Franco Fortini e il pane del poeta
E' passato dall’ermetismo alla rivoluzione attraverso la pubblicità. Un’arte considerata minore che oggi viene rivalutata
Grandissima preoccupazione dei genitori (borghesi e non) è che i figli vogliano diventare poeti; così le famiglie son sempre contente, anche quelle apparentemente più fricchettone, quando i diciottenni decidono di fare Medicina, Ingegneria o Legge. E’ sempre stato così, da quando esistono le università. Franco Fortini, nato col cognome Lattes nel 1917, nonostante le ambizioni liriche, ubbidisce in gioventù a quest’obbligo secolare tipico degli aspiranti letterati benestanti, tradizione flaubertiana e balzacchiana, iscrivendosi a Giurisprudenza e assecondando i desideri del padre avvocato.
Però, a differenza di molti, da vero vergine qual è (direbbero i patiti di astrologia), riesce a seguire la propria passione e a studiare parallelamente, e con successo, anche letteratura, prendendo due lauree prima dei ventitré anni. Un colpo al cerchio e una alla botte. Non si impegnerà mai nella professione forense se non per un brevissimo periodo nel 1940, poco dopo l’emanazione delle leggi razziali fasciste, sostituendo il padre, Dino Lattes, livornese ebreo, nel suo studio legale, mentre è nel carcere delle Murate, a Firenze, e poi in un campo di internamento nelle Marche. Col ritorno del padre, addio avvocatura, i codici vanno in cantina e si torna al vero amore, collaborando con alcune riviste tra cui Ansedonia di Vicari e Pampaloni, dove si firma per la prima volta con il nom de plume materno Fortini.
Negli anni della guerra, della Svizzera e dell’esperienza partigiana in Val d’Ossola, incontrerà alcune figure che avranno una certa influenza, amicizie che potrebbero rappresentare pezzi organici della sua anima: Pietro Ingrao (anima politica), Elio Vittorini (intellettuale-editoriale), Ignazio Silone (letteraria-impegnata), Diego Valeri (francesistica-poetica), Alberto Fuhrmann (spirituale) – Fortini, nato laico di padre ebreo e madre cattolica, si era fatto battezzare valdese. Proprio a casa di Fuhrmann, pastore evangelico, incontra Adriano Olivetti, fautore di un pezzo d’anima, quello aziendale-impiegatizio, che spesso nel percorso fortiniano viene dimenticato. E’ nel ’46 che Fortini esordisce come poeta con “Foglio di via e altri versi”, recensito subito sull’Unità da Italo Calvino, ma siccome con la poesia non si mangia granché e “con le velleità non ci si vive”, come cantano i Cani in Storia di un impiegato, l’anno successivo, appena compiuti i trent’anni, si trova “un lavoro vero, uno di quelli proprio senza glamour”: un contratto con la Olivetti che lo fa trasferire a Ivrea. Fortini diventa così un pubblicitario, copywriter aziendale, un Mad Man in quella para-New Lanark iper-mitologizzata e sognante che fu la Società Olivetti, avanguardia per addizionatrici e calcolatrici scriventi, italica pre-Apple socialdemocratica in odor di Bauhaus. Ivrea nostra Cupertino. Trasferito l’anno dopo a Milano nell’ufficio Direzione Pubblicità in via Baracchini, ci resterà fino al 1963 per poi tornarci come collaboratore esterno dal ’65 al ’74, per un totale di venticinque anni. Non proprio un lavoretto estivo, insomma. “Poeti fra le macchine”, come dirà Giovanni Giudici, altro rimatore prestato all’azienda di macchine scriventi che voleva creare un modello di mercato alternativo a quello egemonico consumer oriented statunitense e una comunicazione di stile industriale antitetica a quella del marketing strategico populista americano (sono anni in cui a Milano iniziano ad aprire agenzie come la J. Walter Thompson, fondata nel 1864 da un veterano della Guerra di secessione).
A Fortini si devono i nomi di alcuni dei prodotti più lodati e musealizzati della Olivetti, come la macchina da scrivere Lexikon 80, progettata da Nizzoli e Beccio nel 1948, termine pronunciabile in tutte le lingue dove alla C viene sostituita la K per evitare il “con” che oltralpe avrebbe causato ilarità o indignazione – in francese “con” è un termine volgare per vagina, usato per insultare: “sei un coglione!”, t’es un con! Il lavoro di buon copywriter include anche il dovere di anticipare qualsiasi eventuale ambiguità, anche all’estero. Per la Lexikon 80 Fortini comporrà lo slogan “Scriverà le parole del vostro avvenire”. Sobrio, evocativo e quasi politico, se pensiamo al sol dell’avvenir e alla sua personale traduzione dell’Internazionale socialista: “Qui l’avvenire è già presente / chi ha compagni non morirà”. In America le macchine da scrivere, come la Underwood, sono targhetizzate alle segretarie con lo smalto, “non ti fa rovinare le unghie!” dicono i dépliant.
