Il monologo interiore non ha migliorato l'arte narrativa

Alfonso Berardinelli

La tecnica, resa famosa da Joyce e ripresa da Faulkner, già negli anni Trenta era poco usata. Ma oggi è arduo usare il flusso di coscienza per spiegare la propria confusione. Meglio guardarsi intorno, alla ricerca di deliri, nevrosi ed ebbrezze 

La tecnica più famosa e discussa del romanzo novecentesco, lo stream of consciousness o monologo interiore, non è stato sempre capace di migliorare la qualità dell’arte narrativa, ha avuto tuttavia una notevole funzione conoscitiva nonché, forse, morale: ci ha insegnato che la nostra realtà mentale e quella di ogni personaggio oggetto di racconto, è una realtà plurima, confusa, caotica, nella quale entra e si mescola di tutto senza una logica precisa. Sembrò che una tale tecnica mettesse in discussione e minasse la tradizionale solidità e legittimità del romanzo realistico; invece era vero il contrario: si trattava di un procedimento adottato per essere più realistici che mai, registrando senza mediazioni razionali il flusso mentale di uno o più personaggi. E’ una tecnica resa famosa da Joyce e ripresa da Faulkner e pochi altri. Ma già negli anni Trenta del secolo scorso quasi nessuno la adottò.


Mi chiedo ora se sia possibile usare il flusso di coscienza in un articolo per esibire la propria confusione. Sembra proprio di no. La confusione nei giornali deve indossare un decente abito di ragionevolezza, se non di razionalità. Il lettore di giornali non è ancora così spregiudicato e letterariamente sofisticato da accettare di leggere un articolo magari suggestivo ma privo di logica, che emerga dall’inconscio piuttosto che dalla coscienza osservatrice e argomentante di chi scrive.


Senza arrivare a un’applicazione del monologo interiore, mi rendo conto che ho nella testa, come lettore di giornali, una certa confusione, forse indotta anche da un articolo uscito qualche giorno fa sul Venerdì di Repubblica a proposito di alcolismo e letteratura. In effetti, se la saggistica tollera poco l’assunzione oltre misura di bevande alcoliche, narrativa e poesia ne hanno tratto, sembra, qualche vantaggio. La letteratura americana, per esempio, sembra che senza autori ubriachi non sarebbe mai nata. L’alcolismo cronico (fino al delirium tremens) di Edgar Poe è noto, e nel Novecento ci sono stati i casi piuttosto gravi di Scott Fitzgerald e Hemingway, di Kerouac, McInnerny, Carver e Cheever. Drogata è la poesia di Coleridge, Baudelaire e Rimbaud: innovano e rivelano anche perché deformano. In Italia la sobrietà sembra molto maggiore. Eppure in un recente articolo su questo giornale, Matteo Marchesini ha brillantemente analizzato le mitomanie, al limite del patologico, che sono alla base della narrativa di Gadda e di Calvino, di Pavese, della Morante e perfino di Moravia.


Ebbrezza e mitomania, confusione esagitata e socialmente pericolosa, è poi quella di coloro che hanno in testa un altro mito, quello della somministrazione del vaccino come crimine politico di stato ai danni dei cittadini. Il settimanale tedesco Der Spiegel ha scritto in questi giorni a proposito della “federazione di imbecilli” che negano la realtà della pandemia e che hanno portato la Germania, paese notoriamente ben governato, a subire un livello di contagi superiore a quello di molti altri paesi europei.


Ha assunto caratteristiche alquanto deliranti (come ha spiegato Matzuzzi nell’articolo “Il Dio con l’asterisco”) anche il voler correggere secondo correttezza politica l’idea di un Dio padre, cioè maschio, con un Dio madre, cioè femmina: come se ritoccare l’immagine di Dio aggiungendo nuove qualifiche o rovesciando le vecchie bastasse a capire la sua più vera divinità, senza pensare che nel cristianesimo l’immagine giusta e percepibile c’è già ed è quella dell’incarnazione divina in Cristo Gesù, piaccia o non piaccia il suo essere uomo.


Quanto alla vita e alla morte, altro tema non trascurabile da cui hanno avuto origine tutte le religioni, ne parla su Avvenire Giuseppe Cantarano, passando da Epitteto (filosofo cinico-stoico del primo secolo dopo Cristo) per arrivare a Jacques Derrida, eloquentissimo “decostruzionista” del quale Jaca Book pubblica ora il testo del seminario "La vita la morte". La formula di Epitteto resta la pietra angolare filosofica di chiunque scelga di risparmiarsi il problema dell’aldilà: “Il male che ci spaventa di più, la morte, non è niente per noi, perché quando ci siamo noi, non c’è lei e quando c’è lei, non ci siamo noi”. Ma ecco che seguendo “gli snodi cruciali talvolta impervi” di Derrida (così dice l’articolista) si arriva biologicamente a unificare invece che opporre morte e vita. Realtà o abbaglio geneticamente dimostrato? Il fatto è che noi, socialmente e come individui, non siamo pura biologia, non ragioniamo come una cellula. Concepiamo, temiamo la morte come il contrario della vita. L’io fisicamente transitorio che siamo in vita, ci sta a cuore, l’abbiamo guardato e curato fin dall’infanzia. La verità genetistico-filosofica ci lascia piuttosto indifferenti. La vecchia idea di Epitteto suona invece eternamente attuale. La morte che duole di più e più a lungo, non è la nostra, è quella di chi amiamo.

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