il libro

Il Daniel' di Ezio Mauro, racconto sublime di un uomo smarrito nel labirinto del potere totalitario

Giuliano Ferrara

Nel suo ultimo libro, dedicato alla figura del dissidente sovietico Julii Daniel', l'ex direttore di Repubblica percorre il labirinto della punizione totalitaria, della società del ricatto e dell’insindacabilità autoritaria piombata sui destini umani. Con una simpatia per l’oppresso che non ha un’oncia di banale emotività

Ezio Mauro si crede un giornalista. Ha i titoli giusti per questa fede: esperienza, rincorsa e anticipazione dei fatti, fatica sui dettagli, tigna del cronista e, come direttore, capacità di comando. Io penso che abbia anche i titoli sbagliati: schematismo ideologico, dissimulazione della parzialità anche faziosa, brodo di retorica e fissazioni “azioniste” (dal Partito d’azione, Torino). Come giornalista di una Italia che si vuole migliore, è spesso insopportabile, come professionista della notizia e della messa in pagina è stato spesso una testa di serie. Ma come scrittore mi si è rivelato di rara eccellenza nel suo ultimo libro, la storia di Julij Daniel’, il primo dissidente sovietico che fu incapace di identificarsi nel ruolo e preferì, dopo la condanna subita a testa alta, dopo il lager e il carcere duro, smarrirsi e ritrovarsi nel labirinto del potere totalitario che non lo mollava nemmeno dopo l’espiazione della pena. 

 

Mauro ha usato verbali, lettere e frammenti di poesia, che si è procurato con tenacia per tre decenni (il suo eroe morì nel 1988). Ha ascoltato testimonianze di primissima mano, toccato con garbo e ritratto con maestria affetti ravvicinati del protagonista, che è appunto “Lo scrittore senza nome” (Feltrinelli).  Ha raccontato da moscovita innamorato cose viste e intimamente trasfigurate come la panca di cucina in casa Daniel’, le strade e l’illuminazione di Mosca, le macchine nere del Kgb, l’appartamento bulgakoviano dell’intellettuale temerario e sognante, testardo e modesto, la società dei procuratori commissari inquirenti presidenti di memoria koestleriana e altri abitatori della livida Lubjanka, i compagni di prigionia, gli amici, i traditori. Aiutato dall’epica pubblica e domestica narrata da un figlio e da mogli eccezionali, come nella grande opera consacrata di Vasilij Grossman sull’epopea di Stalingrado, è emerso un resoconto d’atmosfera, di vita e di destino triste e dignitoso, problematico e ironico, tragico e in tutto grandioso perfino negli effetti tristemente comici.

 

Il cuore drammaturgico della storia, a parte le origini, la trama amicale che porta le opere degli scrittori all’estero, gli intrecci familiari sociali e privati di una società civile mutilata di ogni verità e libertà, sempre sottoposta allo sguardo sulle vite degli altri, è nella circostanza dell’assurdo assoluto: a Daniel’, che aveva pubblicato come il suo amico Sinjavskij sotto pseudonimo a Parigi, viene imposto, per i lavori di traduzione poetica elargitigli per campare dalla società editrice di stato, uno pseudonimo sovietico di contrappasso: Ju Petrov. L’espropriazione dell’identità perfeziona nel grottesco la condizione di sorvegliato speciale dell’ex galeotto, che era cominciata con un trucco di mostruosa sofisticazione: viene autorizzato a lasciare il confino postcarcerario per una visita a Mosca con un documento che reca la data dell’arrivo in città ma non la data della ripartenza. Lo scrittore senza nome sa di poter vivere solo una vita provvisoria, sempre prorogabile a completo arbitrio del potere amministrativo manovrato dalla sicurezza dello stato, dagli Organi, sempre revocabile con una nuova data, e questa provvisorietà lo accompagnerà per quasi vent’anni, sotto il controllo occhiuto e intimidatorio del Kgb, fino e oltre la morte fisica (1988) nella Mosca ormai invasa ma non liberata ancora dalla perestrojka e dalla glasnost gorbacioviane.

 

Il modo di scrivere di Mauro è bello, asciutto, restituisce con esattezza direi delirante l’opacità delle cose e la bellezza dei sogni come degli incubi dei protagonisti, percorre il labirinto della punizione totalitaria, della società del ricatto e dell’insindacabilità autoritaria piombata sui destini umani, con una simpatia per l’oppresso che non ha un’oncia di banale emotività, niente di dichiaratorio, e il racconto si immerge nella nebbia che assedia i lampioni, nella neve che bagna e ghiaccia la legna da spaccare nel lager, nell’opacità dei rumori di ferraglia, ma efficiente, che segnano lo stalinismo dopo lo stalinismo, negli anni Sessanta e seguenti del sistema sovietico. Sinjavskij, l’altro condannato, espatrierà con l’autorizzazione delle autorità e farà il mestiere di dissidente. Daniel’ è un tipo diverso, non si muove, non cerca un ruolo che anche il potere può considerare possibile, quello di dissidente espatriato, resta impigliato nella rete, vive nella tragedia il suo annullamento e il suo esproprio a partire dal nome, e il suo martirio si lascia dimenticare come una piccola brace sotto una montagna di cenere. 

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  • Giuliano Ferrara Fondatore
  • "Ferrara, Giuliano. Nato a Roma il 7 gennaio del ’52 da genitori iscritti al partito comunista dal ’42, partigiani combattenti senza orgogli luciferini né retoriche combattentistiche. Famiglia di tradizioni liberali per parte di padre, il nonno Mario era un noto avvocato e pubblicista (editorialista del Mondo di Mario Pannunzio e del Corriere della Sera) che difese gli antifascisti davanti al Tribunale Speciale per la sicurezza dello Stato.