William Turner, "Venezia: veduta della laguna al tramonto", 1840

Rendere giustizia all'acquerello

Ugo Nespolo

È considerata un’espressione artistica inferiore, un passatempo per dilettanti e fanciulle. Ma dagli antichi egizi a Turner e Cézanne, la pittura ad acqua è la tecnica per eccellenza

“Non c’è bisogno di andarvi a cercare trentaseimila cose,
           io cerco solo una deliziosa macchia di colore
           che faccia un bell’effetto”.

Gustave Moreau


Ha di certo più di una ragione Tony Godfrey quando, nel suo documentato studio “L’Arte Contemporanea. Un panorama globale”, ci ricorda di come l’arte ai nostri giorni sia diventata sempre più variegata e per questo di difficile interpretazione e lettura, un oggetto poco definibile prigioniero e, paradossalmente, schiavo misterioso persino dell’infinita libertà formale che gli ha conferito l’ideologia del tutto va bene, quel noto tranello di buona memoria postmoderna. Sarà pur vero – come voleva Ernst Gombrich che “non esiste una cosa chiamata arte. Esistono solo gli artisti”, ma altrettanto vero, e facilmente verificabile, è il fatto che anche nell’infinita varietà di poetiche, atteggiamenti e modi espressivi, gli artisti s’affrettano per convenienza ad adeguarsi ai modelli che l’Artworld adora proporre e gestire.

L’intricato sistema dell’arte non può non cibarsi di ghiottonerie cucinate proprio per la visibilità e la comunicazione guidata. Sovente si tratta di opere sconvolgenti per dimensione e ricchezza di apparati disneyani milionari. È sufficiente pensare alle inutili e fastidiose ripetizioni degli impacchettamenti alla Christo, trionfo di un mondo già tristemente plastificato, o agli pseudo ritrovamenti di tesori del presunto affondamento dell’Unbelievable dell’astuto Damien Hirst per renderci conto di quanto l’esteriorità del gesto artistico, la sua sfacciata opulenza, essenziali al mercato, contrastino violentemente con il disperato bisogno di profondità, d’interiorità e persino di umanità, soli gesti capaci di rinsanguare un’arte indifferente e svagata. Grande successo ha ovviamente anche la costruzione spettacolare della figura del presunto artista-contro. Lo si rende misterioso, imbattibile e persino invisibile, parafrasando la favola ingenua e gaia di uno Zorro fuori tempo, un patetico Diego de la Vega per niente soddisfatto d’esser stato relegato a vendicare ingiustizie piccole e grandi laggiù nel tiranneggiato Pueblo di Los Angeles. Il nostro addomesticato mito contemporaneo adora intanto essere considerato da Time Magazine uno dei cento personaggi più influenti del pianeta. Ecco a voi allora l’ineffabile Banksy, entità in equilibrio tra il geniale ed eclettico testimone dello Zeitgeist o – a piacere – esile vacuo ed esteriore sovversivo per salotti buoni, plasmato dal sistema più astutamente commerciale, tanto scoperto quanto innocuo. Critica sociale spuntata e di maniera, ironia truccata come nel giochetto di “Love is in the Bin”, l’opera che magicamente si autodistrugge durante la dorata e milionaria asta nei comodi salotti di Sotheby’s. A ben vedere Bin sta curiosamente proprio per bidone, suggerimento che si vuole credere di natura autoironica.

Ritornano prepotenti le analisi del filosofo Mario Perniola quando ci ricorda come il microambiente culturale abbia cercato – e ancora di più cerca oggi – di rinnovarsi continuamente usando l’artificio dato da mode effimere, imposte spesso – non solo nel caso di Banksy – con atteggiamenti falsamente provocatori allo scopo di “mantenere il controllo di pochi galleristi, collezionisti e mediatori rapaci”. Controllo fatto di valorizzazioni iperboliche “strettamente connesse con operazioni mediatiche, proprio quelle in grado di trasformare gli artisti in veri e propri divi dello spettacolo culturale”.

