L'atlante dello scrittore: vita, opere e prodigi di Daniele Del Giudice

Sandra Petrignani

L'ultimo allievo di Italo Calvino, spentosi a Venezia lo scorso 2 settembre dopo un decennio di buio e solitudine, sapeva scendere nelle viscere della terra e volare alto sui paesaggi come un pilota d’aerei

Quando all’inizio del 1983 Daniele Del Giudice esordì da Einaudi con Lo stadio di Wimbledon, quel libro in forma di quest piovve come una novità sorprendente. Aveva un padrino d’eccezione, Italo Calvino, che non riservava facilmente parole elogiative ai contemporanei italiani, tanto meno se giovani. E Daniele quando uscì quel suo primo romanzo non aveva ancora compiuto trentatré anni. Perché era nato in luglio, sotto il segno del Cancro, il segno dei grandi scrittori tormentati, Giacomo Leopardi e Franz Kafka tanto per dirne due che non gli dispiacevano. Adesso immagino che chi l’ha conosciuto si alzi su a dire: tormentato? Ma se era una persona allegra, che amava fare scherzi, ridere e divertirsi. E’ vero. Ricordo una sera in cui, mentre si voleva parlare di Thomas Bernhard, lui raccontò per tutta la cena sghignazzando come un matto scene da un film di Fracchia, che aveva appena visto. E faceva scherzi al telefono fingendosi un altro. Eppure la sua opera parla un’altra lingua: dietro al nitore dello sguardo un po’ freddo sulle cose, dietro l’intelligenza che tiene a bada i sentimenti, dietro l’arrotolarsi ossessivo in certe manie, ha affondi inaspettati e commoventi nell’autobiografia, nello smarrimento e nella perdita di sé come spavento e come liberazione. Credo sia una ricchezza del narrare di Del Giudice, intimamente legato al rimosso e a una certa preveggenza; perciò più attraente. Non è mai stato uno scrittore popolare, nel senso di commerciale, e non ha fatto in tempo a diventare di culto se non per una cerchia ristrettissima.

 

Chi era Daniele Del Giudice, ultimo allievo di Italo Calvino

Uno dei motivi del successo di stima dello Stadio di Wimbledon (finalmente ristampato dopo lunga sparizione per un totale di 30 mila copie vendute a partire dal ’94, prima non si sa) è stato il suo protagonista leggendario, Bobi Bazlen, di cui oggi si parla tantissimo, ma all’inizio dell’83 soltanto pochi cultori conoscevano l’esistenza o sapevano di quel suo testardo essersi rifiutato di scrivere pur avendone l’inconfondibile stigma, uno che sosteneva: “Ci sono troppi libri. E’ inutile aggiungerne degli altri”. Si chiedeva Calvino nel risvolto di copertina dello Stadio: “Questo romanzo racconta di un giovane che s’interroga su un certo personaggio… E’ la scelta fra ‘ scrivere’ e ‘non scrivere’ che il giovane vuol risolvere? O un nuovo approccio alla rappresentazione, al racconto, secondo un nuovo sistema di coordinate?”. La risposta giusta è la seconda. E, in questo romanzo, ha il suo simbolo nella carta di Gerardo Mercatore, grande matematico fiammingo del Cinquecento, inventore di una proiezione cartografica che è la carta delle carte, quella a cui tutti gli atlanti successivi si sono rifatti. “Ma la Carta di Mercatore non è una proiezione geometrica”, scrive Del Giudice nello Stadio, “è inventata con un calcolo preciso e con una matematica quasi perfetta. Il suo secondo nome è Rappresentazione”. Perché è questo che lo assilla: come rappresentare oggi la cosiddetta realtà. Come continuare a scrivere superando il senso di fine della scrittura presagito e perseguito da Bazlen, come aggiungere qualcosa di nuovo, una nuova visione, una nuova ottica sulle cose, dopo secoli di letteratura, dopo che tutto è stato detto. Cosa può aggiungere ancora uno scrittore? Che tipo di “carta”, di atlante occidentale può mai inventarsi per capire il suo presente e semmai interpretare qualcosa della nebbia in cui è avvolto il futuro? E’ la grande domanda che oggi più che mai è chiamato a porsi un narratore che non voglia restare impigliato nell’insensata produzione narcisistica sfornata a getto continuo da un’editoria che non vuole più selezionare.

 

