spazio okkupato
Gli ultimi libri di Roberto Calasso ci fanno trovare il senso nell'infanzia perduta
Considerazioni su "Memè Scianca" e "Bobi", ora che dell'editore di Adelphi è in uscita anche il terzo volume postumo
Sono passati quattro mesi dalla morte di Roberto Calasso e tra due settimane uscirà Ciò che si trova solo in Baudelaire, il suo terzo libro postumo dopo Memè Scianca e Bobi che arrivarono in libreria il 27 luglio, il giorno prima che ne fosse annunciata la morte. A questo rilascio lento e meticolosamente pianificato dei suoi libri postumi corrisponde, almeno in me, un rilascio altrettanto lento dei suoi ultimi due. Ed è strano perché di tutta l’opera di Calasso – opera in cui, come ha scritto sul Foglio Francesco Cataluccio, deve essere in qualche misura inglobato l’intero catalogo Adelphi – Memè Scianca e Bobi sono i libri più esili e semplici. Il primo è un breve catalogo quasi impressionistico di ricordi d’infanzia che risalgono alla Firenze degli anni Quaranta, sparpagliati da chi non sembra più cercare un senso, ma descrive bagliori prima del buio. Bobi, il secondo librino, è invece una sorta di elogio funebre ancora più postumo per Bobi Bazlen, maestro di Calasso e fondatore di Adelphi con Luciano Foà, nato a Trieste il 10 giugno 1902 e morto a Milano il 27 luglio 1965 (curiosamente nello stesso giorno in cui, cinquantasei anni dopo, sarebbe uscito il libro).
Se a distanza di mesi continuo a pensare a Bobi – che è costruito per frammenti studiatamente sconnessi, soprattutto appunti di Bazlen – è a causa di una pagina, la 70, in cui è condensato, mi pare, il paradosso in cui oggi è intrappolato chi vuole fare cultura. Calasso sta parlando della pubblicazione da parte di Adelphi nel 1965 di un libro dello psicanalista austriaco Bruno Bettelheim e di sua moglie Gertrude Weinfeld, a cui Bazlen era fortemente contrario perché “era una sorta di manuale per discostarsi dalla orribile massa”. Nella lettera sdegnata in cui motivava il suo rifiuto a Informed Heart (Il cuore vigile), Bazlen scrisse parole quasi profetiche: “I Bettelheim sono una massa che ha capito i pericoli che presenta l’altra massa. Usano parole che erano giuste nella bocca di qualche singolo, ma che nelle troppe bocche dei troppi Bettelheim sono diventate parole di massa”. Bazlen intuiva, cioè, che la critica al conformismo si stava ribaltando in un altro genere di conformismo, ancora più detestabile perché protetto dalla pretesa di sentirsi migliore. Ma Bazlen descriveva anche, implicitamente, l’impossibilità economica della cultura, perché è il conformismo, quindi la massa, a generare i volumi necessari affinché l’impresa culturale prosperi. La chiosa di Calasso – “Credo che abbiamo rispettato il suo desiderio” – costituisce per me il cuore del libro, non perché sia d’accordo (perfino Adelphi fiorì quando la televisione la fece diventare di massa grazie a Roberto D’Agostino che a “Quelli della notte” inventò il tormentone sull’Insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera, dopo il quale i libri color pastello della Piccola Biblioteca cominciarono a essere comprati al metro da giovani sposi snob che li mettevano in casa come accessori di arredamento, oggetti di moda e simboli di status). E’ il centro del libro perché gira intorno alla consapevolezza che la cultura, da Baudelaire in poi, non può ignorare le mode e deve usare il conformismo, anche quando vuole combatterlo.
Ma è a Memè Scianca che continuo a pensare, come un tarlo. Mi strabilia l’immagine di un uomo che prima di morire, dopo avere cercato la verità sempre più lontano, nei miti greci (Le nozze di Cadmo e Armonia), nella Bibbia (Il libro dei libri), nei veda indiani (L’ardore), scrivendo libri di complessità crescente fin quasi a lambire le soglie dell’illeggibilità, si ritiri a ricordare i suoi primi anni di vita, i rumori dei topi notturni in un armadio ascoltati una notte da bambino, i “bosconi” in cui secondo i grandi “vivevano anche i cannibali”, il gioco del pallone, Ascari alla Mille Miglia intravisto tra i tigli del viale sotto casa, “un certo marzapane a forma di pesce, per Natale, o di agnello, per Pasqua”, l’odore dei bombardamenti su Firenze, “il polverio che sale dalle macerie di Porta Santa Maria”. E tutto questo mentre una folla di morti – raffinati intellettuali, contadini, matti del paese – gli si fa intorno, si fa intorno a chi morendo racconta di sé da bambino. Mi strabilia perché è come l’antica fiaba di quello che cerca il tesoro sempre più lontano, inseguendo una traccia dopo l’altra, finché ormai vecchio lo trova scavando nel cortile di casa. I primi anni, scrive Calasso alla fine del libro, appaiono separati da tutto quello che viene dopo da “una lastra impenetrabile e trasparente”. Non so che cosa custodisca quella lastra, ma credo che Calasso, dopo aver cercato un senso in regioni sempre più impervie, inaccessibili fino all’ineffabile, ci abbia sussurrato morendo che per noi l’unica verità è l’infanzia.