Dopo aver scomodato all’inverosimile il pacifico e beffardo Marcel Duchamp, si è comodamente saccheggiata la sua opera nel dichiarare al mondo che la capacità esecutiva in ambito artistico era divenuta un polveroso fossile fuori dal tempo e si è proceduto quindi ad asserire apertamente che l’arte poteva essere fatta finalmente da tutti. Lo ha dimostrato con successo Massimiliano Gioni con la sua Biennale del 2013, “Il Palazzo Enciclopedico”, esposizione sibillina in cui non si parla più di artisti ma di figure appartenenti agli ambiti più disparati. Inutile ormai il ricorso alla maestria esecutiva mutuata dalla tradizione, si poteva finalmente dimostrare e mostrare la concreta possibilità di trasformare in arte qualsiasi cosa e, ovviamente, anche rendere artista qualsiasi individuo.

Queste e altre le ragioni hanno privato il fare arte di una vera intimità, momenti di maggiore meditazione, quasi sempre legati ai tempi lunghi, ai ritmi lenti sostanziati di teorie e di tecniche spesso laterali o persino desuete nel produrre opere che, per natura, rifuggono la spettacolarità, il plauso corale, l’ipervalorizzazione a priori.

Quasi provocatoriamente viene voglia allora di dar conto dell’acquerello, tecnica straordinaria che si presenta libera dalle catene gerarchiche e di genere, un modo di dipingere particolarmente votato al rapporto intimo con l’autore e molto vicino al suo desiderio di comunicazione poetica. Tecnica sostanzialmente economica e semplice fatta solo di colore e un po’ d’acqua, per tanto tempo e inspiegabilmente considerata un’arte minore, ma che “una schiera di acquerellisti inglesi, e in seguito statunitensi ed europei, non si sono mai stancati di difendere”. Si tratta insomma di rivendicare la dignità di una tecnica pittorica mai inferiore alle altre.

Marie-Pierre Salé, curatrice del Dipartimento arti grafiche del Louvre, del cui patrimonio grafico è responsabile, ha studiato e pubblicato per Editio-Citadelles & Mazenod a Parigi ed ora rieditato in Italia da Giulio Einaudi un prezioso, monumentale volume che ripercorre e approfondisce attraverso una documentazione ricca e ricercata il lungo viaggio dell’acquerello, dalla tecnica al genere attraverso il modello inglese e l’espansione in Europa e negli Stati Uniti, avanti nel tempo sino alla modernità, alle avanguardie ed alla contemporaneità.

Paul Cézanne, studio per "I giocatori di carte", 1890-1896

Nell’Europa dell’Età Moderna “la gerarchia delle tecniche artistiche non è stata meno rigida ed esclusiva di quella dei generi nella dottrina accademica classica”.

In Francia si considerava l’acquerello di gran lunga inferiore alla grande pittura. Un passatempo ideale per dilettanti e fanciulle. Nella sua “Grammaire des arts du dessin”, Charles Blanc puntualizza la netta inferiorità del colore rispetto al disegno. “Quest’ultimo è virile, intellettuale, traduce l’essenza del mondo: l’altro è femminile, superficiale, accessorio. Uno è assoluto, l’altro è relativo”.

Non spiacerà sapere che la materia colorante è composta in maniera semplice da pigmenti finemente tritati, diluiti in acqua con l’aggiunta di gomma vegetale, quella proveniente da Kordofan in Sudan è l’eccellenza. L’uso di questo colore è testimoniato già da Plinio il Vecchio quando racconta a proposito dei “primi inventori della pittura”, come Filocle l’Egiziano o Cleante o Aridice, che “si sono contentati di disfarli con acqua e gomma, o colla, questa maniera è stata la prima di tutte”. Già nell’antico Regno egizio, nel III millennio a.C., le indagini scientifiche hanno dimostrato la presenza in quelle pitture di un legante acquoso glucidico (gomma arabica) o di leganti proteici, ovvero gelatine animali. Solo acqua, terra e pietre tritate con l’aggiunta di materie solubili, tipo la gomma prodotta da alcuni arbusti e capace di agglomerare senza alterare la trasparenza dei colori.

