La mistica di Verdi: "Giovanna d'Arco" torna in scena a Roma

Marina Valensise

Demoniaca, pastorale e militare, ma soprattutto mistica. La “Giovanna d’Arco” del maestro parmense torna dopo cinquant’anni al Teatro Costanzi. Fu disprezzata dalla critica, ma era la sua opera prediletta

Diffidate dei musicologi, prestate fede solo agli artisti. Il caso della Giovanna d’Arco conferma la regola. Torna dopo cinquant’anni al Teatro Costanzi di Roma la settima opera di Giuseppe Verdi, in una nuova produzione sotto la direzione di Daniele Gatti, che esordì dirigendo questo titolo nel 1983, e con la regia e le coreografie di Davide Livermore che annuncia un allestimento spettacolare. Verdi compose l’opera in appena un mese, nell’inverno 1844-1845, quando era  un  compositore trentenne e ancora in ascesa, pronto a tutto pur di affermare il suo talento e occupare lo spazio rimasto libero nel teatro musicale dopo ritiro di Rossini, la prematura morte di Bellini e il declino di Donizetti. Dopo il trionfo del Nabucco, s’era messo a macinare una partitura dopo l’altra, rispondendo alla pioggia di commissioni che gli veniva da tutti i teatri lirici degli stati italiani, aggiogandosi di buon grado ai impresari esigenti, librettisti zelanti, primedonne volubili e gentildonne querule e petulanti. Instancabile, vagava tra Roma, Milano e Venezia, per assistere alla prima di uno spettacolo, seguire le prove di un altro, tenere d’occhio cantanti e orchestrali, e tutto questo nonostante la salute malferma, i non pochi acciacchi, la nevrastenia incombente. Certo, nonostante i ritmi di lavoro paurosi, restava  un uomo generoso, pronto a dare lezioni di musica  al figlio del calzolaio di Busseto, Emanuele Muzio, che diventerà l’unico suo vero l’allievo, l’assistente, il confidente, l’amico, lasciandone una testimonianza ispirata: “Il signor Maestro compone a tutta possa, e non sorte di casa che verso all’ora di pranzo. (…) Nessuna Giovanna ha mai avuto musica più filosofica e più bella (…)”.


In soli due anni, tra il marzo 1844 e il marzo 1846, lavorando come un forsennato, Verdi sfornò ben cinque opere nuove (“Ernani”, “I due Foscari”, “Giovanna d’Arco”, “Alzira”, “Attila”), e altre sette le scrisse fino allo “Stiffelio” del novembre 1850.  Per lui furono gli “anni di galera” come scrisse egli stesso ripensando a quella stagione febbrile di lavoro forzato. E fra le opere di quegli anni, la Giovanna d’Arco, aveva per lui un suo primato:  “E’ la migliore delle mie opere, senza eccezione e senza alcun dubbio”, telegrafò infatti all’amico librettista Francesco Maria Piave, dopo la prima alla Scala, messa in scena il 15 febbraio 1845, appena tre mesi dopo l’ultima recita dei Due Foscari al Teatro Argentina di Roma. 


Un’opera migliore del “Nabucco”, dell’“Ernani”, dei “Lombardi”, dei “Due Foscari”? Sì. Era quello che pensava Verdi. Un’opera che aveva in sé, come scriveva Muzio, tutti i generi musicali, il teatrale, il religioso, il marziale? E che avessero ragione lo spiega bene Daniele Gatti – punto da riferimento nella direzione del  Verdi maturo, ed esegeta attentissimo del Verdi giovanile – quando osserva che  all’epoca  il Maestro di Busseto avesse già le idee chiare sul taglio da dare al suo teatro e sulla sintesi necessaria per mettere un dramma in musica. Nella Giovanna d’Arco, infatti, si alternano sin dall’inizio tre aspetti chiavi, il demoniaco che apre la sinfonia iniziale, la pastorale, che rappresenta la semplicità del mondo contadino di Giovanna e la sua stessa ingenuità, e l’aspetto militare, della guerra e della vittoria. E il gioco di Verdi sta tutto nell’intreccio continuo e sorprendente di questi elementi.  

