La Celebrazione delle bandiere in piazza Venezia (da Wikipedia)

Uno per tutti. I cent'anni del Milite ignoto

Roberto Raja

La Grande guerra, l’elaborazione collettiva del lutto e la costruzione di un’identità nazionale: storia dell'invenzione commemorativa per antonomasia

È stato al centro di un compianto condiviso, l’elaborazione di un lutto di massa, come di massa era stata la morte. Sacrificio della vita consegnato come risarcimento e memento alla memoria collettiva. Morte e resurrezione nel simbolo, uno per tutti, che nell’anonimato certifica la presenza e il valore di tutti. Comunque lo si guardi, e al netto della retorica nazionalista e militaresca che l’ha attraversato in un secolo di storia, il Milite ignoto fa ormai parte della mitologia della nazione. E come mito, fondativo quanto meno della rinascita dal trauma della Grande guerra, è sopravvissuto alla monarchia e al fascismo, a un’altra guerra sciagurata e alla leva obbligatoria, alla contestazione, a un attentato e a qualche anno di oblio. La guardia d’onore è sempre lì al suo fianco, giorno e notte, oggi due lancieri di Montebello, domani forse due fucilieri di Marina.

 

Le Frecce tricolori passeranno presto di nuovo sopra le loro teste, una nuova corona d’alloro sarà posta accanto alla tomba, risuoneranno le note dell’Inno di Mameli, della Canzone del Piave e del Silenzio. In questi giorni è tornata a formarsi una discreta fila di persone ai piedi della scalinata che conduce all’Altare della patria, in attesa di oltrepassare i cancelli e di avvicinarsi al monumento. S’indovina turisti, per lo più. Niente a che vedere con la folla di quei giorni di novembre di cento anni fa. L’idea di trasportare da un campo di battaglia alla capitale un soldato senza identità e di seppellirlo nel tempio più importante della nazione era già stata attuata nel 1920 in Francia e Inghilterra. L’11 novembre, nel secondo anniversario dell’armistizio sul fronte occidentale, con un’imponente cerimonia il Milite ignoto francese era stato inumato a Parigi sotto l’Arc de Triomphe, costruito da Napoleone come tributo al suo esercito e già monumento alle glorie militari e all’orgoglio nazionale francese, mentre a Londra la bara del Soldato senza nome britannico era stata collocata nell’Abbazia di Westminster, dove sono sepolti monarchi, poeti e grandi d’Inghilterra. 

 

Per gentile concessione del Museo centrale del Risorgimento, Roma 

In Italia, nel luglio di quell’anno era stato un colonnello d’artiglieria, Giulio Douhet, sostenuto da padre Agostino Gemelli, a proporre l’idea di onorare tutti i caduti nella salma di un soldato sconosciuto: un “corpo mistico”, lo ha definito Laura Wittman, italianista della Stanford University, che incarnava il sacrificio di tutti i caduti e che rappresentava pure idealmente per i vivi il figlio, il marito, il fratello, il padre che aveva perduto la vita e il corpo al fronte. Passò più di un anno prima che il disegno di legge fosse promulgato e che il governo – presidente del Consiglio per la prima volta un socialista riformista, Ivanoe Bonomi, ministro della Guerra un civile, Luigi Gasparotto – lo mettesse in opera. Toccò a Gasparotto, che poteva muoversi sulla scorta delle comuni esperienze delle altre due potenze vincitrici, definire le modalità dell’operazione: un rituale che garantisse l’anonimato della salma prescelta (e la commissione istituita per questo compito fu vincolata a un rigido protocollo di segretezza) e la massima risonanza del tributo. Il punto di partenza era l’esumazione di undici corpi senza nome, da cercare nelle undici zone di combattimento più significative del fronte italo-austriaco: dal San Michele al Pasubio, dal Grappa al Montello a Gorizia e Monfalcone. Tra le undici bare, sarebbe stata scelta quella destinata alle esequie solenni e alla sepoltura a Roma al Vittoriano, il grande monumento in onore di Vittorio Emanuele II, il sovrano fondatore dello stato, che dieci anni dopo l’inaugurazione era già il simbolo dell’identità nazionale.