Queste sono davvero le basi fondamentali della tecnica, un processo rimasto immutato nei millenni. Tecnica primitiva, innocente, naïf, così definita dal pittore Jean-Georges Vibert nel 1879, una manifestazione artistica dove “un bastoncino o un dito facevano le veci del pennello”. Marie-Pierre Salé ricorda come diversi artisti abbiano ricercato questa dimensione quasi primitiva, proprio come Andy Goldsworthy, che mescola l’acqua dello Scaur Water, fiume del South-West-Scotland, con la terra colorata delle lande scozzesi. Proprio una sua opera ha aperto nel 2011 il catalogo dell’importante mostra Watercolours alla Tate Britain a Londra.

La preparazione dei colori da parte degli artigiani medievali avveniva attraverso veri e propri ricettari, formule scritte da adottare per esempio alla ricerca di un metodo corretto e sicuro per realizzare leganti a base di gomma naturale. “Se vuoi velocizzare il lavoro, prendi la gomma che trasuda dall’albero di ciliegio o prugno, tagliala molto sottile e mettila in un vaso di terracotta, versaci molta acqua e mettila al sole, o, in inverno sul fuoco”. Indicazioni molto vicine alle fantasie alchemiche seguite dai miniatori medievali nella decorazione dei manoscritti. È sufficiente pensare ai capolavori dei miniatori del Quindicesimo e Sedicesimo secolo come Jean Fouquet o Jean Bourdichon. Esiste insomma una categoria molto vasta di miniature medievali che devono essere considerate senza incertezze come antesignane del disegno ad acquerello. Nasce la tecnica, ancora molto attuale, del disegno tracciato a inchiostro, dove i bianchi sono risparmiati e le forme sono campite con colori ad acqua. Sono i cosiddetti tinted drawings eseguiti per lo più da artisti stabilitisi a Londra a Westminster ma che si ritrovano anche nei meravigliosi Erbari miniati in Germania.

La pratica medievale del disegno colorato si prolunga in Italia sino al Quattrocento, molto più avanti dell’inizio del Rinascimento. Agli albori del Novecento questa tecnica è rinata nell’interesse degli artisti dell’avanguardia. Paul Gauguin lavora a monotipi acquerellati per arricchire xilografie lumeggiandole di colori ad acqua.

Chi però ha il talento per tagliare i ponti con l’estetica medievale del disegno a colori, e utilizzare l’acquerello a pieno titolo per dipingere paesaggi e vedute urbane, è stato Albrecht Dürer, che deve essere considerato il punto di partenza più significativo di tutta la storia dell’acquerello in Occidente. Agli albori del Cinquecento egli è già un acquarellista in senso pienamente moderno e le sue opere non sono una parte secondaria della sua pur vasta attività. Si può persino dire che i suoi lavori riescano a rendere possibile l’improbabile connubio di artificio visivo con l’uso di una tecnica che conduce l’artista alla ricerca di una perfezione dal sapore quasi scientifico.

 

August Macke, "Modefenster", 1913

L’acquerello avrà – a partire dagli anni Cinquanta del XVIII secolo uno sviluppo senza eguali in tutta l’Europa continentale, una vera età dell’oro che si sarebbe prolungata almeno sino a metà Ottocento. Gli artisti si sono serviti ampiamente della libertà – anche pratica – offerta dalla tecnica, fatta di acqua e colori che ora trovavano già pronti, prodotti dalle maggiori aziende come Reeves e Winsor & Newton, marchi tutt’ora in piena attività. In Inghilterra la promozione fatta da grandi artisti come Paul Sandby e William Turner nobilitò ufficialmente l’uso dell’acquerello creando addirittura una nuova figura d’artista, il professional watercolorist, e persino i Preraffaelliti s’adoprarono per tenere in alta considerazione quella tecnica. Questo modo raffinato e lieve di rappresentare temi naturalistici e paesaggi troverà il suo splendore massimo nel Diciannovesimo secolo quando il centro della modernità si trasferirà in Francia dove Johan Barthold Jongkind, Paul Cézanne e Paul Signac ne faranno un uso espressivo libero e vicino già alle grandi rivoluzioni estetiche e tecniche inaugurate dai gesti delle storiche avanguardie.