 

Eppure, nonostante l’apprezzamento dell’autore stesso e del suo esecutore più accreditato, la Giovanna d’Arco, quantunque sin dall’inizio ben  accolta  dal pubblico,  andò incontro alle riserve della critica, che si mostrò subito alquanto tiepida verso quel melodramma a sfondo storico, tratto da una fortunata tragedia di Friedrich Schiller, “Die Jungfrau von Orleans”, uscita a Lipsia nel 1801 e segnata da spettacolare successo. “Il comune giudizio intorno al merito di questa opera non è così concorde come può sembrar dagli applausi che s’udirono  in teatro”, scrisse per esempio il critico della Gazzetta Musicale di Milano nel marzo 1845. “Molti l’hanno stimata produzione non inferiore alle altre del valente compositore; altri inferiori dal lato della novità delle idee”, continuava Geremia Valenti così chiosando: “A noi pare che il vero sia un po’ dell’una un po’ dell’altra. Non inferiore alle altre anzi superiore né sembra in generale dal lato dello stile, del concetto complesso, e principalmente dell’istrumentazione… Inferiore in quanto alle nuove immagini, le quali particolarmente nelle cabalette si sentono difettare in alcun luogo. Lodevole sopra modo è rispetto allo studio, non abbastanza irradiata dal genio rispetto all’invenzione”.

 

Della genesi della Giovanna d’Arco, in realtà, sappiamo poco e niente, a parte la testimonianza di Muzio che per la “terribile introduzione” parla di una “ispirazione  avvenuta in mezzo ai dirupi durante un viaggio tempestoso attraverso l’Appenino”. Certo, sappiamo che gli venne   commissionata dal terribile Marelli, l’impresario della Scala con cui Verdi poi finì per litigare, tanto da disertare per anni il teatro milanese. Sappiamo che affidò il libretto a Temistocle Solera, che aveva giù firmato quello dell’Oberto, dei Lombardi alla Prima Crociata, e del Nabucco. Ma non sappiamo quello che Verdi pensava di Schiller, del suo teatro romantico, tradotto in versi da Andre Maffei, teatro al quale avrebbe largamente attinto per i Masnadieri, la Luisa Miller e il Don Carlos. Quanto alla Pulzella d’Orleans, sappiamo che rispetto a Schiller, Solera nel suo libretto ridusse notevolmente il numero dei personaggi, da 24 a 5, amputando i protagonisti dell’evoluzione psicologica, e penalizzandoli con non poche incongruenze. Così con l’accusa al librettista, si salvava il compositore, e intanto nel dramma di Verdi la contadinella che sprona il re di Francia alla battaglia, a differenza di quanto succede nella tragedia di Schiller, non si innamora più del nemico inglese, il comandante Lionel, ma addirittura dello stesso Carlo VII, il re di Francia, il quale, a sua volta, appena vede la Pulzella assorta a pregare la vergine in un bosco, immantinente si scopre di amarla.


Pazienza se la poveretta è una quindicenne semianalfabeta, che pur sentendo dentro di sé le voci celestiali risulta ben lontana dalle raffinatezze di un’amante regale, considerata la vita agreste, la scarsa igiene e la brutalità dei costumi che la circondano, motivo questo di  insanabile perplessità agli occhi di Paolino Isotta. Altro elemento critico, il padre di Giovanna, anziché proteggere la figlia, ne diventa l’accusatore implacabile. Fanatico bigotto, tormentato dal sospetto che la ragazza sia in balia del demonio, Giacomo si convince della sua impurezza, e la consegna al nemico. Addirittura interrompe la consacrazione del re nella cattedrale di Reims, per inchiodarla a rispondere dell’accusa di eresia. Interrogata, la povera ragazza reagisce col silenzio. Rinuncia a difendersi, e del resto non potrebbe, e precipita così la sua condanna. Solo alla fine, e non si sa perché, il padre fanatico e cretino si ravvede, ma troppo tardi per impedire il sacrificio della figlia, vergine e martire, che sul campo di battaglia del nemico, salvando però la vita al re di Francia.