Fortini-Don Draper battezza prodotti litigando col commerciale ma ottenendo l’appoggio di Adriano: la macchina calcolatrice elettrica Tetractys, “gloriosa parola della cultura greca”, o la macchina da scrivere Lettera 22, oggetto egemonico del nostro immaginario che oggi troviamo nei mercatini dell’usato, nelle camerette degli hipster, nelle caffetterie con decoro vintage, a casa di Tom Hanks, in vetrina a piazza San Marco, al Moma, in Triennale o riprodotta nella statua di Montanelli. Lo slogan è “leggera come una sillaba / completa come una frase”.
Fortini sembra contento di lavorare lì, anche perché è a contatto con grafici e artisti che prediligono stili concettuali e modernisti, ricchi di riferimenti culturali alti, e questo in qualche modo soddisfa i suoi giovanili interessi verso la pittura. E poi “ci sono dei ricordi per me indimenticabili. Io ho visto letteralmente nascere, nell’ufficio di Pintori, il famoso cane a sei zampe dell’Agip”, ricorda in un’intervista. Le stanze dell’Olivetti a due passi dal Duomo sembran lontane anni luce dagli uffici de Il posto di Olmi, sono un hub dove gli intellettuali fanno gli impiegati e la linea delle macchine da scrivere è ispirata alle sculture di Henry Moore e Brancusi. Si fanno anche libri e riviste e Fortini collabora con le Edizioni di Comunità, scrivendo articoli e traducendo Kierkegaard (con la moglie) e Simone Weil (prima che fosse à la page). Ma è con i claim per cartelloni, brochure e video che acquisisce e si accorge direttamente della potenza epigrammatica della parola che si riverserà nella sua poesia: “E’ stata un’esperienza metrica, una sorta di ginnastica, di continuo passaggio da un tipo di composizione a un’altra, da uno spazio a un altro” dice. Certi testi pubblicitari “hanno un ritmo interno, un senso delle clausole, degli a-capo e degli accenti che si rifanno ad una antichissima tradizione – quella delle epigrafi – e, al tempo stesso, alla moderna lirica breve”. E il suo collega poeta-copy Giudici, che lavorò alla campagna della Valentine di Sottsass, “una Lettera 32 travestita da sessantottina”, scrive che Fortini in quelle stanze “ha potuto imparare che tutto è design”, che anche un testo poetico è design, “un design per cui ogni componente (significati delle parole, suono, ritmo, possibili allusività) deve convergere nella determinazione di un oggetto che, al pari di una persona, altro non sia e non possa essere che se stesso”.
E per quanto non condivida completamente le visioni politiche del boss Adriano, Fortini è un dipendente modello, tanto da vincere nel 1960 il “Premio L’Ufficio Moderno per la migliore lettera di vendita”. Sembra una gag fantozziana, ma è perché non capiamo lo spirito olivettiano. Scriverà, come resoconto, un breve testo intitolato Del copywriting come genere letterario dove dice: “Testo pubblicitario e lettera di vendita possono essere una straordinaria ginnastica letteraria: possono con i loro limiti rigorosi (‘le prigioni hanno le ali’ diceva Valéry), offrire quella ‘resistenza del mezzo’, che la letteratura contemporanea ha quasi del tutto perduto”.
Per via dell’intrinseca omogeneità ritrova nel testo pubblicitario anche un valore educativo. Eppure per alcuni tutto questo – il lavorare, l’aziendalismo, usare la scrittura per vendere – stona con la figura integerrima di chi dedica la vita alle lettere. Nel nuovo e ricco numero de L’Ospite Ingrato intitolato Umanesimo e tecnologia, (rivista pubblicata da Quodlibet, in collaborazione col Centro Studi F. Fortini e l’università di Siena), dove viene dato ampio spazio al rapporto tra Fortini e l’azienda di Ivrea, scrive il curatore Daniele Balicco: “Può sembrare strano, soprattutto oggi, associare il nome di un intellettuale marxista radicale, di un poeta come Fortini a un concorso di questo tipo”. E infatti il trascorso in pubblicità di Fortini viene spesso dimenticato dalle biografie in quarta di copertina, viene rimossa dai suoi self-proclaimed epigoni che lo vogliono ricordare solo come grande poeta, ricurvo sulla scrivania senese, o come eterno compagno, in piazza alle manifestazioni contro il governo Tambroni.