Antoon Van Dyck aveva portato in Inghilterra nel Seicento la tradizione nordica dell’acquerello usato con libertà, evitando l’aspetto descrittivo e documentaristico. Col nuovo secolo e la moda del Grand Tour gli artisti percorrevano l’Italia registrando nei propri diari intimi ricordi di viaggio sotto forma di acquerelli. David Cox, John Constable e William Turner con le loro folgoranti ricerche sul colore e la luce sono stati in grado di destare grande ammirazione tra gli artisti delle avanguardie a venire, impressionisti, postimpressionisti o espressionisti, astratti americani. Proprio negli Stati Uniti, secondo il parere di alcuni autorevoli critici, l’acquerello è l’arte in cui la scuola americana moderna ha dato il meglio di sé (The American Medium). La scuola dell’Hudson River fece conoscere al pubblico la potenza dei grandi spazi e la bellezza della natura americana. I paladini riconosciuti nell’uso straordinario di questa tecnica saranno Winslow Homer e John Singer Sargent capaci di mettere in evidenza un’energica e poetica visione del mondo naturale e della sua vitalità, della sua forza poetica custode di sentimenti profondamente americani, lo spirito dei pionieri.

Alla fine dell’Ottocento l’acquarello è ormai un genere molto diffuso in Europa e America. Quando Paul Cézanne produce le sue prime opere, la generazione degli artisti romantici si era già quasi estinta. Jongkind, Boudin, Moreau avevano ormai fatto il loro tempo. Cézanne che sarà – a ragione – considerato il maggiore acquarellista dei tempi moderni, tra distrazione e frustrazione abbandonerà e brucerà a bracciate nella stufa quei suoi lavori di carta. Dopo di lui l’acquerello acquisterà un ruolo centrale nelle ricerche sul colore, l’originale tecnica da lui usata, la sovrapposizione delle pennellate come vetri colorati attraversati dalla luce, daranno il via ad una serie di rapporti tra volume e colore impossibili con la pittura ad olio. Stroncati dalla critica come “oziosi sfarfallii” sono invece, con i loro gesti rapidi e spontanei, improvvisati, con i loro mélanges aleatori e le colature, veri capisaldi per gli artisti cubisti e in particolare per Robert Delaunay. In Italia e in Germania eserciteranno una grande influenza su Paul Klee ed August Macke.

Dal 1904 Matisse con Signac e Derain, artisti fauves, diedero il via a una ricerca sul colore puro, privo di mélanges, un modo di lavorare direttamente con la materialità del colore. All’inizio degli anni Dieci Kandinskij e Kupka si legarono a esperienze a partire da macchie di colore, primi segnali delle future, prossime ricerche astratte. Il poeta e pittore Henri Michaux ha scritto testi avvincenti sulle sensazioni dell’artista a proposito della creazione generata dal colore che divora la carta in maniera casuale.

“Fogli che assorbono con avidità, follemente, metodicamente… mi limito a buttar giù come esche masse da smembrare. Quello che uso più spesso e spontaneamente è il rosso. Dall’altra parte c’è forse qualcosa che si spande più facilmente del sangue?”. Più di un artista, nell’ambito informale, si abbandonerà poi completamente alla ricerca degli effetti casuali. Hans Hartung ha praticato e teorizzato questa attitudine divenuta poi molto comune nei lavori degli artisti a partire dagli anni Quaranta del Novecento.

Wasilij Kandinskij praticò l’acquerello per altri quarant’anni fino alla sua morte nel 1944. Del 1915 si conoscono quasi solo gli acquerelli e poi magistrali saranno quelli degli anni del Bauhaus (1922-23), lavori tutti, che dopo aver abbandonato la figurazione, si legheranno al tema delle Improvvisazioni.

L’uso del colore puro e i toni casuali nati dalle “divagazioni dell’acqua e della materia colorante” infiamma l’opera degli espressionisti tedeschi e austriaci, poi gli astrattisti di varie tendenze e sarà uno dei mezzi espressivi più usati dal grande artista situazionista Asger Jorn.

Contro la tendenza imperante alla messa in opera di apparati spettacolari, alla fatica della ricerca del nuovo che distingue a tutti i costi in una corsa disperata alla visibilità e al conseguente accrescimento economico, si erge timida questa esile tecnica di natura povera e minimale che può però dare vita a espressioni meditate e intimiste, un vasto territorio poetico fuori dal tempo. Proprio per questo più attuale che mai.

 

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