Da Il Gattopardo di Luchino Visconti (1963). Claudia Cardinale e Burt Lancaster nella celebre scena del ballo finale

Il Foglio weekend

Il gran teatro delle dinastie

Annamaria Guadagni

Dai Viceré al Gattopardo, da Marianna Ucria ai Florio. Pietrangelo Buttafuoco chiude l’epopea delle nobili famiglie di Sicilia con “una divertentissima tragedia”: un romanzo di passione e di decadenza, di leggerezza e malinconie

Nell’estate del 1951 a Leonforte, intorno a una gastroenterite del barone Rodolfo Polizzi, si inscena una “scostumata favola”  o una commedia nera originata da un “ingente carico” di Teste di turco fumanti.  E non si tratta dei dolci, i morbidi e profumati bignè di Scicli a forma di turbante. Sono micidiali polpette di carne di maiale tritata, lavorata con uova e pecorino, avvolta nel guanciale e  fritta finché le “teste” diventano scure e pronte a essere sparate nella glassa di cipolle o nel sugo. Questo secondo l’amorosa ricetta di mamà, la baronessa madre che prepara Teste di turco per placare l’ingordigia del figlio, il barone che ha fatto indigestione. O almeno così si crede finché l’aggravarsi del mal di pancia non suggerisce una colite tossica: la guerra è ancora vicina, forse un’amebiasi,  forse addirittura la sifilide che Rodolfo potrebbe aver contratto durante il servizio militare in Eritrea. Forse.

 

Sul povero corpo del voluminoso infante, ancora dipendente dalla madre per il cibo e i dolori di stomaco, si accende una disfida tra sfere d’influenza. Da una parte c’è donna Tina, la suocera matriarca della piccola nobiltà terriera, dall’altra la giovane nuora, Ottavia di Bauci, che ha incredibilmente sposato un notabile di paese molto al di sotto del suo rango di principessa colta e cosmopolita. Ottavia è imparentata con le più grandi casate d’Europa, è stata compagna di scuola e di divertimenti di fratelli e cugini di re. Uno squilibrio che farà danzare le due donne sull’orlo dell’abisso che separa la villa dei Russi a Leonforte, che Rodolfo vuole ristrutturare per la sposa, dal jet-set internazionale frequentato dalla giovane moglie.

 

La Sicilia degli anni Cinquanta con le ultime eccentricità dell’aristocrazia isolana sfavilla nel romanzo di Pietrangelo Buttafuoco, Sono cose che passano, da poco pubblicato dalla Nave di Teseo. È un tempo che segna gli ultimi fasti e le epifanie di un mondo in decadenza secolare, che scomparendo lascerà l’isola ridimensionata a una denominazione amministrativa. Dov’erano un regno connesso all’Europa, un’aristocrazia di gattopardi e di viceré e poi una borghesia di leoni, grandi imprenditori del commercio marittimo proiettati Oltreoceano; dove fu l’epopea dei contadini che occupavano feudi e reclamavano terre guidati da grandi capopopolo, resterà una Regione. La diciannovesima regione italiana stretta nelle spire della criminalità organizzata. Così ecco il racconto di mafia che, al cinema e in televisione, diventa epica contemporanea, mentre la cronaca affonda in storie di congiure e di sangue e nella ripetizione seriale di disastri amministrativi.

 

Buttafuoco dice che “la Sicilia ha sempre pagato la sua bellezza. Quel fascino sfacciato che trova concreta sostanza non solo nelle vestigia e nel paesaggio, ma perfino nei tratti somatici degli abitanti, nell’eleganza dei modi riconoscibile nei gesti quotidiani. Per questo poi sprofonda in un’apnea di noia amministrativa e di gentuzza con i suoi piccolissimi vizi. È un contrappasso quasi obbligato, la terra degli dèi ridotta a ricettacolo di rancori e di bassezze. Mentre i fatti di Sicilia interessano nessuno: ha la rete autostradale più sfasciata d’Europa,  ne senti parlare? No. A Istanbul il passato prosegue nella modernità con costruzioni avveniristiche, da noi il ponte sullo stretto è pura fantasmagoria…”.

 

Torniamo all’immaginario. I mondi finiscono ma i miti gli sopravvivono. La grande epopea popolare ha scavalcato il secolo con i film di Tornatore che sono arrivati fino all’Oscar; la vecchia Sicilia con il suo irriducibile spirito e le sue facezie si è rigenerata grazie ad Andrea Camilleri, inventore di una fabula seriale infinita, di una lingua e di una geografia immaginarie. Il boom della saga dei Florio, riscoperta e raccontata da Stefania Auci con I leoni di Sicilia, ha sorpreso tutti richiamando in scena le grandi dinastie familiari. A Buttafuoco, che torna da un viaggio negli anni Cinquanta, capolinea dell’aristocrazia isolana e del gran mondo, chiedo se davvero – come si intuisce leggendo il suo libro – considera gli aristocratici come l’ultima incarnazione degli dèi di Sicilia. “Penso proprio di sì”, risponde, “e da tutti i punti di vista, nella decadenza e nei rigurgiti di orgoglio e di fierezza. In fondo l’aristocrazia si è fatta carico della più grande impostura. Quella categoria del trasformismo che ancora oggi, al tempo di Mario Draghi, sembra essere l’unica via d’uscita. Tutti, da destra a sinistra, saranno costretti a diventare un’altra cosa. Il manuale della politica italiana, nei secoli, è stato il Principe di Machiavelli, ma oggi bisogna squadernare Il Gattopardo e I viceré di De Roberto perché le lezioni da apprendere sono lì”.

