Guardoni in ballo. I Peeping Tom sbarcano in Italia
La compagnia di teatro danza belga più provocatoria che c’è ormai ha un successo mondiale. E deve molto, quasi tutto, a Pina Bausch
Addio a Pina Bausch? Sembra difficile. Il fantasma della pallida, ossuta e un po’ torbida regina del Tanztheater (teatrodanza) aleggia ancora sulla danza italiana. Solo un mese fa si è snodata nel centro di Milano la cosiddetta “Nelken Line”, una delle più celebri passerelle dei suoi capolavori anni Ottanta. Nell’83 di Nelken (garofani) i suoi primi meravigliosi interpreti e co-creatori sfilavano in abiti da sera, e in completi maschili con cravatta – le sue mises d’obbligo – restituendo a gesti la tenera erbetta primaverile, la verzura sotto il sole dell’estate, alto nel cielo, le foglie che cadono in autunno, i rigori dell’inverno. L’ondeggiante West End Blues di Louis Armstrong rimbalzava sui loro suadenti o maliziosi sorrisi in questa non meno che geniale metafora delle quattro stagioni. Ebbene, dal 2009, anno dell’improvvisa scomparsa della misteriosa principessa veggente e cieca che Federico Fellini volle in La nave va, a oggi, quella passerella sarà stata ripetuta, e non esageriamo, forse più di un centinaio di volte: in ogni città italiana grande o piccola, e da entusiasti dilettanti.
L’omaggio sarebbe piaciuto a Pina: il suo motto era avvicinare “la danza alla vita” e trasformare i ballerini in “persone danzanti”. Con questi dirimenti Leitmotive la Bausch ha dato una secca e irreversibile spallata a tutta la scena contemporanea creando un’infinita scia di epigoni e una ristrettissima cerchia di nuovi e benvenuti rivoluzionari del teatro in senso lato. Chi ha salutato per sempre Pina Bausch, senza neppure pensare al suo lascito, ormai totalmente introiettato, sono l’argentina Gabriela Carrizo e il francese Franck Chartier, saliti in breve tempo sull’Olimpo internazionale dei migliori. Si incontrarono a Bruxelles, nel 1995, lavorando sotto l’ala protettiva di Alain Platel, soprattutto del suo collettivo Les Ballets C.de la B (ovvero i Ballets Contemporaines de la Belgique), nome che strizza l’occhio con ironia alle sinergie artistiche d’inizio Novecento dei Ballets Russes di Sergej Djagilev. Quell’agglomerato di dilettanti e professionisti divenne ben presto fucina di artisti raccolti e poi lanciati come apostoli in tutta Europa. Dal summus magister belga Platel la nostra coppia rubò tutto e niente. Se ne andò nel 1998; due anni dopo si sposò e fondò un gruppo chiamandolo Peeping Tom. Mai nome fu più appropriato: per perseguire una strada di ricerca originale, raccontare storie legate alle persone, ai microcosmi famigliari, questi “guardoni” (in inglese il peeping tom è un voyeur spesso malizioso) si infilarono ovunque.
Scuole, centri sociali, asili, case di riposo e agglomerati urbani divennero terreni di caccia di un’umanità da mettere in risalto, ma osservata con occhiali dalle lenti deformanti. Già dalle prime creazioni, o trilogie, come Le Jardin, Le Salon, Le Sous Sol, precedute da Caravana, una pièce ambientata in una roulotte, risultò subito chiaro che l’aspetto onirico-surreale avrebbe avuto il sopravvento. “Amiamo trasformare ciò che accade alle persone e nelle loro relazioni, seguendo gli impulsi anche istintivi del corpo e valorizzando un flusso di idee che si tuffa in un deciso iperrealismo”, assicura la coppia. Altolà: fermiamoci! Se il termine adottato dai Peeping Tom è ben noto nell’arte visiva sin dagli anni Settanta per fotopittori e scultori, e pure nella letteratura, potrebbe risultare poco decifrabile per l’arte della scena. Ci viene in soccorso “Il realismo è l’impossibile”, (Nottetempo, 2013), un intramontabile testo di Walter Siti: in sintesi ci dice che dovremmo essere impreparati di fronte alla cosiddetta realtà; cadere sotto l’incantesimo di una scena. Amare i dettagli sottratti al flusso della consuetudine, della quotidianità per gettarli “a illuminare il mistero”. In più, dovremmo invaghirci degli oggetti per ciò che sono: in tal modo il loro “effetto di reale” sarebbe inutile al preteso funzionamento di una storia “per secolarizzare il mondo e poterlo re-incantare”.