Del Giudice la domanda non solo se l’è fatta, ma ha anche trovato una risposta, volando alto sui paesaggi, scendendo sottoterra a cercare particelle dentro acceleratori nucleari, interrogandosi sulla possibilità di una narrazione sorretta da inediti saperi scientifici, per dire in modo diverso la vecchia storia della vita e degli esseri, perché comunque “passo per passo, a mezzanotte, vorrei entrare in tutte le case, ogni casa ha la sua storia di persone che ci hanno vissuto, di ognuna vorrei conoscere le speranze e i sogni che si sono avverati. E poterli raccontare”. Così scriveva in una breve riflessione, senza data, raccolta in un bellissimo libro miscellaneo, In questa luce, pubblicato da Einaudi nel 2013, quando cioè Daniele già non era più il Del Giudice lucido e intelligentissimo che conoscevamo, perché l’Alzheimer aveva cominciato il suo corso nel 2009 – se non prima – modificandone in modo manifesto la personalità. Non aveva ancora sessant’anni. Gli interventi, già pubblicati o inediti compresi dentro In questa luce, vanno dal 1986 al 2006: è un libro fondamentale per capire il percorso e il progetto letterario che lo dominava. Prima ho sbrigativamente definito “romanzo” Lo stadio di Wimbledon, e Daniele mi avrebbe corretta. Sempre da In questa luce: “Insisto sul termine rappresentazione: le forme, romanzo compreso, nascono e muoiono, e tali decessi sono vitali; rappresentazione era ciò che a me stava a cuore”. Ma allora il punto è: come rappresentare una volta esaurita anche la spinta delle ideologie politiche, del pensiero negativo, delle neoavanguardie e ormai disorientati dalla “diffusa sfiducia” nella “tenuta” sulla realtà del narrare?

 

Del Giudice ha cercato, e trovato, una soluzione proprio nella “luce” e nella simultaneità dello sguardo su realtà interne ed esterne. Scrive in Atlante occidentale, in cui si muovono uno scienziato e uno scrittore: “non gli era mai riuscito di concepire un personaggio o una situazione o un sentimento se non in una certa aria e in una certa luce, convinto alla fine che l’atmosfera sia esattamente ciò che è, la massa d’aria che circonda una storia”. Atlante occidentale è la sua seconda opera narrativa, la sua seconda “rappresentazione”: la storia del confronto fra Pietro Brahe, un giovane fisico del Cern, il centro svizzero di accelerazione delle particelle, e il vecchio Ira Epstein che si domanda come descrivere la luce in un domani privo di oggetti concreti, rivelati nella loro sostanza infinitesimale. “Scriverò un Atlante della luce, che forse sarà l’ultima cosa che scriverò…” dice Epstein. L’ultima cosa che scrive Del Giudice è invece il resoconto di un suo viaggio in Antartide, Orizzonte mobile, che intreccia le storie di tante altre spedizioni nel “più profondo e radicale dei Sud” e che ha un incipit impressionante, profetico si potrebbe dire: “‘Sai, il mio numero sta per uscire, lo sento, lo so’… si è alzato e si è incamminato verso la porta, col suo numero scritto sulle spalle, come un atleta al termine della gara, uno di quelli che non solo non arrivano primi, ma la corsa la finiscono prima della fine. Ecco, vorresti gridare subito un grumo di dolore, o di gioia, che non si articola in parole ordinate, ma tutte insieme, esplose come esplode una stella, e c’è un silenzio attonito e glaciale, e dov’è la calma allora, dov’è la tua calma…”.

 

Non sorprende che uno scrittore così concentrato sulla luce abbia composto dopo Atlante occidentale un racconto sul buio, sull’oscurità progressiva dovuta all’imminente cecità del giovane protagonista, Barnaba, “un ragazzo italiano alto e coi capelli ricci”. E’ un altro modo di arrivare allo stesso punto: al problema del vedere attraverso il non vedere. Il racconto s’intitola Nel museo di Reims, fu composto nel 1988 e apre ora I racconti (Einaudi 2016) che comprende la raccolta Mania del 1997 e altre storie sparse, di cui due inedite: “E’ un peccato che per me, proprio per me, la luce si stia cambiando in ombra. Sarebbe un peccato per chiunque, ma è difficile accettare di essere scelti per certi destini, specie quando mi sveglio così di colpo nel cuore della notte… quando tutto è fuori misura, nel buio, che anticipa il buio nel quale finirò, e in ore come questa faccio già le prove”. Nel Museo di Reims Barnaba vuole “vedere”, per quanto gli è ancora possibile, i quadri di Corot, ma soprattutto il Marat assassinato di David, e intanto ragiona sulla sua condizione: “Ero stato educato alla limpidezza, come farò a muovermi nell’ombra, nella torbidità, nel torpore…”. Ad aiutarlo a vedere i particolari che perde (“come farò senza i colori?”) si palesa accanto a lui offrendogli il suo aiuto un’altra visitatrice, Anne, che però non dice sempre la verità, ma si lascia guidare dalle emozioni e dalla propria fantasia descrivendogli i quadri. Barnaba se ne accorge, ma lascia fare. Quello di Anne non è un tradimento, ma fedeltà a se stessa. E del resto che si può pretendere dalla tenerezza altrui, quando siamo così misteriosamente gettati in un destino che non controlliamo? E’ per questo che Del Giudice sceglie di raccontare in prima persona, quando in campo c’è solo Barnaba, e in terza quando appare Anne. Come volesse sottolineare la difficoltà di immergersi in un’altra visione, in un altro io. Un io comunque giocato da forze insondabili: Marat, scopre Barnaba, era stato un fisico e un medico che faceva esperimenti con la luce e “curava i ciechi”. Così, ironia della sorte, lui che voleva vedere come ultima cosa quadri lontano da se stesso, si ritrova inchiodato da un Marat oculista al suo problema imminente: il buio da cui nessuno lo guarirà.