Ma prima bisognava strappare alla terra quegli undici corpi, bisognava tornare tra i morti. La catastrofe della Grande guerra, che squassò assetti fisici e mentali, spalancò un baratro di discontinuità col passato anche nell’idea e ancor più nell’esperienza della morte. Morte di massa, nel numero e nella frequenza. Morte mai così prossima, nell’eventualità della propria e nell’orrenda concretezza di quella altrui, come nelle trincee. Nell’ossessiva invadenza dei cadaveri, scrive Antonio Gibelli nell’Officina della guerra, la morte è “spogliata di ogni rito e di ogni riservatezza, esposta nella sua materialità e nella sua oscenità di spettacolo pubblico. Lo spettacolo di decomposizione si offre ai combattenti in tutta la sua mostruosità, varietà e durata”. Ed è morte privata di lutto e compianto, sono cadaveri a cui è impossibile dare una sepoltura, corpi annientati da una pallottola e poi straziati, anche sotto un palmo di terra, da una granata, irriconoscibili. 

 

Per gentile concessione del Museo centrale del Risorgimento, Roma 

La guerra inghiotte le sue vittime cancellandone immediatamente l’identità. “Tu eri morto così da poco – scrive Paolo Monelli nelle Scarpe al sole – ed eri già nulla, massa grigia destinata a puzzare rannicchiata contro la roccia. I viventi frettolosi non sanno più nulla di te”. Corpi sfigurati o con la piastrina di riconoscimento deteriorata o del tutto assente, corpi “dispersi”, corpi senza nome. Il sacrario di Redipuglia conserva oggi le spoglie di quasi 40 mila caduti noti e di oltre 60 mila ignoti. Delle oltre 600 mila vittime del conflitto, 200 mila sono rimaste prive di identità. L’anonimato in cui può relegare la morte sul campo di battaglia diventa un’ulteriore angoscia che domina sia i soldati al fronte, sia le famiglie lontane. “Tutti ci davamo l’indirizzo uno con l’altro [e] dicevamo, se muoio io tu scrivi ai miei cari la mia sorte, se muori tu scrivo io”, annota nel suo diario Mimo Genga, un giovane muratore pesarese in trincea, ricordando i momenti che precedevano un assalto. E lo spettro dell’annientamento, della morte che riduce il corpo senza nome a cosa aleggia anche in una sua terra di nessuno, senza distinzioni tra amico e nemico: “Finché non so il suo nome potrò forse ancora dimenticare, il tempo cancellerà la sua immagine”, pensa il soldato di Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale. “Ma il suo nome è un chiodo che si pianterà in me e non si potrà strappare mai più… Perciò apro il libretto e leggo lentamente: Gérard Duval, tipografo. Con la matita del morto trascrivo l’indirizzo su una busta, e con improvvisa fretta ripongo tutto il resto nella sua giubba. Io dunque ho ucciso il tipografo Gérard Duval, penso smarrito...”.

Nei cimiteri di guerra del fronte italiano, nel 1921, sono sepolti anche soldati austro-ungarici. Se ne contano più di ottomila a Lizzana, vicino a Rovereto, nel cimitero che ha raccolto le salme provenienti da circa 200 cimiteri più piccoli della regione trentina, piccoli cimiteri allestiti accanto alle trincee in cui venivano inumati alla buona, e quando era possibile, i caduti. A Lizzana all’epoca sono tumulate quasi 12 mila salme, più della metà di soldati senza possibilità di essere identificati, se non dalla divisa come italiani. È qui che, presumibilmente, la commissione incaricata dal governo fa esumare e ricomporre in una cassa la prima delle undici salme di soldati senza nome. Seguiranno nei giorni successivi le altre. Il 28 ottobre le undici bare, tutte uguali, sono affiancate l’una all’altra nella basilica di Aquileia. Per chi debba indicare, con un secondo grado di casualità, con gli occhi bendati da un’anonima cassa di legno, quale sia la salma destinata a Roma, non è stato scelto un militare ferito in guerra, come in Francia, o un alto ufficiale, come in Inghilterra. È stata scelta una donna, una madre.

