facce dispari
Fabio Scialpi, l'orientalista che recitò per Francis Ford Coppola
Il regista di Apocalypse Now arrivò a Roma dopo aver letto un libro di Mircea Eliade. E incontrò quasi per caso il discepolo di Giuseppe Tucci. Il viaggio rivelatore nell'Iran del '68, poi l'apprendistato fino alla cattedra alla Sapienza. Tra l'India e Roma, la ricerca del filo su cui si regge il mistero dell'amicizia
Si può credere che avvenga tutto per caso o pensare che un filo misterioso – chiamatelo karma, chiamatelo destino – colleghi gli episodi della nostra vita. Quando l’amica Wendy Doniger suggerì a Francis Ford Coppola la lettura di un romanzo di Mircea Eliade, lui decise di trarne un film dopo dieci anni di assenza dalla regia. E quando venne a Roma per cercare le tracce del grande orientalista Giuseppe Tucci, menzionato in quel libro, scoprì (“per caso”?) il professor Fabio Scialpi, che di Tucci era stato tra gli ultimi allievi. Lo colpì il volto singolare di quell’accademico al punto che lo volle nella parte dell’assistente di Tucci. E Scialpi, che non aveva mai recitato, in "Un’altra giovinezza (Youth without Youth)" rappresentò benissimo se stesso. Era il 2007 quando al cinema rivisse il rapporto di amicizia tra Eliade e Tucci e quello di discepolato fra Tucci e Scialpi, peraltro collega della Doniger negli studi indologici (Coppola, come tutti i maghi, ha la capacità di dipanare quel filo misterioso e i critici cinematografici, come tutti gli intellettuali asseverati, hanno il diritto di non capirlo). Ora Scialpi, già ordinario di Filosofia, Religioni e Storia dell’India e dell’Asia centrale alla Sapienza, ha compiuto ottant’anni cercando – o inseguendo – quel filo.
Professore, lo ha trovato?
Cerco di trovarlo ancora, verso la fine del tempo che ci è concesso per realizzare qualcosa prima di rivedere così com’è il Dio che ora intravediamo in uno specchio offuscato. L’importante è individuare la ragione della propria vita nella molteplicità del mondo fenomenico prima di tornare ‘ad unum’, provando ogni giorno a essere un po’ meno bruti in senso dantesco e più umani, umanistici e umanitari, fedeli al progetto che abbiamo cercato di sviluppare nella giovinezza.
Come si avvicinò agli studi orientali?
Dopo un viaggio universitario in Siria e in Iran nel ’68. Ero iscritto alla facoltà di Giurisprudenza, ma quando arrivai in Iran la scoperta di Zarathustra mi procurò una folgorazione. Cominciai a frequentare l’IsMEO, l’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente presieduto da Giuseppe Tucci, che nel ’69 m’incaricò di curare una mostra fotografica per il centenario della nascita di Gandhi, dedicata ai rapporti tra il Mahatma e l’Italia. In quell’occasione Tucci pronunciò, in Campidoglio, un discorso di straordinaria bellezza su Gandhi. Ne ho curato la ripubblicazione nel 2019, per i 150 anni del Mahatma. Questo mezzo secolo, dal ’69 al 2019, racchiude la coerenza dei miei studi.
Come ricorda Tucci?
L’uomo più straordinario di una generazione straordinaria di studiosi che ebbi la fortuna di conoscere: Alessandro Bausani, Mario Bussagli, Francesco Gabrieli. Umile e pronto allo scherzo, col desiderio continuo di imparare e trasmettere la conoscenza agli altri.
Cosa distingue l’università della sua gioventù da quella di oggi?
Prima di arrivare alla Sapienza, quegli studiosi avevano girato vari atenei. Tucci stesso aveva insegnato cinque anni in India. Oggi il sistema dei concorsi autoprotegge chi c’è e spesso esclude chi è dotato di motivazioni e competenze. Gli esami sono più facili e i programmi più leggeri per attrarre un maggior numero di studenti, perché l’elemento dominante, questo avviene anche all’estero, sono diventati gli introiti delle rette, con la conseguente pressione dei consigli di amministrazione sui docenti. Ora spero che il Nobel per la fisica a Giorgio Parisi possa valorizzare maggiormente i nostri atenei. La cultura italiana ha tanto da offrire al mondo.
Perché un ragazzo dovrebbe affrontare gli studi indologici?
L’India è sempre stato un Paese amico, con cui gli scambi politici, culturali e commerciali datano all’epoca romana, basta rileggere le Res gestae del divo Augusto. Nel ’74 curai una Mostra al National Museum di New Delhi per illustrare quei contatti nei secoli attraverso viaggiatori, missionari, esploratori. Oggi a maggior ragione, in un mondo con le distanze contratte e l’egemonia europea molto ridotta, l’India ci offre ricchezze sia di spiritualità sia di arti e tecnologie.
E dello yoga, a quel che pare.
Spesso attingiamo a prodotti culturali altissimi prendendo solo quello che ci serve o che adattiamo alle nostre esigenze, nell’aspetto più andante. Non so fino a che punto i praticanti occidentali comprendano lo yoga nel significato profondo, ma come scrive Tagore già un primo passo fuori del proprio villaggio è importante. Poi bisogna perseverare sul sentiero.
Più di mezzo secolo dopo averlo cominciato a studiare, cosa offre oggi il pensiero di Gandhi?
Sembra paradossale che la sua predicazione contro l’industrializzazione e la tecnologia esasperate possa essere attuale, invece lo è perché difende sempre i valori dell’uomo, non solo etici ma di creatività, molto importanti in un mondo quasi privato di fisicità dai pc e dagli smartphone. Gandhi insegna pure che non possiamo dimenticare milioni di uomini che vivono in una situazione di estrema povertà, addirittura che non hanno l’acqua, e che un mondo governato solo da interessi economici non può andare lontano. Se aspiriamo alla Pace perpetua kantiana, dobbiamo vivere più umanamente.