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Troppi “fenomeni emergenti”, mentre sono ignorati i veri scrittori. Un libro

Giulio Silvano

Il canone letterario del Novecento italiano (e oltre) dai portici di Bologna: quando si presta troppa attenzione alle "rivoluzioni" si perde di vista la bellezza della scrittura

Costruire un canone letterario è un’impresa estremamente ardua, ma farlo con l’intenzione di educare gli “studenti del triennio” – come si legge nella quarta di copertina di questo Cento anni di letteratura italiana 1910-2010 appena uscito per Einaudi – diventa un’operazione pericolosissima. Curato da Marco Bazzocchi, che insegna a Bologna, il volume si pone come guida attraverso il patrimonio letterario di una nazione, con tre dichiarati obiettivi principali: dare più spazio alle donne (ormai obbligatorio), dare peso agli anni 70, e poi, entrando nel nuovo millennio, “sottolineare i fenomeni emergenti, come le scritture del dispatrio, i fototesti, la poetry slam, la pervasività del digitale”. Sul primo punto c’è poco da dire, i nomi citati son già classici da un bel po’ (Morante, Ginzburg, Aleramo, Deledda, Rosselli…), o comunque ormai molto à la page come Goliarda Sapienza e A.M. Ortese; Dacia Maraini, ad esempio, viene nominata solo due volte (e una come “nuova compagna” di Moravia).

 

Sul secondo punto turba, non poco, scoprire una posizione celebrativa verso il ’68 e successivi frutti letterari che credevo ormai datata, si parla degli anni Settanta come di “grande sovversione”, del “dare parola a ciò che fino ad allora non l’aveva avuta”, neoavanguardie che con veemenza attaccavano il romanzo borghese, gruppetti di cui oggi è rimasto molto poco. Si susseguono poi le mode (anche giustificate), come la “riscoperta” di Del Giudice o la wave emiliana (Celati e Tondelli), che Vasco Brondi legge ai suoi concerti – non è un caso che sulla copertina ci sia una foto di Ghirri. Sull’iper contemporaneo sconvolge la scelta dei nomi da far studiare agli studenti; autori multitasking impegnati: curatori, giornalisti, editor, presidi, comparse tv, come Scurati, Belpoliti, Murgia, Baricco!, qui istituzionalizzati, e poi la cricca del neo noir (De Cataldo, Faletti!, Lucarelli) e una parte tutta per Saviano e i Wu-Ming. Non sarebbe nemmeno troppo assurdo parlare di queste tendenze se si vedessero anche gli altri percorsi letterari di questi anni, autori come Giordano Tedoldi, Francesco Pacifico, Massimiliano Parente… (ancora troppo borghesi?) che qui vengono ignorati, come dimenticato è il romanzo perfetto L’ultima estate in città di Calligarich, giusto per dirne uno. Tra queste neglette voci viventi non figura nemmeno Alessandro Piperno, penna che fu paragonata a quella di Proust e di Philip Roth – “Vabbè, è midcult!”, potrebbe obiettare qualche snob accademico invidioso, eppure alcune pagine dopo Gomorra c’è un intero capitoletto dedicato al “caso Ferrante”.

 

Quando si sta troppo attenti ai “mutamenti” e alle “rivoluzioni” si perde di vista la bellezza della scrittura. Andando a ritroso nel lungo Novecento ampiamente esplorato dal manuale, prima di questi gloriosi Settanta e delle “scritture migranti” di oggi, tra i numerosi capitoli su Moravia e Calvino e PPP, ci sono alcuni nomi dimenticati, nemmeno mai citati nell’indice, che ad alcuni potrebbero far fare un salto dalla sedia. Ne ho selezionati quattro per questione di spazio: il primo è Calasso (almeno come editore, dico), il secondo è Valentino Zeichen, il terzo è Giuseppe Berto e il quarto è Curzio Malaparte. Malaparte! È scioccante. Che stia ancora pagando la sua momentanea “vicinanza” al fascismo? Se il grande canonizzatore Harold Bloom si autodefiniva “barricato sul fronte del Sublime”, questi mi sembrano bloccati nella palude dei portici via Zamboni, tra i cocci del pop à la Eco e gli effluvi di Petrolio, e paiono guardare al contemporaneo come un boomer guarda i meme sull’iPhone del figlio.

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