angoscioso surplace
Farmaci e nevrosi in versi. La musa crepuscolare e pop di un depresso
Alterazioni percettive, incubi, medici e ricoveri trovano spazio e vita attraverso la poesia, rime tornite e toni tragicomici, su uno sfondo cupo. “Litania nervosa”, il nuovo libro di Marco Simonelli
Secondo un’ipotesi teologica, il mondo redento sarebbe appena diverso dall’attuale. Nella depressione succede il contrario: il mondo somiglia a quello di sempre, ma è mostruosamente svuotato di senso. Il depresso si sente informe, mentre si dibatte in un paesaggio che lo è altrettanto – in un pantano che abolisce le distinzioni nette, e di cui non sa mai se sia una vasta sabbia mobile o solo una banalissima pozzanghera. È difficile rappresentare questa condizione opaca, nella quale mente e corpo si scambiano di continuo i sintomi. Più le forze in campo sfuggono a un dramma visibile, più si proverà a rimediare traducendole in una vistosa allegoria bellica. Maggiore è l’informità, il carattere sfuggente quanto pervasivo di una tale esperienza, più si sarà tentati, per compensare, dall’uso di una forma nitida e marcata.
In poesia, dove le scelte stilistiche risaltano a occhio nudo, sembra a volte di intuire un rapporto diretto tra il tono emotivo dell’autore e il suo atteggiamento verso le forme chiuse o le armature metrico-ritmiche imponenti. Pensiamo ai tre poeti che introducono al ’900 italiano. Si potrebbe supporre che sia il vitalismo anarchico di Ungaretti, percorso da grandi esaltazioni e dolori ma mai da vere depressioni, a tenerlo lontano dai sistemi formali costrittivi; la ciclotimia di Saba si riflette nelle forme semiaperte, sempre in bilico tra una prigione che non si addice del tutto al poeta e una libertà che per non dargli le vertigini dev’essere vigilata; e forse le costruzioni fittamente tramate di Montale, che sembrano escogitate a freddo, servono a sostenersi nell’apatia: la sua iperpoesia, che capitalizza ossessivamente simmetrie musicali e rime interne, scaturisce da uno stato ipovitale. Se poi si procede verso il tardo ’900, in Andrea Zanzotto e Patrizia Valduga si vede chiaro il legame tra nevrosi e ripresa manieristico-parodica della forma sonetto.
A tutto questo mi hanno fatto pensare le poesie di “Litania nervosa”, il nuovo libro di Marco Simonelli uscito per Valigie Rosse. La musa di Simonelli è crepuscolare e pop, predilige il verso tornito e i toni tragicomici. Qui però, rispetto alle raccolte precedenti, lo sfondo è più cupo. Tutti i testi sono variazioni sul tema della depressione: si parla di farmaci, alterazioni percettive, incubi, medici, ricoveri. Il manierismo “valdughiano” aiuta a drammatizzare una vicenda che non sembra conoscere sviluppi, e dà alle poesie una coesione senza la quale il soggetto andrebbe forse in pezzi: è il corrispettivo estetico del “perplesso senso del dovere” che tiene in vita l’io malgrado i suoi propositi suicidi. Quest’io si arrocca con maestria in quartine semplici o doppie e in sonetti percussivi, saturi. Le rime insistite dànno un effetto di angoscioso surplace, e lo stesso fa la sintassi piena di punti fermi che rompono gli endecasillabi in sequenze di parole isolate, di prescrizioni lapidarie, o di stenografici abbozzi d’un paesaggio interiore quasi indistinguibile da quello esterno.
Un esempio: “Corsia di vento forte. Fortunale. / Una raffica spazza la banchina. / Quando il soffio diventa micidiale / somministrare benzodiazepina”. Se il malato non teatralizza la verità irrappresentabile della sua sofferenza, gli altri non riescono a immedesimarsi in lui; ma se lo fa, lo rimproverano perché recita. In ogni caso gli impartiscono le ben note, inutili lezioni: “È solo colpa tua se sei depresso. / Dovresti stare attento ai tranquillanti. / Dovresti uscire fuori un po’ più spesso. / Dovresti superarlo. Andare avanti. / Lo fai apposta, è tutta una finzione (…) Tu pensa a chi sta male per davvero. / Amici cari. Affetti. Conoscenti. / Fratelli. Genitori. Altri parenti”.