"Siamo una generazione che ha paura di essere vulnerabile". Chiacchierata con Renate Reinsve
Il cinema e la moda. La Norvegia e Cannes. Quella sensazione di incertezza e di precarietà e l'arma per sconfiggerla: l'ironia. Parla l'attrice protagonista di “La persona peggiore del mondo”, il film scritto e diretto da Joachim Trier
“In Norvegia abbiamo fatto molta strada per la parità di condizioni, ma siamo ancora bloccati su alcuni aspetti appresi in modo subconscio, sia socialmente che culturalmente. In ogni caso, il mio paese ricopre un posto molto alto nella lista del conformismo sociale: abbiamo – è vero – molte regole rigide su come dobbiamo vivere la nostra vita, ma c’è oggi una grande libertà nel cambiare lavoro e partner ogni volta che si vuole. Pensate a quanto fatto durante il Covid: dopo un anno e mezzo di regole ferree rispettate da tutti, oggi abbiamo revocato tutte le restrizioni e siamo tornati a una vita quotidiana normale senza mascherina. Viviamo, comunque, come tutti, in tempi che generano confusione e non so se questo dipenda anche da una questione generazionale”.
In un hotel del centro di Roma con vista sulla fontana del Tritone del Bernini, Il Foglio incontra Renate Reinsve, protagonista de “La persona peggiore del mondo”, il film scritto e diretto da Joachim Trier che uscirà nelle sale il 18 novembre prossimo con Teodora.
T-shirt nera come lo smalto, classe 1987, sorriso smagliante, la nuova icona ‘acqua e sapone’ (definizione orrenda, ma lei è davvero così) del cinema francese e della moda scelta da Nicolas Ghesquière come testimonial di Vuitton, è qui per parlarci del personaggio di Julie che l’ha consacrata attrice rivelazione all’ultimo Festival di Cannes facendole vincere il Prix d’interprétation féminine. “È una giovane donna che alla soglia dei trent’anni non ha ancora le idee chiare su chi è e su cosa voglia fare della sua vita”, ci dice. “Non lo sa, ma ha bisogno di essere definita dallo sguardo altrui, perché non riesce a trovare la sua vera identità”. Cambia infatti piano di studi, lavoro e uomini con grande facilità, aggiungiamo noi, ma senza rimorso, perché in lei non c’è incoscienza, ma solo una determinazione a voler fare quello che vuole nel rispetto della volontà altrui. “Non sa da dove vengano il suo malessere e il suo disagio - aggiunge lei - ma è pronta a cercare sempre la causa del problema, il primo passo, questo, di ogni rivoluzione e di ogni lotta”.
Un racconto di formazione, quello di Trier (in dodici capitoli più un prologo e un epilogo), che racconta l’evoluzione di una personalità femminile a suo modo coraggiosa, un film con tratti di commedia romantica pronto a rappresentare la Norvegia ai prossimi Oscar. “Mi riconosco molto nel modo esistenzialista di pensare che ha Julie”, continua Renate. La vedo distaccata dalla sua stessa vita, non è a suo agio nell’essere sé stessa, le risulta difficile accettarsi per quella che è”.
“Credo comunque che questo film abbracci il campo dell’esistenza di ognuno di noi. Persino mia nonna, che ha 83 anni, quando ha visto il film ha detto di essere lei Julie, perché come lei, nonostante la differenza d’età e la pensione, ha un nuovo lavoretto e, pensi un po’, anche un nuovo fidanzato! (ride, ndr)”.
“Viviamo tutti in un periodo in cui è difficile orientarsi e questo anche per colpa dei social dove uno deve sempre commercializzarsi e vendersi. Capisco quella sensazione di incertezza e di precarietà che vive Julie e come lei, ho più domande che risposte”. La sua vita, però, è cambiata dopo la vittoria della Palma d’Oro è totalmente cambiata e adesso – dice – “mi fa un certo effetto essere chiamata da registi e sceneggiatori che ho sempre ammirato che cercano proprio me. Vengo dl teatro, un mondo completamente diverso, son ancora in confusione”.
“Non mi sento un’attrice donna e spesso ad ispirarmi nel mio lavoro sono stati soprattutto attori uomini. Per questo, ad esempio, ci ha pensato Timothée Chalamet, dopo averlo visto in Chiamami col tuo nome. Mi interessa comunque l’essere umano, anche se sono di genere femminile. Mi chiedo spesso cosa avrebbe fatto il mio personaggio se fosse stato un maschio, come sarebbe stato giudicato. Ci sono ancora troppi stereotipi nel cinema, ma le cose stanno cambiando, almeno nel cinema norvegese, pieno di personaggi forti. La nostra – conclude – è una generazione che ha paura dell’intimità, di essere vulnerabile”. Come difenderci? Le chiediamo. “Non ho dubbi – fa lei – con l’ironia, ma questo a volte può essere un’arma a doppio taglio, può creare distanza tra le persone. Siamo andati oltre l’ideologia, non crediamo più a nessuno, nemmeno ai governi. Io mi faccio domande su tutto, ma quelle sul mio domani, ovviamente, ancora non le so”.