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I foglianti sono come maratoneti

Saverio Raimondo

Pazza cronaca della Festa di Firenze scritta da un pessimista maligno convinto che ci sia molta più allegria e spirito d’iniziativa nel pessimismo. Ma loro niente, ancora insistono con l’ottimismo, manco la pandemia li ha svegliati

Questo pezzo parla di voi: i foglianti. Quelli che leggono e scrivono qui, sul Foglio – profili che spesso coincidono nella stessa persona, e per fortuna: conosco chi scrive su giornali che non legge e, quel che è peggio, manco rilegge quanto ha scritto lui stesso. Questo pezzo parla di voi, dicevo; o forse avrei dovuto dire di noi? Sono anche io un fogliante? Ci scrivo, questo sì; ma cosa vuol dire essere un fogliante, oggi, nel 2021, quasi 2022? Ho provato a capirlo domenica 28 novembre a Firenze, dove nel Salone dei Cinquecento di Palazzo Vecchio si è tenuto il consueto appuntamento con la Festa dell’Ottimismo (qui trovate tutti gli interventi): una sorta di festival annuale del Foglio dove le grandi firme di questa testata sfilano sul palco e dialogano con ministri, leader politici, governatori, presidenti…  Una sorta di tribute band del Gruppo Bilderberg, o come lo ha definito lo psicologo del direttore Claudio Cerasa “un delirio d’onnipotenza”. (Da quando Cerasa va ospite da Fazio si è un po’ montato la testa: guida un’auto sportiva decappottabile che diventa a idromassaggio quando piove, veste Armani e si è iscritto in piscina per imparare a camminare sulle acque). 

Frequento la Festa dell’Ottimismo da quando ancora si chiamava Terrazza Sentimento (ah no scusate, mi sa che sto confondendo…), comunque dalla prima edizione; e l’ho sempre fatto da bastian contrario, che poi è il vero spirito del Foglio (“Di qualunque cosa si tratti io sono contrario”, diceva Groucho Marx o Giuliano Ferrara, ora non ricordo): io pessimista maligno ho sempre cercato di convincere i foglianti che c’è molta più allegria e spirito d’iniziativa nel pessimismo, ma loro niente, ancora che insistono con l’ottimismo, manco la pandemia li ha svegliati. Quest’anno però è stato diverso da quelli precedenti: nessuno ha dato buca.

 

(Tranne Makkox: e subito voci incontrollate lo danno per vittima della variante Omicron o peggio, paziente zero di una nuova variante, la Sigma, la Tau, a che lettera dell’alfabeto greco siamo arrivati? Tocca fermare la diffusione del virus non tanto per impedire che si formi una variante che buchi il vaccino, quanto una che vada oltre l’Omega gettandoci nel panico anagrafico: qui è un attimo che arriviamo alla variante Schwa, e a quel punto si salvi chi può, non tanto dal virus quanto dal dibattito che innescherebbe).

 

Ogni anno quando esce il programma della Festa parte il “toto-buca”: quale nome roboante messo in lista salterà all’ultimo minuto? Quest’anno c’era l’imbarazzo della scelta: ma ti pare che Gentiloni… vedrai che Letta all’ultimo… Lamorgese ha ben altro da fare… E invece no, c’erano tutti, e quasi tutti in presenza; in collegamento solo il ministro Speranza (esattamente al centro di un’inquadratura perfettamente simmetrica, alla Wes Anderson, e in effetti se lo guardate bene Speranza assomiglia un po’ a Jason Schwartzman, uno degli attori feticci del regista americano) e il presidente del Friuli-Venezia Giulia, Massimiliano Fedriga, che ha mandato una video-intervista pre-registrata con lui vestito in grigio perla, stesso colore della poltrona su cui era seduto e della porta alle sue spalle, evidentemente chi gli cura la comunicazione è non vedente.

Io arrivo nel Salone dei Cinquecento dopo le 10; sul palco c’è Marta Cartabia intervistata dal direttore Cerasa. Mi guardo intorno e scelgo di sedermi defilato, in ultima fila, in caso di colpo di sonno. Il posto si rivela doppiamente strategico: da lì posso osservare meglio il pubblico della Festa, i foglianti appunto. Le prime file sembrano l’assemblea di Confindustria, ma mano mano che si retrocede di fila i capelli si fanno meno bianchi, spariscono le cravatte, appaiono le sneackers. Nelle ultime file paiono i lettori di Limes, di Internazionale, del Manifesto. Chi sono queste persone? Davvero leggono quello che scriviamo? Sono piuttosto eterogenei, questi foglianti; l’unica cosa che li accomuna è la mascherina ben calzata sul volto, non sbuca manco un naso. 