 

Foto LaPresse

Solo un terzo dei caduti della Grande guerra erano uomini sposati. Il 12 per cento, è stato calcolato, aveva meno di vent’anni. Il lutto per i caduti è massimamente lutto di genitori, che devono affrontare in una società non preparata il più grave dei traumi: la perdita di un figlio. E quel trauma, acuito dall’assenza del corpo del dolore, fu evidente in alcuni casi presi in esame dalla commissione incaricata di scegliere una figura particolarmente rappresentativa come “madre spirituale” del Milite ignoto. Lorenzo Cadeddu, un ufficiale dell’Esercito che si è dedicato alla ricerca storica, nella Leggenda del soldato sconosciuto la racconta così: “Si pensò a una mamma livornese che si recò a piedi da Livorno a Udine alla ricerca del figlio disperso. Venne considerato il caso di una mamma di Lavarone che, saputo dov’era tumulato il figlio, si recò in quel cimitero scavando da sola e con le mani la terra che ne ricopriva i resti; quindi, trovate le ossa, dopo averle legate con un nastro tricolore, se le pose in grembo e le portò in paese seppellendole vicino a quelle del marito. Infine, venne considerato il caso di una mamma che ebbe la forza di assistere a oltre 150 esumazioni pur di trovare i resti del figlio…”. Non bastava, o forse era troppo. Il rito nazional-popolare richiedeva una donna del popolo, l’architettura simbolica dell’evento un tassello biografico che la legasse in qualche modo alla biografia della nazione.

Maria Maddalena Blasizza, figlia di un fabbro e di una lavandaia, era nata a Gradisca d’Isonzo nel 1867 e viveva a Trieste (allora Impero austro-ungarico), dove si era trasferita in gioventù. Il marito era un Antonio Bergamas, postino. Il figlio maschio, Antonio anche lui, formalmente suddito dell’Impero asburgico ma “educato nella fede di Mazzini” – avrebbero scritto dopo la sua morte in un opuscolo commemorativo – si era arruolato nell’esercito italiano con il nome di guerra di Antonio Bontempelli. Era caduto colpito da una raffica di mitraglia nel giugno del ‘16 durante un assalto che aveva voluto guidare lui stesso poiché come irredento, aveva sostenuto, spettava a lui l’onore di giungere per primo sui reticolati nemici. Aveva meno di 25 anni. Il suo corpo era stato inumato nel piccolo cimitero vicino alla trincea, devastato in seguito da un bombardamento che aveva reso irriconoscibili le salme. C’era dunque il soldato disperso, che “amò tenacemente l’Italia e morì per Essa”, c’era Trieste irredenta, c’era la madre figlia del popolo. C’era tutto.

Maria Bergamas la si può vedere ancora oggi avanzare lentamente, mater dolorosa vestita tutta di nero, davanti alle bare allineate ai lati dell’altare maggiore della basilica di Aquileia. Gloria. Apoteosi del soldato ignoto è il contributo del cinema alla creazione del mito del Milite ignoto, perché la traslazione con il viaggio del feretro per l’Italia e la grande cerimonia a Roma riprese dalla Federazione cinematografica italiana e dall’Unione fototecnici cinematografici furono anche il più grande evento mediatico a cui l’Italia avesse mai partecipato. Il film, restaurato in occasione del centenario dalla Cineteca del Friuli, ha una piccola falla proprio nel momento del “riconoscimento” della bara da parte di Maria Bergamas: la vediamo avvicinarsi alla decima cassa, accompagnati da una didascalia a schermo intero – “Nel trepido palpitare dei cuori… la madre mormorò: eccolo” – e poi è subito inginocchiata e commossa con le mani appoggiate alla bara. Ci racconta qualcosa di più (anche l’enfasi di un secolo fa) il diario di un testimone: “… Trattenendo il respiro giunse di fronte alla penultima bara davanti alla quale, oscillando sul corpo che più non la reggeva e lanciando un acuto grido che si ripercosse nel tempio, chiamando il figliolo, si piegò, cadde prostrata e ansimante in ginocchio abbracciando quel feretro”.

