Un ricordo di Mario Andrea Rigoni
È morto lo studioso, narratore e poeta, professore emerito all'Università di Padova. Lettore originale di Leopardi, amico e traduttore di Cioran. Era capace di parlare leggermente di cose gravi e seriamente di frivolezze
Venerdì scorso è morto Mario Andrea Rigoni. Era professore emerito all’Università di Padova, illustre studioso di Leopardi, amico e traduttore di Cioran, saggista, narratore e poeta. La lunga e dolorosa malattia non gli aveva impedito di ritoccare e controllare fino all’estremo i suoi ultimi lavori, una nuova edizione del Pensiero di Leopardi (La Scuola di Pitagora) e un secondo libro di poesie (dopo Colloqui con il mio demone, Elliot 2021), “testamentario”, come lo battezzò pochi giorni fa chiacchierando ancora spigliatamente, nonostante le sofferenze, nel giardino di casa, tra glicini e arbusti, luci e ombre di fine estate. È stato un innovativo lettore di Leopardi, un dotto esploratore della letteratura emblematica cinquecentesca e barocca, un sodale dell’aforisma; l’amicizia risale alla giovinezza e trovò una prima brillante realizzazione nelle Variazioni sull’impossibile (Rizzoli 1993), proseguendo fino ai recenti Fondi di cassetto (Elliot 2019) e agli originali e accostevoli poémes en prose dei Colloqui con il mio demone.
Brillante erede dei moralisti classici francesi, il suo magistero di “academico di nulla academia”, come lo ha definito il suo allievo Raoul Bruni, rievocando Giordano Bruno, può essere riassunto con le parole che dettò per l’amico Cioran, cioè ricerca dell’essenziale, soprattutto tra le discipline che tendono a trincerarsi dietro linguaggi e teoresi intimidatori come la letteratura e la filosofia; spirito antisistematico del pensatore “non professionale” e del flâneur; interesse verso i grandi saggi dell’umanità, orrore dell’ufficialità, culto della chiarezza e rifiuto del gergo, simpatia per i generi letterari che hanno l’impronta immediata dell’io, come i diari, le confessioni, le memorie, le autobiografie.
L’uomo si allineava perfettamente a questo orientamento, con la sua umoralità, lo snobismo ludico, i gesti eleganti che gli erano peculiari, i giudizi tranchant, talvolta sbottati in dialetto vicentino, la capacità – ormai rarissima – di valorizzare un dettaglio, di parlare leggermente di cose gravi e seriamente di frivolezze, o di intrattenerti in cucina davanti a due caffè recitando una magnifica poesia di Zbigniew Herbert: lasciato cadere teatralmente il libro sul tavolo, esalare infine un entusiasta e fanciullesco “ma daai…”.
Ci mancheranno, e molto, il carattere saturnino e insieme epicureo, l’eccentrica sapienza, la curiosità intellettuale, l’eloquio colto ma accostante e quasi premuroso. Come ha scritto Paola Capriolo, nei suoi testi creativi non a caso era divenuta cruciale negli ultimi anni un’umile attenzione verso la vita, tanto rigorosamente messa sotto accusa come idolo metafisico quanto amata nella sua fragilità e rispettata nelle sue minime manifestazioni. Rifletteva infatti Mario Rigoni con spietata autoironia nei Fondi di cassetto: “Mi sono convertito alla vita, adesso che è finita. Ultimo inganno: troppo denigrata, forse si è vendicata”. In uno dei suoi ultimi pensieri poetici, già minacciato da colei che aveva definito “Dama Bruna sempre alla moda”, tuttavia concludeva: “All’improvviso, voglia di ballare. C’è poco da fare: nel bel mezzo della disperazione, la vita ti riprende con la sua illusione”.