letteratura e dintorni
Breve rassegna dei miti originari che descrivono la narrativa italiana del Novecento
L’ordine per Calvino e Gadda, le Maschere per Morante e Pavese. Antologia del tema centrale da cui partono le opere dei più importanti autori del secolo scorso
Poche settimane fa ho proposto sul Foglio un esperimento che mi sembrava adeguato al drastico ridursi del nostro span di attenzione: un’antologia della poesia italiana dove ogni poeta era rappresentato da un verso solo. Qualche lettore mi ha subito invitato a esercitarmi in modo analogo sui narratori. Nel loro caso, però, credo si debba battere un’altra strada: non isolare una riga o due, ma trovare o inventare per ognuno il mito originario, l’apologo che definisce la situazione esistenziale da cui partono tutte le sue trame.
Mi limito ad alcuni esempi tratti dall’ultimo secolo. Prendiamo Calvino e Gadda. Sono due scrittori affetti da una sorta di “fobia del contatto”; e sono anche (forse per questo?) i narratori del 900 oggi più celebrati. Strani narratori, a dire il vero: che non fuggono solo dal romanzo, ma perfino dal racconto. La situazione che dà forma ai libri dell’igienista Calvino si potrebbe descrivere così: c’è un personaggio dotato di un candido sguardo infantile, e di un’astuzia da uomo maturo, che si aggira in un giardino incantevole e perfettamente potato. A un certo punto ne oltrepassa la soglia e vede davanti a sé uno scenario di caos e devastazione: cespugli contorti, rifiuti, smog. Riesce a sopportare quella realtà sporca e asimmetrica solo quando capisce che esiste una maniera per ordinarla: basta isolare ogni suo elemento e collegarlo ad altri simili. Occorre immaginare una città in cui esistano solo rottami di frigoriferi, un’altra in cui le vie siano tutte torrenti di liquami, un’altra ancora in cui i palazzi vengano costruiti con nuvole di fumo o intrichi di mangrovie. Insomma: l’ordine come tesi, il disordine come antitesi, un ordine superiore come catalogazione.
Questo escamotage non è concesso al nevrotico uomo d’ordine Gadda. Ogni sua cellula narrativo-digressiva sgorga dal trauma di un misantropo costretto a condividere la casa con una folla di condòmini. I suoi sensi non fanno che percepirne la presenza invasiva: zaffate di sudore, bave, strepiti, occhi insinuanti a porte e finestre. Per questo poveretto mettere ordine vuol dire descrivere iperrealisticamente tutti gli intollerabili oltraggi, e cercare di ricondurli a un disegno la cui razionalità si rivelerà solo in un processo infinito. A volte l’io gaddiano è così provato che invoca una polizia brutale, da dittatura: ma poi si accorge che i suoi sgherri sono gli stessi che tentano d’intrufolarsi nelle sue stanze con una spudoratezza ricattatoria.
Altrettanto doloroso è il mito dal quale nascono le cattedrali romanzesche di Elsa Morante. Immaginate una bambina che vive in una casa modesta, avvolta nell’aria soffocante delle ambizioni sbagliate. La bambina si traveste spesso da principessa, anzi da principe, e si racconta storie in cui il suo ambiente piccolo-borghese diventa sontuoso e fiabesco. A poco a poco non ricorda più che sta giocando. Così cresce come avvolta in un sogno, e tutto ciò che lo incrina le costa una sofferenza devastante. Da grande capisce che solo smettendo la recita potrebbe riguadagnare la salute; ma ormai è fatta della stoffa di quel sogno a un punto tale che uscirne significherebbe morire.
Anche Pavese ha bisogno di una maschera, come tutti gli eterni adolescenti. La sua scrittura sembra nascere dal tentativo di darsi un tono. L’angoscia del vuoto, il terrore di non esistere vengono compensati da un ritmo fortemente scandito, da quella cadenza anapestica e da quella posa “americana” con cui imita una lenta sentenziosità virile. Ma anche dove il suo accento vuol essere più aspro e oggettivo, il lettore intuisce che come in certi cantanti rap ogni cosa nominata ha valore solo in relazione al vagheggiamento (magari taciuto) di una donna, anzi allo stupore adolescenziale che esista l’universo femminile.
Tutt’altro rapporto ha col sesso Alberto Moravia. Ma il mito che chiude in sintesi la sua narrativa c’è già, e lo hanno scritto Saba e Brancati. Il primo ipotizza che il piccolo Moravia abbia assistito a un amplesso scambiandolo per un’aggressione, e fissandolo quindi per sempre in una “immagine mostruosa e irreale”; il secondo in un suo dramma crea un personaggio simile all’amico, e dalla sua antagonista lo fa giudicare così: “Direi che durante la sua fanciullezza (…) lei non riuscì a espellere dallo stomaco il disgusto che qualcuno (…) le aveva dato, e ora la sua ispirazione consiste tutta nel cercare le cose più ripugnanti che le diano quello stesso impulso che allora rimase interrotto, nella speranza che questa volta lei possa sfogarlo interamente”.
Nella mia breve rassegna Moravia può sembrare il narratore più patologico; eppure è l’unico che non ha esorcizzato la nuda realtà del Novecento – né con la Fiaba né con il Catalogo, né con il Grottesco né con l’Esotismo. Forse per questo si è voluto dimenticarlo troppo in fretta.