Finita la cerimonia, sul sagrato della basilica la banda della brigata Sassari suonò per la prima volta in via ufficiale la Canzone del Piave. La mattina del 29 il feretro, caricato su un treno speciale e ancorato in una carrozza aperta a un affusto di cannone, cominciò il suo lento viaggio lungo l’Italia. Udine, Treviso, Mestre, Venezia, Bologna, Firenze… Due ali di folla in ginocchio lo accoglievano nelle piccole e grandi stazioni e lungo i binari. La comunità dell’applauso era di là da venire. Imposto il silenzio, vietati i discorsi, era accettata, ma una sola volta, la Canzone del Piave. La quarta notte il treno era alla stazione di Portonaccio (l’attuale Tiburtina). La mattina del Giorno dei morti, dopo l’arrivo del convoglio alla stazione Termini, il primo corteo e il tributo religioso nella basilica di Santa Maria degli Angeli, aperta alla devozione dei romani. Alle nove del 4 novembre, terzo anniversario della vittoria, dalla basilica si avviò verso piazza Venezia il corteo imponente, con militari di ogni arma, decorati, bandiere e gonfaloni. Subito dietro al feretro, venti madri e venti vedove di guerra. E tutt’intorno, lungo il percorso e alle finestre dei palazzi, una folla come a Roma non s’era mai visto. Il rito dell’inumazione fu breve, le cronache sottolineano la solennità del momento e la commozione generale. Alle 10.36 si chiuse la pietra tombale. L’umile salma ai piedi della grande statua equestre del “padre della patria” si preparava a diventare il nuovo fulcro simbolico del monumento e dunque dell’unità nazionale.

Il culto dei morti e della memoria era già cominciato ancor prima della fine della guerra e in quegli anni a cavallo del ’20 si manifestò nella iperbolica diffusione dei monumenti ai caduti, un’altra risposta commisurata alla vastità delle perdite. Monumenti con nomi senza corpo, questa volta, perché i nomi restituiscono almeno quell’identità che la morte sul campo di battaglia ha annientato. In Italia poi fu tutto un fiorire di opuscoli e pubblicazioni commemorative curate da congiunti o amici del caduto. Nel 1922, il sottosegretario alla Pubblica istruzione del governo fascista, Dario Lupi, ebbe l’idea di consegnare alle scuole le chiavi della memoria, istituendo viali e parchi della Rimembranza, dove ogni albero fosse legato al nome di un soldato morto al fronte. La natura come monumento vivente. Il progetto ebbe una discreta fortuna sul momento, il secondo dopoguerra ne cancellò quasi totalmente le tracce, anche perché il fascismo si era appropriato quasi subito di quella memoria legandola all’altro mito, la vittoria mutilata, e pure integrandola con la memoria dei suoi caduti, quelli della rivoluzione fascista. 

 

Per gentile concessione del Museo centrale del Risorgimento, Roma 

Il Milite ignoto resta comunque l’invenzione commemorativa per antonomasia della Grande guerra. Capace di integrare il cordoglio privato con quello collettivo. Perché l’anonimato attesta l’eroismo di tutti e permette così di elaborare il lutto di tutti. Come sottolinea Oliver Janz, uno storico tedesco che ha seguito con particolare attenzione il dopoguerra italiano, nel suo anonimato il Milite ignoto estende il diritto alla sopravvivenza nella memoria collettiva – una forma secolarizzata dell’idea cristiana della vita eterna – a qualunque soldato abbia sacrificato la vita per la nazione. E i caduti vivono nel ricordo ma anche nel futuro storico della nazione per cui sono morti.

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