il caso
Dietro alle filastrocche “intersezionali”, il nulla
Così la fine del “potere del maschio, bianco, etero” cela venature illiberali
A volte mi sembra di vivere nell’“Invasione degli ultracorpi”, tra i baccelloni alieni che uno dopo l’altro prendono il posto degli umani; o in quell’invasione degli ultracorpi in miniatura che Godard girò nei primi anni Sessanta, “Il nuovo mondo”, dove un’esplosione atomica lascia intatti gli edifici di Parigi ma devasta il linguaggio e la logica. Il primo presagio, che avrebbe dovuto mettermi in guardia, è stato un cartello esibito a Milano da una manifestante dopo l’affossamento del ddl Zan. Diceva così: “Il tempo del potere maschio, etero, cis, non disabile e bianco è finito”. Il mio pensiero è corso a Flaubert – come avrebbe trattato, nel suo sciocchezzaio, una filastrocca del genere? – ma tre femministe intersezionali mi hanno subito rimesso in riga: primo, io sono un uomo cishet (nella neolingua post-atomica significa che non sono né trans né gay); secondo, sono un maschio bianco che “si permette” (sic) di ironizzare su una teoria, l’intersezionalità, creata da una donna nera. Ergo, è naturale che io sia messo a disagio da quella scritta, e farei bene a psicoanalizzare la mia paura di assediato – diciamo pure la mia “fragilità bianca”. L’ipotesi che il mio fosse, al limite, imbarazzo vicario per un cartello cringe sul “potere non disabile” non era contemplata.
Neppure il tempo di riprendermi dalla lavata di capo ed ecco che Michela Murgia, commentando l’articolo di Luca Ricolfi sul politicamente corretto, denuncia l’ipersensibilità del “maschio bianco eterosessuale quando sente minacciato il suo privilegio”. Non mi è chiaro quale privilegio debba temere di perdere un professore di settantuno anni, ma a quanto pare il fastidio di Ricolfi per gli asterischi o per la identity politics discende, come il mio, da una combinazione fatale di caratteristiche anatomiche e anagrafiche. Il giorno dopo i baccelloni hanno tentato di impadronirsi (ma ci sono riusciti solo per metà) di Chiara Valerio, dettandole una risposta a Ricolfi: “Uno spettro si aggira sui maschi bianchi eterosessuali italiani: il politicamente corretto”. Fino a oggi si erano (ci eravamo) creduti una non-categoria, ma “tutti insieme ci stiamo accorgendo che l’universo non coincide col maschio bianco eterosessuale”. Che un sociologo veterano, e non il principino Siddharta dopo l’incontro con il mendicante, scopra tutto d’un tratto di aver vissuto in una prigione dorata e avverta, con un confuso “malessere” (di nuovo), che i maschi bianchi non sono il centro del mondo, suonerebbe improbabile anche in epoca vittoriana. Ma è da sciocchi confutare una filastrocca, e del resto la fortuna di un gergo non deve mai stupirci: una langue de bois è un arnese impareggiabile per chi vuole esonerarsi dalla fatica del pensiero.
Nelle sue memorie, Aleksander Herzen racconta il momento in cui i giovani russi, intorno agli anni Trenta dell’Ottocento, si impadronirono del gergo hegeliano. “Era una lingua artificiale, greve e scolastica, perché viveva nelle accademie, cioè nei monasteri dell’idealismo”. Una lingua destinata ai fedeli, “di cui bisogna avere la chiave, come per le lettere in codice”. Eppure, questa lingua così astratta si prestava a molti usi, come un coltellino da campeggio: poteva spiegare tutto, incasellare tutti, vincere dialetticamente ogni avversario, anche intellettualmente più robusto. Qualcuno ha paragonato la dialettica hegeliana a un boa costrittore, che ti soffoca avvolgendoti nelle sue spire, ma oggi rischiamo di cadere preda di un “boa decostruttore” (questa la debbo al genio di José Merquior). Anche questa seconda bestia è stata allevata nelle università, non prussiane ma nordamericane, e importata con la stessa dabbenaggine con cui i giovani russi si erano fatti mandare casse di Hegel, che invecchiando sarebbero diventate casse di Marx. A loro volta, però, in questo concitato import-export delle idee, gli americani si sono approvvigionati in Francia, e forse possiamo decodificare la nostra filastrocca intersezionale con l’aiuto di un vecchio pamphlet di due francesi maschi bianchi cis che non sapevano ancora di esserlo, Luc Ferry e Alain Renaut: “Il 68-pensiero” (1985), dedicato alle fortune di Derrida, Lacan, Bourdieu e Foucault.
Se per ascoltare e valutare il discorso dell’altro bisogna chiarirne prima di tutto l’identità, “sino a che punto bisogna giungere per scoprire (per fargli confessare) quella identità?”. È sufficiente svelare la sua collocazione di classe? E perché non le sue origini etniche? “Insomma, dove esattamente passa la linea di confine che la genealogia, nella sua volontà di squalificare a priori il discorso dell’altro, non può valicare? In che cosa, ad esempio, sarebbe più legittimo giudicare il discorso degli altri in funzione della loro posizione di classe piuttosto che in funzione della loro origine etnica? È qui che con chiarezza si coglie in che cosa il principio stesso di questo atteggiamento è intrinsecamente terroristico”. Terroristico: ossia ricattatorio e disumanizzante. Ferry e Renaut, poveri illusi, credevano di ragionare per assurdo: chi mai avrebbe osato ricondurre le idee di un avversario alla sua origine etnica? Sotto le insegne di quell’assurdo marciano oggi i nuovi ultracorpi.