Matti a chi?

Con "Crazy for football", su Rai 1, una storia di inclusione senza retorica

Dal documentario al film a (forse) una serie tv

Marianna Rizzini

Volfango De Biase fa diventare un film quello che era stato già un documentario da David di Donatello. La storia di Santo Rullo, lo psichiatra che ha scommesso sullo sport per andare oltre lo stigma

Una cavalcata nel buio, in piena notte da Covid: così, chi c’era, racconta oggi la lavorazione del film “Crazy for football-Matti per il calcio” (diretto da Volfango De Biase, in onda su Rai1 in prima serata il primo novembre, per una coproduzione Rai Fiction-Mad Entertainment). Erano i mesi in cui si stava affacciando la seconda ondata, esattamente un anno fa. E però qualcosa di magico si era creato sul set, tra protocolli e controlli, sulla soglia del secondo lockdown, al momento di far diventare un film quello che era stato già un documentario (stesso titolo, stesso regista, e un David di Donatello vinto nel 2017).

 

E forse più di un documentario: una sorta di diario-storia di Santo Rullo, lo psichiatra che ha scommesso sullo sport come trampolino per andare oltre lo stigma legato al disagio mentale, e per dare una possibilità di scommettere su se stesso a chi si trova a camminare lungo la linea di confine sottile tra normalità presunta e problema psichiatrico, e per provare a salvare dalla palude e dalla disperazione chi, a un certo punto della propria vita, scarta di lato, lungo il percorso, senza riuscire più a tornare indietro.

 

Nel film ci sono attori (da Sergio Castellitto a Max Tortora ad Antonia Truppo) dove prima c’erano i ragazzi che nella realtà hanno formato con Rullo la prima Nazionale italiana di calcio a cinque formata da persone con problemi di salute mentale, e che hanno giocato il primo Mondiale e poi quelli successivi, anche vincendone uno, nel 2018, allenati da Enrico Zanchini. E ci sono, nel film, le stesse paure e le stesse piccole vittorie – vittorie su disagi che sembrano insormontabili fino a che la motivazione e la sensazione di non essere soli non riescono a prevalere – e ci sono anche le parole che l’allenatore, interpretato da Tortora, dice a chi magari è considerato “matto” senza che ci si preoccupi di che cosa si nasconde dietro quell’etichetta. E se le parole sono importanti, come diceva Nanni Moretti in “Palombella rossa”, in questo caso le parole disegnano bene, nella scrittura di De Biase con Filippo Bologna, Tiziana Martini e Francesco Trento, i tanti singoli conflitti che compongono il quadro inizialmente impensabile di una squadra che va in campo prima di tutto contro il fantasma pervasivo della diversità.

 

Particolare non da poco: il film va in onda tra qualche giorno in prima serata su Rai 1, senza essere un prodotto nazional-popolare ma anzi proponendosi come storia non scontata e non monocorde – ironica e dura allo stesso tempo – di inclusione senza retorica (c’è ancora, a tratti, una Rai servizio pubblico? E’ l’effetto del quadro astrale favorevole dell’epoca Draghi?).

 

Il film, realizzato con il supporto della Federazione italiana giuoco calcio e della Divisione calcio paralimpico e sperimentale, entra nella complessità con delicatezza, e nella realtà dei protagonisti con uno sguardo non retorico. E mentre lo si guarda ci si ritrova a immaginare che cosa altro starà facendo il gigante buono che sembrava essersi perso, tra scatti di rabbia e cadute libere nel dolore, e che invece poi si calma davanti alla partita. E si vorrebbe seguire, domani, il ragazzo che ha smesso di alzarsi dal letto il giorno in cui suo padre, dopo un incidente, è tornato a casa in sedia a rotelle. O il giovane uomo che non riesce a oltrepassare la linea del campo e la propria linea d’ombra. O la figlia “non matta” che si trova a dover dividere le giornate con un genitore che forse non la vede davvero, e poi trova l’attenzione che chiede, a sorpresa, in lui ma anche in chi sembrava sordo alle emozioni (e forse la curiosità empatica dello spettatore sarà premiata: il film potrebbe diventare una serie tv). 
 

  • Marianna Rizzini
  • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.