Hillman l'italiano. Cosa rimane oggi delle intuizioni di uno degli eredi di Jung
A 10 anni dalla morte dello psicoanalista, rivive lo studio sul Puer aeternus, genio italico che ha indagato il valore della bellezza
Lo psicanalista junghiano Ernst Bernhard, che visse per mezzo secolo a Roma ed ebbe tra i suoi pazienti e amici Cristina Campo e Federico Fellini, raccontava nel 1961 su Tempo Presente che i colleghi stranieri gli chiedevano spesso come potesse fare psicoterapia con gli italiani. Era certamente fatica sprecata, perché in Italia un’ombra, anzi l’Ombra per eccellenza, incombeva indelebile e tiranna su uomini e donne, tutti eterni ragazzini impigliati nella rete della Grande Madre mediterranea e tutti, di conseguenza, segnati dal marchio del Puer aeternus, nel bene e nel male. Nel bene, per audacia, intuizione creativa, entusiasmo. Nel male, per faciloneria, esibizionismo, inaffidabilità. La risposta di Bernhard la possiamo leggere nel suo grande classico, “Mitobiografia” (Adelphi), ma fu un altro junghiano eterodosso, James Hillman, a ribaltare la prospettiva sul tema in questione, attraverso i suoi studi sul Senex e sul Puer.
Non a caso, nel 1988 Hillman scelse di pubblicare prima di tutto in italiano la sua raccolta di “Saggi sul Puer”, ora riproposti dallo stesso editore di allora, Raffaello Cortina, in occasione del decennale della morte dell’autore. Quei saggi sono anche un omaggio voluto e un riconoscimento al “genio italiano”, che Hillman vedeva incarnato e determinato dall’influenza della figura del Puer. Non più visto come perenne vittima del “disordine nevrotico derivato dal complesso materno”, ma come figura “ricca di grazia e di seme”, traboccante di un desiderio che muove le cose del mondo. Da Enea a San Francesco, da Cola di Rienzo a D’Annunzio, da Leonardo a Puccini, l’influenza del Puer si traduce in ispirazione, diventa lievito delle idee e incoraggia l’attitudine a “spingere la vita oltre la vita stessa”, scrive Hillman. Beni inestimabili da apprezzare, non malattie da curare, secondo lui, che negli italiani Marsilio Ficino e Giambattista Vico riconosceva gli iniziatori del movimento di “conoscenza dell’anima”, precursore della psicologia e del “pensiero del cuore”. Hillman intitolò così una conferenza tenuta nel 1979, nella quale parlava delle vite di Dante e di Petrarca mutate per sempre solo per aver contemplato da lontano Beatrice e Laura. Da quegli “eventi del cuore” scaturì “la trasformazione di tutta la cultura occidentale, che nasceva come trasformazione estetica; era una trasformazione generata dalla Bellezza”. In nome di quella Bellezza maiuscola, Hillman non avrebbe mai smesso di approfondire e coltivare il suo amore per l’Italia, ma anche di stupirsi perché il tema della bellezza non ha mai veramente trovato cittadinanza nel mondo della psicologia e della psicoanalisi. Infine, ottantaduenne, scelse una città italiana carica di storia e di meraviglie, Ravenna, come il luogo perfetto da cui trarre ispirazione per dare forma compiuta alle sue idee sull’immagine come “forma dell’anima”, come via per arrivare all’anima stessa.
Il viaggio di Hillman in quella che era stata la capitale dell’Impero romano d’occidente fu anche un modo per chiudere i conti con Jung, il quale nella stessa città aveva avuto sogni e visioni indelebili. Il resoconto del viaggio del 2008 e l’elaborazione successiva dei suoi frutti, avvenuta tre anni dopo, quando Hillman sapeva di avere poco tempo da vivere, sono diventati un libro originale e profondo. Si intitola “L’ultima immagine” (Rizzoli) ed è un testamento filosofico scritto in forma di dialogo con la bizantinista Silvia Ronchey, l’amica e collaboratrice di lunga data che aveva accompagnato Hillman nella visita a Ravenna e che poi lo aveva raggiunto nell’ottobre del 2011 a Thompson, nel Connecticut, per aiutarlo in extremis a portare a compimento il lavoro interrotto dalla malattia.
La consapevolezza della fine prossima fa risaltare il coraggio e la generosità di Hillman nel voler indicare a chi lo avrebbe letto la strada per rivolgersi all’immagine che nasce dal cuore come “presentazione” della verità, cercando di uscire dalla confusione e dall’inganno provocati dal diluvio delle “false immagini”, che invitano all’azione e non alla contemplazione e che sono destinate a non ricomporsi mai, come invece fanno mirabilmente le mille tessere dei mosaici ravennati. E’ ancora una volta l’Italia a regalare a Hillman il materiale di quell’estrema elaborazione. Rievocando la visione del mosaico dell’abside di Sant’Apollinare in Classe, il grande globo blu con la croce centrale, circondato dal verde e da figure di “pecore e santi, genti e natura”, Hillman vede all’opera l’unità del cosmo e la bellezza: l’istanza più potente, perché “evoca l’amore”.