Spazio, oggetti, dettagli, misteri, nuovi incantesimi: et voilà eccoci in 32, Rue Vandenbranden. Siamo in cima a una montagna traboccante di neve. Nessuno passa per quel luogo isolato e frustato dalle intemperie, tranne un terzetto di sciatori allocchiti. Due case prefabbricate, ove c’è sempre qualcuno che spia dalle finestrelle, si fronteggiano. Dentro e fuori ci si imbatte in una giovane incinta, languida e arcigna, alla isterica ricerca del padre del nascituro. Una coppia annega i propri guai nell’attrazione fisica e il partner maschile occhieggia alla gravida: che sia il padre del nascituro? Ultimi arrivati, carichi di valigie e con colbacchi di pelo, due possibili fratelli: uno timido e infantile, l’altro estroverso e narcisista. Andranno a convivere con una madre-natura corpulenta e canora. È la performer ma anche mezzo-soprano Eurudike De Beul, dal 2000 interprete assidua del gruppo. Tra gorgheggi e tumulti sonori, intona Casta Diva, che con le montagne innevate c’entra, in gergo, come i cavoli a merenda… e però, impegnata com’è a convogliare il figlio fragile nelle braccia della madre single, un nesso possibile potrebbe emergere proprio dalla Norma di Bellini
Comunque sia, gli intricati psicodrammi e legami della comunità generano disperate solitudini e terremoti che spesso si scaricano sulle due barcollanti abitazioni. Nessuno parla, o quasi: sono i corpi a restituire tutte le possibile gamme espressive di questo incubo sarcastico e crudele in insiemi di danza pericolosi, in assoli acrobatici in cui i protagonisti sembrano di plastilina, tanto si sanno piegare, attorcigliare, per poi volare aggrappati alle finestre. Il ritmo della composizione non dà tregua: riserva continue sorprese. Anche la prestidigitazione, impreziosisce 32, Rue Vandenbranden e ci trasporta in un viluppo quasi cinematografico, grazie alla larvale ispirazione nipponica della Ballata di Narayama di Shoōhei Imamura, in cui una vecchia donna viene portata in cima alla montagna dai suoi figli, per morire. Anche qui, dove potrebbe vivere persino l’ultimo dei Moicani, la comunità infreddolita è in via di autodistruzione. Un’ultima danza di gruppo con mirabolanti slanci femminili, ci dice che l’habitat originale e la neve incarognita o fiabesca, fungono da propulsori per questo realismo sempre in fuga da se stesso, in bilico tra inconfessabili segreti e blande certezze, come in certo teatro di un altro geniaccio: il regista svizzero Christhof Marthaler.
Dobbiamo stupirci se questa pièce, nata nel 2009, segnò il vero decollo mondiale dei Peeping Tom e dopo dieci anni di tournée nel mondo, fu abbandonata a malincuore al Bam’s Next Wave Festival di New York per l’esaurimento fisico dei sei, ormai invecchiati, eppure ancora strepitosi, interpreti? La temperatura iperrealistica dei Peeping Tom sale in Triptych, creato tra il 2013 e il 2017 per il Nederlands Dans Theatre 1: un trittico destinato a una compagnia super, con la quale i due hanno lavorato, come spesso accade, separatamente. Nel 2020 la pièce è stata rielaborata, pur mantenendo i tre titoli originali – The Missing Door, The Lost Room, The Hidden Floor – ma questa volta a quattro mani. Con una marea di coproduttori, tra cui l’Opéra National de Paris e di conseguenti tournée, Triptych è già planato in Italia, prima al festival “TorinoDanza”, ed ora è attesa ad “Aperto”, la rassegna dei Teatri di Reggio Emilia (6,7 novembre) che per loro ha riservato, come vedremo, un evento speciale. Posti di fronte a La porta mancante, La stanza perduta e Il pavimento nascosto che si susseguono l’uno dopo l’altro, è difficile credere alle confessione di Carrizo e Chartier, quando assicurano di non insegnare mai a nessuno come danzare (un vezzo rubato a Platel), selezionando interpreti che già hanno una potente formazione nella danza e nell’acrobazia. O quando assicurano di offrire solo immagini e testi da leggere che stuzzichino i loro ricordi anche infantili per improvvisazioni autonome e personali.