Esce Cartabia, entra Mario Monti. La cosa che più mi colpisce, del senatore ex premier, è che per tutto il tempo dà la nuca alla platea; pare Miles Davis a fine carriera, quando suonava dando le spalle al pubblico. L’intervista è tutta un gioco di rimandi e confronti fra il suo governo e quello di Draghi (che anche se non lo dice è chiaro che Monti odia nel profondo, la sua invidia traspare persino dalla nuca); ma quando Michele Masneri gli chiede conto delle sue recenti dichiarazioni sulla comunicazione della pandemia da parte dei mezzi d’informazione, che il senatore a vita si augura essere più controllata e allineata alle versioni ufficiali, Mario Monti se ne esce con una frase memorabile: “Non sono l’unico a pensarlo, in tanti sono d’accordo con me; lo so perché io sento la gente”. Mario Monti che “sente la gente” è una via di mezzo fra Giovanna d’Arco che sente le voci e il bambino del Sesto Senso che vede la gente morta; fortuna che ho la mascherina in faccia, così posso sghignazzare senza ritegno. 

Dopo Monti è il turno di Speranza: l’impressione è di una escalation, grandi nomi uno dietro l’altro, quest’anno Cerasa non ha badato a spese, si vede che punta a Sanremo per il dopo Amadeus. E infatti a Palazzo Vecchio la gente mormora che nel pomeriggio arrivino anche Gianni Morandi, Massimo Ranieri, i Maneskin. Il pubblico è sopraffatto: livello d’attenzione parossistico, nessuno che si alza mai nemmeno per andare in bagno, piuttosto si urinano addosso. 
Io invece, lo ammetto, comincio ad agitarmi sulla sedia, forse sono già stanco, un filo annoiato, voglio andare al bar. Approfitto del cambio palco (esce Speranza, entra Gentiloni) per alzarmi e uscire. Una volta fuori, su piazza della Signoria transennata per l’occasione, a poca distanza da me, avvolto in una nuvola di poliziotti della scorta, vedo il ministro Luigi Di Maio, mio sosia e mia nemesi, dirigersi alla Festa dove il suo intervento è previsto alle 12. La coincidenza è impressionante: io esco e, poco dopo, ecco entrare Di Maio; tutti penseranno sia la prova regina che siamo la stessa persona! Potrei rientrare, far vedere che siamo distinti e separati, declamare il congiuntivo ad alta voce; e invece no, decido di alimentare la leggenda, e m’incammino verso un bar mentre Giggino entra in pompa magna a Palazzo Vecchio, dove più tardi mi racconteranno parlerà benissimo di Draghi e strapperà un applauso fiorentino con una battuta contro Renzi, un Di Maio alla rovescia insomma, a ulteriore conferma che no, non è lui, in realtà sono io che ne ho preso il posto come Chaplin nel “Grande Dittatore”. 

  

Fuori dal Palazzo, per le vie del centro di Firenze, quello stesso giorno nelle stesse ore c’era la maratona. C’era anche la pioggia, e la tramontana: che siano i corridori i veri ottimisti? In effetti i due mondi (i foglianti e i maratoneti) sembrano avere qualcosa in comune: a entrambi non interessa vincere, ma partecipare. E’ un atto di presenza, una sfida a se stessi più che al resto del mondo. Dietro le transenne ci sono anche dei motivatori (“Dai che manca poco!”… “Ce l’avete quasi fatta!”…) che non sfigurerebbero nemmeno dentro il Salone dei Cinquecento a motivare la platea giunta al sesto intervento della giornata  (“Dai che manca poco alla pausa pranzo!”… “Ce l’avete quasi fatta, non addormentatevi proprio ora!”…). Alcuni maratoneti corrono con un palloncino attaccato al collo: non chiedetemi perché lo facciano, ma sembra una di quelle battaglie culturali che il Foglio potrebbe sostenere, una provocazione minoritaria che genera dibattito e crea opinione stimolando punti di vista insoliti. Solo a pensarci mi son quasi convinto di volere anche io un palloncino, e rientrare con quello attaccato al collo a Palazzo Vecchio. Chissà cosa direbbe Fabiana Giacomotti – sicuramente stroncherebbe quei maratoneti che corrono con indosso una coperta termica in alluminio, sembrano corridori surgelati appena tirati fuori dal freezer e ancora avvolti del domopak. 