 

L’arte non contempla verosimiglianza, avvertono gli esperti veri che sono i produttori teatrali. Giusto. Ma il dramma in musica dell’eroina medievale che salva la  monarchia francese fonda la nazione cristianissima, e la reductio ad absurdum del suo mito leggendario, una volta abolito il processo, abolito il rogo, e con in più l’aggiunta della cotta per il re Carlo VII, ha scatenato le riserve dei musicologi. Da Massimo Mila, che cita il giudizio dell’inglese Osborne il quale vedeva nel dramma di Verdi  “un campione di alato nonsense romantico”  al povero Isotta, che dopo attenta esegesi  si domanda : “Come ha fatto il Maestro ad accettare della spazzatura simile, egli che intorno al Libretto era così difficoltoso?”, nei critici militanti è tutto un fiorire di sopracciò. 


E allora per capire qualcosa e innanzitutto per spiegare il giudizio dello stesso Verdi, urge  ritornare agli artisti, e magari affidarsi direttamente a Davide Livermore, il regista visionario dell’opera lirica, che si considera un militante dell’arte e della bellezza e che in soli due mesi ha firmato le scene e le coreografie della nuova produzione al Teatro dell’Opera di Roma, superando le difficoltà e camuffando gli ostacoli imposti dal distanziamento. “Il fatto è che oltre l’aspetto risorgimentale della patria offesa e ferita, in quest’opera di Verdi c’è un tema importantissimo, che è quello della mistica, raccontata in un’epoca prefreudiana. Se una ragazza ascolta le voci divine e ci crede, e non è un’isterica e neanche un’impasticcata, vuol dire che c’è stato un tempo in cui queste cose venivano lette in quel modo. Verdi stesso non giudica la storia. Non mette la sua eroina in cattiva luce, o in una luce patologica. Ma ripensa la storia di Schiller e ne racconta la parte mistica. E’ quello che anch’io ho cercato di fare”, dice Livermore, che oltre a essere un regista è un cantante e un musicista: “Raccontare la parte mistica, la dimensione invisibile che lega l’uomo al suo destino”.

Ecco allora che tutto l’apparato di angeli e demoni, di spiriti eletti e spiriti malvagi, che s’agitano nella mente di Giovanna, scissa com’è tra sacro e profano, diventano come gli uomini depositari di tutti i modi di agire. “Sono le nostri azioni a determinare la nostra vicinanza al maligno o all’essenza umana più reale, che mi piace pensare sia proprio quella divina”, spiega Livermore, elogiando il lavoro straordinario fatto con la direttrice  del corpo di ballo dell’Opera di Roma, Eleonora Abbagnato, per raccontare il mondo dell’invisibile. Quanto poi al padre cretino, al bigotto ondivago che passa dal ruolo di accusatore implacabile della figlia indemoniata, al pentimento: “Sarà anche un personaggio insulso, di poco valore morale, ma dal punto di vista drammaturgico è un motore straordinario: Giacomo è uno snodo narrativo che produce effetti cruciali. Il suo pentimento porta alla liberazione di Giovanna. C’è una scena che è quasi una radiocronaca, col racconto di una battaglia fatto da Verdi in modo magnifico, tanto che sentiamo i rumori delle armi, e il commento di chi la sta guardando. E se la dimensione orchestrale è esaltante, per la ricerca impressionante di timbri e di colori, la cosa  più emozionante per me è la voglia di credere a questa storia, al fatto che un uomo non religioso come Verdi sia in grado di sentire profondamente la mistica della vita e di restituirla nelle pagine della sua musica. Mistica della vita, insisto, non religiosità: la musica di Verdi fa sentire proprio questa dimensione dello spazio visitato dall’invisibile eppure presente in mezzo a noi, e lo racconta come un contraltare continuo tra cabalette di grande graffio, di grande morso,  di gran furore e virilità vocale, anche se cantate da un soprano (nella fattispecie il georgiano Nico Machaidze, mentre il tenore Francesco Meli interpreta Carlo VII e il baritono Roberto Frontali ha il ruolo di Giacomo) le frasi che invece sospendono  questo spazio invisibile sulla nostra  quotidianità”.

Vedere per credere, tornare a teatro per ritrovare l’invisibile e l’opera che Verdi stesso considerava la migliore fra quelle composte “anni di galera”. Appuntamento domani al Teatro Costanzi, per la prima alle ore 19 (trasmessa in diretta su Rai Radio 3) e per le repliche martedì 19, venerdì  22 alle 20 e domenica 24 alle 16 e 30.

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