La compattezza coreutico-coreografica e drammaturgica del finto caotico e traballante Tryptich è tale, da suggerire il contrario. La finzione inizia dall’assetto scenico: un set cinematografico è posto a congrua distanza, operatori-comparse filmerebbero il susseguirsi di stati di precarietà e concitazione in cui si riconoscono gli otto eccezionali interpreti per lo più dai costumi che indossano. Gli ambienti, invece, cambiano e sono pieni di oggetti. Il loro mutare a vista è parte della performance. Così dalla stanza di passaggio di La porta mancante, con mille aperture in legno che restano chiuse nonostante vengano forzate, oppure sbattono con gran fragore, si passa a La stanza perduta, una camera da letto, o cabina di una nave, dove le porte sono in realtà solo armadi o rifugi umani. Infine, si approda al Pavimento Nascosto. Sorta di ristorante, viene di lì a poco distrutto da temporale, acqua vera, e fuoco virtuale in lontananza, racchiuso in una vetrata che allarga a dismisura i piccoli vetri dai quali, in specie nelle tappe precedenti, c’è sempre qualcuno che spia (i “guardoni” non si smentiscono mai). Tra luci fioche e ombre macabre, i corpi vestiti di tutto punto o discinti si allontano e si ricercano; le coppie si sfaldano e si ritrovano (ah quel piedino distorto da una lady in gonna e camicetta, bistrattata ma sempre rincorsa dal suo partner!); amanti persi nel loro sbandierato erotismo a fior di pelle, sembrano curarsi solo di loro stessi. Due figure solitarie – una cameriera e una giovane discinta – seguono il mix musicale che passa da ticchettii a rumori, da sonorità wagneriane, a risate e urla, salvo trovarsi, la giovane, dopo un ballo vorticoso, sconsolata e con un neonato in braccio. Non lo avvistiamo più, quel pupo, nel caos finale della distruzione in cui tutti discinti si rotolano a terra, scivolano, si inzaccherano e si caricano di un’energia di urgente sopravvivenza.
Con i suoi piccoli tocchi ludici, come il transatlantico – giocattolo che si avvista nella Stanza perduta, forse per alludere al mare – Triptych, finisce “male”. Lo preannuncia il sangue sulla camicia di un protagonista morto e poi vivo; la verticalità iniziale dei corpi che si spappola a terra nel secondo pezzo, resta in equilibrio nel terzo per poi soccombere, travolta dalle forze dirompenti e pericolose della natura. Sconfitta la logica di causa-effetto e spazio-tempo, si cede allo spettatore la chance di mettere in ordine disperazione, paura, amore, solitudine e ricerca dell’altro con un’attenzione etica a quella natura che già ci fagocita e chissà come ci ridurrà. L’iperrealismo dei Peeping Tom fa rima con l’umanità odierna, e anche con la famiglia, suo malconcio perno tradizionale, e in parte baricentro del preannunciato evento (dal 4 al 7 novembre), prodotto dai Teatri di Reggio Emilia in collaborazione con la Collezione Maramotti e Max Mara. Dopo una serie, iniziata nel 2009, di fortunate coabitazioni tra arte visiva e coreografia di esponenti maggiori (il penultimo è stato il greco Dimitris Papaioannou, l’outsider del momento), quest’anno proprio la teatralità perturbante e surreale dei Peeping Tom entrerà nell’ampio e prezioso spazio espositivo citato. Non sarebbe una novità: pur dotata di un’ampia sede a Bruxelles, la coppia trova da tempo accoglienza in musei e gallerie d’arte. Stavolta, però, la posta in gioco è alta: con La visita della sola Gabriela Carrizo, i Peeping Tom si sono aggiudicati il prestigioso ed economicamente ambito “Fedora-Van Cleef & Arpels Prize for Ballet 2021”.
