Facce dispari

Toni D'Angelo, il regista che fa da ponte tra Hong Kong e Mario Merola

Francesco Palmieri

Regista napoletano di "Calibro 9", ha ripescato Barbara Bouchet e reso omaggio a Scerbanenco. Netflix? "Un'opportunità". L'intervista

Alla roulette dei tipi, il regista Toni D’Angelo esce puntando sull’impair. Napoletano cresciuto a Roma, è appassionato del cinema d’autore hongkonghese quanto dei film con Mario Merola, è chitarrista elettrico ma figlio dell’icona melodica Nino, di fede laziale e culto maradoniano, di curiosità onnivore dietro l’apparenza di una svagata distrazione. Con l’ultimo film diretto, il noir ‘Calibro 9’, ha reso omaggio alla celebre pellicola di genere firmata Fernando Di Leo e tratta da Scerbanenco: ‘Milano calibro 9’ del ’72. Per farne il sequel, D’Angelo ha ripescato persino Barbara Bouchet, la bella e perfida ballerina Nelly, nell’aggiornato scenario di oggi.

 

Senza citare Tarantino, qual è il valore del cinema di genere?

Permette di affrontare temi universali in modo peculiare. Per esempio parlare di politica attraverso una storia di zombie. Con il cinema di genere puoi divertire lo spettatore pigro e offrire a quello più esigente gli spunti per pensare.

 

Di Leo e gli altri, sminuiti a suo tempo, oggi sono incensati. Non è sempre lo stesso snobismo?

Gli intellettuali impegnati giudicavano quei film più o meno fascisti, senza sapere per esempio che Di Leo era comunista convinto. Oggi come ieri, il pensiero di un autore deve arrivare attraverso la storia. Se vuoi rendere esplicito un messaggio fallo pure, ma è un paradosso mescolare militanza e mercato. La politica schierata non si fa in sala cinematografica. Perciò ho sempre amato Fellini.

 

Cosa manca all’attuale cinema italiano?

Quella commedia che mescolava la risata all’amarezza e raccontava i tipi umani anche attraverso debolezze e antipatie. Cioè la vita reale, che oggi pare divorata da Internet. Si rappresentavano personaggi indimenticabili che non vedo quasi più. Mi ha emozionato il film di Sorrentino: ‘È stata la mano di Dio’ è un ritorno a quel cinema, che inizia come una commedia ma diventa drammatico, con la libertà di scrittura di un grande regista.

 

Moltissimi lo vedranno su Netflix. Cosa pensa delle piattaforme?

Sono un’opportunità per aumentare le produzioni. Si pensi alle serie tv. Stiamo sicuramente andando in questa direzione, ma non saprei dire se sarà meglio o peggio. Certo, uscire di casa e andare al cinema conserverà sempre un valore romantico, ma il passare del tempo a volte s’impone più come un processo automatico che come scelta.

 

Qual è la sua sala preferita?

Era il Filmstudio di Trastevere. Piccolo, accogliente, dove gustai dai noir classici alle prime visioni. Dopo l’università frequentavo il Quattro Fontane, che aveva una selezione impeccabile.

 

Come incontrò il cinema di Hong Kong?

Grazie a Marco Müller durante la sua direzione a Venezia. Via via che scoprivo Johnnie To, John Woo, Tsui Hark mi affascinava la loro libertà nel fare cinema e come arrivavano al grande pubblico. Certe storie riproposte in Italia sarebbero giudicate sopra le righe, ma il cinema di per sé non è realtà. Il neorealismo nacque perché non c’erano soldi e produsse anche capolavori, però un regista deve reinterpretare la vita.

 

Come scelse questo lavoro?

Studiavo musica al Dams di Bologna, ma tutta la teoria mi annoiava. Così mi avvicinai al cinema però pensando di scriverne, non di farlo. Poi girai qualche cortometraggio con gli amici e mi resi conto che mi piaceva più stare dietro la macchina da presa che giudicare gli altri. Che poi uno a vent’anni, se s’atteggia a critico, è capace di parlar male pure di Fellini. Mi convinse nella scelta il film ‘Fratelli’ di Abel Ferrara che mi folgorò, tuttora il mio preferito in assoluto assieme a ‘The Killer’ di John Woo.

 

Come prese Nino D’Angelo questa scelta?

Mio padre è sempre stato protettivo ma mai autoritario, per cui non mi frenò ma mi metteva in guardia rispetto alle delusioni che avrei potuto soffrire. Col tempo, quando le cose sono andate bene, le sue paure si sono alleggerite. Oggi, pensando al mio lungometraggio d’esordio ‘Una notte’, mi vanto del coraggio che ebbi nel dargli un ruolo da protagonista.

 

Con ‘Falchi’ lei espresse un tributo al melodramma d’azione hongkonghese coi suoi ingredienti classici, che trasgrediscono alla narrazione del noir italiano. Perché girarlo a Napoli?

Dovunque io giri, lavoro. Se giro a Napoli, mi emoziono. Non è solo un richiamo delle origini, ma lo stimolo alla mia curiosità, perché offre materiale di scoperta più di qualsiasi altra città.

 

Cosa le piacerebbe girarvi ancora?

La trilogia di Jean-Claude Izzo trasponendola da Marsiglia. Quando la leggevo mi venivano in mente i film con Merola.

 

Qual è la fase che ama di più del suo lavoro?

Il montaggio è la parte più creativa: ti confronti con tutti i dubbi che hai giorno per giorno e sei costretto a metterti in discussione, anche buttando scene bellissime ma che magari non servono più.

 

Cosa augurare al cinema?

Che faccia incassi e s’esprima senza dogmi o autocensure. Zalone è la risposta migliore di questi anni. Un regista può dire di tutto, ma in modo divertente. Non deve essere professore di vita di chi guarda. Di professori ce ne sono già troppi, basta andare su Facebook e tutti sanno tutto. Viviamo in un mondo di professori. Non mettiamone anche a cinema.

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