giovane donna tanto bella quanto antipatica. Un’incarnazione del “piacere aristocratico di rendersi sgradevoli”, allora definito da Baudelaire. Un “narciso femmina in adorazione  davanti alla propria beltà, senza tenerezza, senza dolcezza nel carattere, ambiziosa senza grazia, sprezzante senza motivo…” e via dicendo, secondo il conte di Fleury. Per madame Carette, dama di Palazzo, era “una bellezza definitiva, fuori del tempo”, ma ”il fascino incredibilmente non c’era. Il bel viso era sempre atteggiato a un’espressione di alterigia, di durezza, che faceva pensare a quelle divinità che gli antichi cercavano di placare con i sacrifici”. Magnifica la descrizione della festa dove Virginia si presentò vestita da dama di cuori, con una chiara allusione alla sua capacità di incatenarli. L’amante dell’uomo più potente del momento non poteva che suscitare malignità. La sorpresa, leggendo le carte di Virginia, è che i maligni non erano poi tanto lontani dal vero: l’unica cosa che sembrava interessarla veramente era il potere che esercitava sugli altri attraverso la bellezza e, al massimo del delirio d’onnipotenza, il suo buon uso per tenere in scacco il mondo. Quando questa forza magnetica cedeva, la Contessa precipitava nel vuoto, nella rabbia, nella malinconia, nello spleen.

Nel backstage della diva ci sono le angustie di una signora anaffettiva: dietro l’attrice c’era  una donna bisognosa dell’adorazione continua per la quale aveva sviluppato una specie di dipendenza fanciullesca, infantile. Era spinta dalla costante necessità di verificare le sue capacità seduttive, perfino con il figlio bambino. Teneva una contabilità amorosa da dongiovanni, adottando un cifrario per annotare il grado di intimità concesso a questo o a quello. Il sesso era un gioco senza importanza, si dava con indifferenza, come una divinità; la freddezza era insieme la sua forza e la sua fragilità estrema. Perché non poteva fare a meno del calore altrui, dell’ammirazione e delle lusinghe. Visse nel culto di sé che, col tempo, l’avrebbe resa patetica. Non riuscì ad accogliere l’affetto dei pochi che l’amarono: il marito, di cui si stancò nel giro di un anno; il figlio, che finì per rivoltarsi contro di lei; o il principe La Tour d’Auvergne, il diplomatico francese che usò per tenere sulla corda Napoleone III quando, caduta in disgrazia, dovette lasciare Parigi. Il principe l’amava e con lei aveva stabilito una profonda confidenza:  “Tu sei me”. Si sarebbe preso cura di lei e del bambino, visto che ormai si stava separando da Castiglione, in cambio chiedeva una sola cosa, proprio quella che lei non poteva dare: essere corrisposto. “Amare non vuol dire umiliarsi”, le scriveva, “si può confessarlo senza vergogna a qualcuno che vi ama. Tu invece se fossi innamorata non lo diresti…”.

 

Ma la Contessa era sempre altrove, presa da piani di rivalsa e progetti di conquista un po’ maniacali. Al tempo della relazione con La Tour d’Auvergne, le premeva ristabilire il flusso di informazioni che l’imperatore le aveva fornito e che si era interrotto con lo sfratto da Parigi: quello che le avrebbe permesso di continuare ad accedere a speculazioni finanziarie per garantirsi l’indipendenza economica. Per questo era disposta a spingersi al limite del ricatto (usare le lettere che aveva ricevuto da lui) ed era indignata dalla proposta di risarcimento che le era giunta: una liquidazione di appena seimila franchi. Forse Virginia non aveva cuore, ma aveva certamente audacia e fiuto per l’intrigo. Li usò per la cospirazione politica, per procurarsi denaro speculando in Borsa, per ottenere fama e attenzioni. Nei limiti delle condizioni sociali e culturali del tempo, fare l’amante di un uomo potente era uno dei pochi modi con i quali una donna poteva influenzare i grandi traffici del mondo. E questa era la sua ambizione, l’altra metà delle cose. La Contessa, che credeva nell’Italia e nella sua libertà personale, non fu peggiore degli uomini che la usarono. Pagò il prezzo (imperdonabile) di conoscerne le debolezze più intime. 

Appaiono ridicoli i potenti che si piegano alle sue grazie. Rimasta vedova a soli trent’anni, Virginia intuì di non avere ancora troppo tempo davanti e giocò la carta del re d’Italia, il noto predatore sessuale di cui aveva subito la prepotenza da ragazza e con il quale aveva poi mantenuto rapporti occasionali. Seppe tenergli testa, subissandolo di continue pressanti richieste e obbligandolo a trattarla da signora. Davanti a lei, Vittorio Emanuele si piegò in goffe movenze galanti: “L’infelice Padrone bacia le mani alla carissima Nicchia, 28 luglio 1867”. Oppure: “Signora contessa Verasis, stasera mi avete lasciato senza fiato per l’emozione”.

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