 

Del Giudice e il rapporto con Venezia, la sua città adottiva

In un’intervista televisiva del 2005 Daniele parla di Venezia, la città dove a un certo punto ha messo radici, abbandonando Roma e dopo una parentesi milanese: “In questa città apparentemente così immutabile, ho cercato di narrare nei miei romanzi e nei miei racconti la modificazione. Ho cercato di raccontare come le cose cambiano e ho provato a dirle nel momento in cui accadevano, qualche volta mi riusciva anche un po’ prima. La modificazione per me è lo spazio della emergenza, di ciò che emerge, quello che ancora non trova parola, quello che ancora non riesce a essere narrazione”. E in un’altra intervista, che si trova online, racconta di come andava male a scuola – perché studiava solo quel che gli piaceva – e di come ha sempre preferito la compagnia di meccanici negli hangar e nelle officine a quella degli scrittori. E anche agli amici scrittori preferiva spiegare l’esatto difficile movimento del remo dei gondolieri (che era riuscito a imparare) piuttosto che intrattenerli su temi letterari o cercava di convincerli a fare un giretto in aereo con lui (lui alla cloche naturalmente) perché volare è ciò che gli piaceva di più, forse più di scrivere, era il sogno realizzato dell’infanzia: “C’è una sola cosa al mondo con cui il volo è veramente connesso, ed è l’infanzia. I piloti non hanno ali piumate, non sono angeli e tanto meno eroi, sono bambini adulti, bambini nascosti, ben custoditi nella loro maturità, ben conservati dentro una delle impertubabili professionalità che la vita ha loro assegnato, ma legati all’infanzia con un elastico da fionda che gli sbuca dalla tasca”. Questo lo ha scritto nel suo libro più bello, Staccando l’ombra da terra, che è del 1994 elaborando quanto aveva già detto in una delle tre lezioni sul tema del volo tenute l’anno precedente all’Ècole des Hautes Ètudes di Parigi e che ora sono comprese in In questa luce: “Ogni pilota in volo, dice la leggenda, ha un angelo che veglia su di lui. Io ho sempre pensato che si tratti di un angelo con una fionda che gli sbuca da sotto un’ala, perché quell’angelo altri non è che il bambino, l’infante, che il pilota è stato una volta e che la sua “serietà professionale” e le mansioni della vita e le responsabilità lo hanno costretto ad accantonare”. Volare era il suo grande gioco, la sua vecchia passione. Ne parla già con competenza nello Stadio di Wimbledon nel viaggio del protagonista da Fiumicino a Heathrow per cercare Ljuba Blumenthal, la Ljuba che parte di una celebre poesia di Montale, la donna che conobbe Bazlen meglio di chiunque altro. E Atlante occidentale si apre su uno scontro aereo sventato appena in tempo fra Brahe e Epstein, piloti amatoriali, un incidente mancato che sarà poi l’inizio della loro amicizia. In Staccando l’ombra da terra si legge: “Di una tempesta in mare avresti sofferto l’urlo e il fragore, qui nel tuo aereo eri contenuto e separato dagli elementi, eri tu la tempesta”. La figura dell’angelo era una presenza non solo artistica, ma esistenziale. Una volta mi disse con una serietà impressionante e una tristezza che in quel momento mi parve incomprensibile (eravamo alla fine degli anni Ottanta e Daniele era nel pieno della sua fortuna letteraria, stimato, invidiato): “A volte ho l’impressione di avere l’ala di un angelo sulla testa a proteggermi, ma sospetto che prima o poi quell’ala si solleverà”.

 

L’angelo ha cominciato a sollevare l’ala togliendogli progressivamente il volo, i libri, il pensiero quando non aveva ancora compiuto sessant’anni. E’ morto quest’anno, a Venezia, il 2 di settembre, in un istituto per anziani e disabili dopo più di un decennio di buio e solitudine. Era una persona riservata e si sa poco della sua vita. Che aveva perso il padre da piccolo, la madre si era risposata e lui aveva passato vari anni in collegio. Che non si è mai laureato, ma gli sarebbe piaciuto fare l’ingegnere perché lo intrigavano la tecnica e i motori. Che si è sposato due volte, niente figli. Che amava i gatti (il suo gatto storico, a cui dedicò un racconto in morte nel 1990, si chiamava Popiove). Aveva un archivio ordinatissimo fitto di articoli e documenti su cui si preparava per scrivere. Sarebbe bello leggere raccolti in un nuovo libro questi suoi scritti sparsi o i suoi vecchi articoli di Paese Sera o su Nuovi Argomenti. “L’infanzia è anche una certa quota”, ha scritto in Staccando l’ombra, “un certo rapporto con la terra, una questione di dimensioni che non si avranno mai più, un punto di vista ad esaurimento, di cui, una volta perduto, si perde perfino la memoria. Nulla, se non gli ultimi istanti di una violenza o di una demenza, potrà mai più restituirmi all’intimità coi refoli di polvere, con le cartacce e gli insetti, con le bacche e le radici e il terriccio da cui vengo”.

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