Il trofeo site specif prende le mosse da Moeder (Madre, 2016), seconda tappa di una celebratissima Family Trilogy, cominciata nel 2014, con Vader (padre) del solo Franck Chartier e conclusasi, nel 2019, con Kind (figlio), creato a quattro mani. L’habitat di Vader è un ospizio sotterraneo popolato per lo più da vecchi: la luce filtra da un’unica finestra e sembra già di essere tra la vita e la morte. Il padre è lo straordinario ottantenne Leo De Beul, (il padre di Euridike), talvolta in carrozzella, talaltra concentrato in balli sfrenati assecondati da un’orchestrina. In Kind siamo in un anfratto boschivo e roccioso, delimitato da un’alta e piatta parete bianca sempre in procinto di sgretolarsi. Il paesaggio è notturno, a tratti dal sapore romantico e fiabesco. Sa proporci una grossa luna, laggiù nel fondale. Forse perché solo la fantasia di un bambino percepisce un mondo capace di offrigli sogni e sicurezza affettiva. Qui, però, nulla è rassicurante. Tra un padre guardia-forestale e assassino di turisti, una madre ninfomane, strani selvaggi preistorici e alieni del futuro, ritroviamo Euridike De Beul. Scorrazza come una normale bambina su di una bicicletta che a stento contiene la massa del suo corpo e ci trasporta nella Liebestod di Richard Wagner con voce sostenuta e limpida. Spiazzante dettaglio poetico, lanciato verso un altrove di amore e morte.
Nella Visita ritroveremo taluni personaggi tratti da queste ed altre pièce dei Peeping Tom, ma soprattutto da Moeder, nato all’indomani della scomparsa della madre pittrice della Carrizo. Lo spettacolo era già ambientato in uno strano museo, pure camera ardente, reparto di maternità con tanto di incubatrice e studio di registrazione: “Come se la vita fosse esposta alla vista di tutti”, dice l’autrice. In un vero museo, simbolo di stabilità nel tempo come la Collezione Maramotti, i Peeping Tom porteranno, in netto contrasto, una fetta del loro cosmo perturbante e instabile. Nel processo di lavoro della Visita la Carrizo, forse non farà a meno dei custodi e della donna delle pulizie di Moeder. Forse introdurrà quella feroce infermiera asiatica con lunghe braccia come chele di gambero, sempre dolorante e, nel corso della pièce originale, sempre incinta, eppure scossa da movimenti fluttuanti e acrobatici. E con lei quella puerpera che danzando sembra lievitare in orizzontale come sospinta da un getto d’aria sottostante. Enigmi raggelanti e graffi pruriginosi percorrono tutto Moeder, come quando la neonata, rimasta troppo a lungo nell’incubatrice, diventa una debordante massa di carne; o i quadri, osservati da tranquilli visitatori, si trasformano in cuori pulsanti e sanguinolenti. Speriamo rimangano i colori di quella sala parto trasformata in giardino, e l’intensa immagine di una danzatrice che accosta la sua guancia a un paesaggio di natura.
In Moeder, la madre, figura centrale per lo sviluppo cognitivo- emotivo dei figli, si rivela come tante volte è oggi: troppo sfuggente, irraggiungibile. Un nostalgico profumo di fiori? Mah. Quel che è certo è che, alla Maramotti, Gabriela Carrizo intende dare nuova vita ai personaggi evocati, con i loro ricordi e le loro storie personali, lavorando sulla visione, sull’effetto prodotto sullo spettatore dalle opere d’arte. Ma cosa è arte, cosa è reale e cosa, invece, appartiene solo allo sguardo e alla mente dei visitatori? Una sfida a chi vedrà, nel segno dei Peeping Tom.