Quando rientro alla Festa è quasi l’ora di pranzo: sul palco c’è Bonomi che si lamenta, in platea le prime sedie vuote di chi non ce la fa più ed è uscito a caccia di lampredotto – alcuni non terneranno indietro nemmeno nel pomeriggio. Arriva il momento del pranzo anche per noi relatori della Festa: il catering è eccellente e il vino all’altezza. Ed è proprio spinto dal vino rosso che propongo a Cerasa di scrivere questo pezzo (“un reportage perculante della giornata”), che Cerasa accetta di buon grado sempre grazie agli effetti del vino rosso. Salvatore Merlo mi fa una confidenza: è angosciato all’idea di dover intervistare Carlo Calenda nel pomeriggio, non gli va, già sa che finirà male, con Calenda che perde le staffe. Io allora gli suggerisco di darsi malato, di approfittare della pausa pranzo per dire che non sente più gli odori né i sapori, e di iniziare a tossire; lui pare convinto, ci proverà. Tre ore dopo però è sul palco con Calenda; delle due, l’una: o c’ha ripensato e non ha più simulato un attacco di Covid, o al Foglio non sono così responsabili come vogliono far credere. 
Ma prima del match con Calenda c’è tutto il crescendo pomeridiano: a Pietro Castellitto tocca l’ingrato slot delle 15, quello dell’abbiocco postprandiale nonostante il caffè. (Conosco bene quell’orario, a me nelle precedenti Feste è toccato due volte: la seconda volta per rianimare la platea feci il mio intervento direttamente con un defibrillatore). Poi arrivano le ministre, Carfagna e Lamorgese: l’atmosfera si scalda, l’attenzione torna ai massimi livelli mentre glicemia e trigliceridi si stabilizzano.

L’intervista a Calenda è dopo quella con Letta. Merlo non fa in tempo a formulare la prima domanda che Calenda l’ha già interrotto, incazzato nero tipo automobilista – gliel’avevo detto io di darsi malato. Anche qui, delle due l’una: o i foglianti ottimisti sono anche azionisti (nel senso di Azione il partito) oppure Calenda si è portato la claque a Palazzo Vecchio, applaudono a tutto. Calenda si accalora, sbraita, non manda a dire, pare Grillo ai tempi del VaffaDay. Al termine dell’incontro Merlo è esausto e lacero-contuso, la folla lo acclama per aver incassato tutti quei colpi restando in piedi, e scende dal palco gridando “Adriana!”.

 

Ora tocca a me. Non sono solo:  con me ci sono i colleghi Edoardo Ferrario e Valerio Lundini (doveva esserci anche Maurizio Milani, e invece no, non c’è, l’avevo detto io che l’unico modo per assicurarsi la sua presenza sarebbe stato farlo andare a prendere da Bartolini). Modera Annalena Benini, terrorizzata all’idea che sul palco noi tre la si possa tirare in mezzo. Noi allora serissimi.

 

Il pubblico è stanco, siamo a fine giornata, il climax si è raggiunto con Calenda, fuori è diventato buio; quando scendiamo dal palco, lasciamo a Cesare Cremonini i pochi sopravvissuti riversi moribondi, chi sulle sedie chi accasciato al suolo, boccheggianti e disidratati. Sono le sette di sera passate, le agenzie stanno battendo da ore le dichiarazioni di Letta e Di Maio rilasciate qui in questo Salone, ormai è il momento del fuggi-fuggi; io stesso distribuisco saluti e me ne vado che Cremonini sta ancora parlando dell’importanza di saper suonare uno strumento musicale – che però lui non ha portato né c’è sul palco, chi è venuto per sentirlo cantare resterà deluso.

C’è una cosa che non vi ho detto: quel caffè fuori, al bar, mentre dentro parlavano Gentiloni e Di Maio, non l’ho preso da solo. Con me c’erano Valeria Montebello e Giulio Silvano, altri due collaboratori del Foglio. E’ stata Valeria a dirmi che dovrei scrivere un pezzo su di voi (noi?) foglianti. Secondo Giulio chi scrive su questo giornale si divide in tre categorie: i profughi migratori, che dopo tanto pellegrinare di testata in testata, di esperienza in esperienza, hanno trovato casa nel Foglio; i cattolici nel senso di Bimbe di Ratzinger – gente che quando Benedetto XVI si è dimesso per loro è stato come per i romanisti l’addio di Totti, “speravano de morì prima”; e quelli che scrivono troppo bene per scrivere sugli altri giornali. Ecco, io non ho migrato particolarmente prima di accasarmi su queste pagine; il mio cattolicesimo non è a livelli così agonistici; e come avete potute leggere voi stessi se siete arrivati fin qui il mio livello di scrittura non è particolarmente elevato. Forse ha ragione Chiara Galeazzi, altra collaboratrice, quando dice che la gente scrive sul Foglio perché “sono gli unici che pagano” – e, aggiungo io, senza nemmeno bisogno di un sollecito, anzi ti scrivono loro dall’amministrazione puntualmente ogni mese per chiederti fattura che altrettanto puntualmente pagano; roba che Renatino al Parmigiano Reggiano se lo sogna. La sinistra riparta dal Foglio? 

 

Non so chi siano i foglianti, nemmeno m’interessa, forse non interessa nemmeno a voi che forse lo siete. Però so perché lo sono io: perché mi pagano. 

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