Per molti sembra quasi un affair sporco vendersi alle aziende, viene vissuto come un gesto vergognoso l’utilizzare il talento della scrittura per la vile pratica dell’advertisement, soprattutto quando si vortica nel mondo intellettuale della gauche, tra pranzi con Roland Barthes e chiacchierate con Jean-Paul Sartre. Sembra volgare ingegnarsi per uno spot, spremersi le meningi per un payoff, quando per tutta la vita si passa da un diverso avamposto all’altro dell’establishment culturale cartaceo di sinistra: il Politecnico, l’Avanti, l’Einaudi pre-mondadoriana, i Nuovi Argomenti moraviani, i Quaderni Piacentini, fino all’Espresso e al Manifesto (per il quotidiano Fortini scrisse uno slogan per la campagna abbonamenti che venne rifiutato: “Metti sabbia sotto i denti del padrone / abbonati al Manifesto”). Perché è nobile aver fatto l’operaio come Charles Dickens o il cercatore d’oro come Jack London, ma non lo è usar la penna, oltre che per la gloria perpetua, per lo stipendio? Don De Lillo, Francis Scott Fitzgerald, Joseph Heller, Salman Rushdie, sono solo alcuni dei romanzieri impiegati per un periodo in agenzie pubblicitarie, ma ci sono anche i più “puri” poeti. Bertolt Brecht, tanto amato (e tradotto) da Fortini – si incontreranno a Milano all’hotel Manin in occasione dell’Opera da tre soldi al Piccolo, regia di Strehler – scrisse poesie-slogan in cambio di un’automobile. Brecht, che vincerà il premio Stalin per la pace, era un patito delle macchine veloci e in particolare dei macchinoni americani col lungo cofano lucido, tanto che, già famoso, propose di scrivere delle poesie-jingle in cambio di un’auto; Ford e Dodge rifiutarono, ma l’azienda austriaca Steyr, che produceva anche armi, accettò. “That you will think / That you are driving the shadow of your car” (“E penserai /che stai guidando l’ombra della tua auto”). Guidatore scellerato, si schiantò contro un albero, distruggendo l’auto, e poi convinse la Steyr a farsi dare un nuovo modello in cambio di altre rime.
Fernando Pessoa negli anni Venti fu autore di uno slogan dell’imperialista Coca-Cola (“Primeiro estranha-se, depois entranha-se”, gioco fonetico che si potrebbe tradurre con “Prima ti stupisce e poi ti entra nelle viscere”). In una nota autobiografica pubblicata nel 1940 alla voce professione scrive: “La definizione più propria sarà ‘traduttor’”, la più esatta quella di ‘corrispondente in lingue estere in aziende commerciali’. L’essere poeta e scrittore non costituisce una professione, ma una vocazione”.
Dopo gli scontri di Valle Giulia, quando nel ’68 Pasolini scrive la troppo celebre poesia Il PCI ai giovani, prima di pubblicarla la fa leggere a Fortini che gli consiglia di tenersela per sé. Quando esce sull’Espresso i due litigano; Fortini, arrabbiato per la presa di posizione contro il movimento studentesco, scriverà: “Ero davvero esasperato dal suo atteggiamento; ben più che per il testo a favore dei poliziotti, quel che trovavo insopportabile era di accettare lo sfruttamento pubblicitario, e la inevitabile trasformazione in volgare propaganda, di quel suo scritto”. L’idea di pubblicità qui diventa “insultante”, perché rivolta verso se stessi, usata per lanciare il proprio personaggio (anziché un prodotto), e in particolare perché passiva.
Socialista intelligente, anti-stalinista quando non era ancora scontato, la grandezza di Fortini – acutissimo saggista polemista, “letterato per i politici, ideologo per i letterati” – è visibile soprattutto nei testi in prosa non narrativi, nelle sue analisi di un mondo che cambia. “Il mondo come dice Schlegel, è e rimane la nostra unica spiegazione” – (ha ragione Giampiero Mughini quando scrive che Dieci inverni è forse il suo saggio più bello). Con gli ideali di purezza di chi vuole costruire statue sacre ai poeti, come fossero martiri del capitale, si rischia di tagliare con un’accetta affilata male la linea di confine tra vocazione e professione. Tutto invece si mescola, come i lavori – oltre all’attività giornalistica Fortini insegnerà nei licei, all’università, tradurrà Proust per l’Einaudi (il sesto volume della Recherche: Albertine scomparsa), fino a diventare un’alternativa etero, cerebrale e idealista a Pasolini. Dall’ermetismo alla rivoluzione, passando per il copywriting. “E’ raro, ma non è eccezionale, che alcuni testi [pubblicitari] giungano, non dirò ad un valore d’arte, ma a quello, socialmente altrettanto importante, di una buona letteratura”.