la mostra
Palermo centro dell'arte. Il presidio della fondazione Merz allo Zac
Degrado ed eleganza si incontrano nella città siciliana. Una mostra omaggia Borges e porta artisti di fama internazionale a due passi dal castello della Zisa
Lida Abdul - Time, Love and the Workings of Anti-Love, 2013
Marisa Merz - La conta, 1967
Mario Merz, Lumaca, 1970 + Lida Abdul, Time, Love and the Workings of Anti-Love, 2013
Lida Abdul - Time, Love and the Workings of Anti-Love, 2013 (Renato Ghiazza)
Alfredo Jaar Two or three things I know about Monsters, 2019 foto Valentino Bianchi
“Palermo è una cipolla”, recita il titolo del noto bestseller di Roberto Alajmo, la maniera più corretta – non ci stancheremo mai di dirlo – per definire al meglio questa città che, a differenza di quanto si possa pensare e a differenza di molte altre, cambia, interagisce, assorbe, si evolve. Come accade per quella Bulbosa Liliacea per eccellenza, Palermo puoi davvero aprirla e sbucciarla a piacimento e mentre lo fai, puoi ridere come piangere o fare entrambe le cose allo stesso tempo, secondo un gesto antico ma continuo che sembra non finire mai, volto a farti scoprire posti nuovi o dimenticati, pronti a tornare in auge in poco tempo.
Uno di questi è sicuramente lo Zac, acronimo di Zisa Zona Arti Contemporanee, uno spazio espositivo attivo dal 2012 che ha ospitato, negli anni, mostre ed installazioni artistiche di centinaia di artisti di fama internazionale. Anche lì c’è il fuori e il dentro, il degrado e il nuovo, la semplicità come l’eleganza, un enorme spazio con piccoli spazi di verde, murales e oggetti abbandonati circondati dai palazzoni anni 70/80, ma anche dal castello della Zisa con il suo parco normanno. In quell’altro ampio spazio che è lo storico padiglione centrale, è la luce naturale a dominare assieme a quella con i colori artificiali del grigio e dei neon, come quello di Alfredo Jaar, tutto in rosso, già esposto al Teatro Bellini durante Manifesta, l’ultima prima della pandemia, dedicata alla celebre frase di Antonio Gramsci: “Il vecchio mondo sta morendo, quello nuovo tarda a comparire e in questo chiaroscuro nascono i mostri”. Per fortuna, da queste parti nascono solo bei progetti e vi basterà entrare nell’edificio per vedere cos’è effettivamente Zacentrale, il progetto con cui la torinese Fondazione Merz, dopo diversi anni di intensa attività sul territorio, ha deciso di inaugurare proprio a Palermo un presidio permanente dedicato alle arti del nostro tempo grazie a un accordo triennale con la municipalità.
Una rinascita, dunque, per (e della) città, sempre più centro dell’arte grazie anche alla Biennale del Mediterraneo, alla già citata Manifesta e al neonato Palazzo Butera. Qui alla Zisa – dove troverete anche ‘vicini’ eccellenti come il Centro di Fotografia, il Goethe Institut, l’Insitut Français e l’altrettanto scenografico Crezi Plus – è nata, dunque, una nuova e stimolante avventura espositiva e culturale grazie anche alla fondazione sabauda e alla sua presidente, Beatrice Merz, curatrice con Agata Polizzi della mostra “L’altro, lo stesso”, aperta al pubblico dal 26 ottobre fino al 27 marzo del prossimo anno.
“Borges è omaggiato con quel titolo che riprende una sua raccolta di poesie dedicata – come spiega al Foglio la presidente – al processo di ricreazione con cui la natura alimenta continuamente la nascita di nuova vita”. Non è un caso, quindi, se al centro della luminosa ed elegante sala, ci siano i tavoli di Mario Merz, una doppia spirale che ci restituisce, a sua volta, altri resti poetici, stavolta del persiano Rumi: “Se la forma scompare la sua radice è eterna” e “Pietra serena deposita e schiacciata dal proprio peso così tutto quello che è in basso va in alto e tutto quello che è in alto va in basso, sopraelevazione e opera incerta di pietra serena”. “Architetture che rubano la scena per la loro imponenza – aggiunge la Merz – per restituirla facendosi appoggio e fulcro”. Che è un po’ quello che ha fatto e continua a fare in tal caso la sua fondazione per questa città, finendo sempre con lo stupire, portando un valore aggiunto palesemente visibile senza mai stravolgere.
“La frutta sui grandi vassoi è vera - ci spiega Polizzi, palermitana doc – ed è stata volutamente inserita in un vortice di decomposizione e composizione, secondo un prendersi cura dell’altro applicato così anche alle opere e capace di innestare elementi attivi, dinamici e mutevoli”. Periodicamente, infatti, tutta quella frutta verrà donata ad un’associazione della Zisa che potrà così beneficiarne, “facendo marmellate, perché no, o ottime caponate, come è già successo con quella già eliminata nei giorni di pre-allestimento e sostituita”. “Nel suo insieme, il programma Zacentrale andrà ad esplorare e a riflettere sull’ambiente, aggiunge la presidente e curatrice, promuovendo in ogni ambito pratiche responsabili e sostenibili. La pandemia mi ha insegnato a fare le cose al meglio della mia sensibilità e ad avere buoni rapporti con gli altri”, continua, “princìpi che ho messo in pratica qui più che mai. Fondamentale è il rispetto dell’ambiente come il ruolo che in esso gioca l’uomo quale agente di trasformazione”. “Siamo convinte – aggiungono entrambe – che pratiche ispirate a criteri di responsabilità e sostenibilità debbano informare non soltanto il rapporto con l’ambiente, ma anche innervare tutta la produzione culturale e la sua filiera di distribuzione”.
Da non perdere, durante il percorso, le opere inedite di Marisa Merz - disegni, lame di colore fluttuanti come le idee e un’energia che si irradia come una luce – la video installazione di Joan Jonas – contenuta in uno spazio raccolto che ricorda i teatrini serpottiani e che contiene i segreti dell’abisso condensati nella danza lieve di una grande balena – il film di Rosa Barba, la sua prova di evacuazione “come arte performativa” – e l’installazione sonora, all’esterno, di Maglioni e Thomson, una sirena seducente di voci e suoni che vi seguirà lasciandovi solo bei ricordi. Scenografica, la grande scritta della newyorchese Laurence Weiner – “Built at the edge of the grass” – splendide davvero le fototessere trovate dall’afgana Lida Abdul in una vecchia macchina fotografica (impossibile non pensare ad Amélie Poulain) che in “Time, Love and the Workings of Anti-Love” diventano immagini corali capaci di scuotere l’ego anestetizzato dei nostri giorni privi di pianto e di pietà.
Qui, come dovrebbe essere ovunque, è la libertà ad avere il sopravvento, praticata come necessità primaria e come metodo. Ogni elemento trova una ragione in uno spazio all’inizio vuoto che ha accolto il peso delle cose come fosse custode, distribuendole però con una gentilezza antica e trasferendo la potenza dell’idea in qualcosa di visibile ai sensi. L’arte, se considerata nutrimento da coltivare e far crescere, ritrova così il proprio senso più autentico: quello di bene comune da condividere, perché ha bisogno di essere una voce autentica capace di interpretare la forza vitale della natura, di guardare l’altro e di rivelare come siamo davvero.
Universalismo individualistico