 

Gli esotici aristocratici di Sicilia non hanno mai smesso di appassionare il grande pubblico. Il successo letterario e cinematografico del Gattopardo esplose tra il 1959 – anno in cui il capolavoro di Tomasi di Lampedusa ricevette il premio Strega diventando un best seller – e il 1963, con il film di Visconti premiato a Cannes. Il vecchio principe di Salina che balla tra gli specchi dei saloni gentilizi con la bella Angelica, figlia di un ossequioso parvenu, diventa l’emblema del trapasso al nuovo, che allora era il regno d’Italia: cambiare tutto perché tutto resti com’è. Per I viceré, pubblicato per la prima volta nel 1894, il successo di pubblico arriva soltanto dopo il 1977, quando De Roberto viene riscoperto e rilanciato da Leonardo Sciascia come l’autore del “più grande romanzo italiano dopo I promessi sposi”. Nel 1990 Dacia Maraini vince il premio Campiello con La lunga vita di Marianna Ucrìa,  romanzo tradotto in tutto il mondo, che racconta una vicenda settecentesca: quella delicatissima e terribile dello stupro di una bambina, la principessa sordomuta Marianna Alliata Valguarnera d’Ucrìa. Tra i best-seller di Simonetta Agnello Hornby, la fine di quel mondo, è raccontata con gli occhi della servitù ne La zia marchesa, pubblicato nel 2004,  storia della dissoluzione di una famiglia nobiliare che a fine Ottocento si sfalda accerchiata dalla mafia e dai “burgisi”.

 

Cos’era rimasto negli anni Cinquanta, tra gli epigoni ancora ignari del clamore suscitato da questo lungo e malinconico trapasso? Buttafuoco ha esplorato quel tempo da un angolo visuale molto particolare. Sono cose che passano  racconta la storia di una grande famiglia siciliana oscillando tra il dramma e la farsa. Non si può indugiare su un’indigestione di Teste di turco, anche quando è misteriosa e sempre  più grave, senza ridere. Alla fine, perfino la Morte ne regala un piatto al Diavolo che si lecca i baffi, scompaginando con la comicità il sinistro terzetto della famosa incisione di Dürer.

 

Siamo in una commedia o in una “divertentissima tragedia”, secondo l’ossimoro coniato dall’autore. “Ho evitato l’inciampo nei registri di genere, nella parodia e nella caricatura, ma certo riconosco  un debito di sguardo e di metodo con Pietro Germi. Ciò non toglie che le rappresentazioni di alcuni suoi film, come Sedotta e abbandonata o Divorzio all’italiana, non corrispondano al vero. Mi faccio forte di due scandali. Il primo è smontare l’idea che la Sicilia degli anni Cinquanta fosse una periferia, un angolo remoto fuori dal contesto della contemporaneità; vi si praticavano, al contrario, molte libertà.  Il secondo scandalo è smentire che fosse la terra di ‘Concettina componiti’. Quello era un mondo di matriarche e io racconto la battaglia tra il matriarcato terragno di donna Tina e quello sofisticato e pieno di charme della principessa di Bauci: un fascino che diventa fascinum, perché Ottavia porta con sé un dèmone, Famelico, che ogni tanto prende il sopravvento”.

 

Così eccoci tra spiritelli malvagi e licenziosi. La Morte che si annoia in anticamera è scocciata di dover attendere per portarsi via un solo cliente. Ci sono donne un po’ mostruose come la baronessa madre, che si immagina appunto con le labbra esagerate e il naso bitorzoluto delle orchesse di Divorzio all’italiana. Le principesse normanne invece sono biondissime e torbide, tirano di scherma e, nei collegi inglesi, sfregiano i compagni di corso per suggerne sensualmente il sangue. Non mancano le feste dionisiache e i maschi arresi alle madri, che ne governano il corpo per poi lasciarlo alla moglie non senza combattere. Ai poveri cristi rimane il ruolo dell’amante avido, che brama l’ascesa e insidia la moglie del ricco per prendersi la “roba”, spingendola a disfarsi del coniuge. Quando la verità indicibile magari è un’altra: è lei che non lo regge più. Le aristocratiche di Buttafuoco sono faustianamente libere e naturalmente spietate. Da sempre gli dèi sono attratti dai mortali, talvolta li invidiano e si divertono con loro, ma dopo un po’ basta. Insomma una sarabanda immaginifica e farsesca nel teatro dell’isola di mezzo secolo.

 

Mi fermo un attimo sulla danza della matriarca e della seduttrice perché sento ancora ronzare il vespaio suscitato da Leonardo Sciascia nel 1974, quando inveì contro le madri siciliane, le “comandiere” che annientano i maschi e – forse per proteggerli – li rendono vili e opportunisti. Era un’intervista firmata da Franca Leosini e uscì su L’Espresso. Sono andata a rileggerla per vedere l’effetto che fa dopo quasi mezzo secolo. Sembra un reperto di antropologia del mondo mediterraneo, dove la coesistenza dei sessi si regge su una spartizione dei poteri: l’uomo fuori, la donna dentro casa. Ma questo secondo potere è “subdolo”, dice Sciascia che era cresciuto con le zie, perché è dissimulato, non si deve vedere, deve fingersi soggiacente. In un certo senso era un’arte, che Sciascia considerava odiosa. Cosa diversa, ma non meno artistica, è l’irresistibile noncuranza con cui la principessa di Bauci seduce e sfida i maschi. E loro si muovono rigidi, come Orlando contro Rinaldo nel teatro dei Pupi: prendono le misure prima di abbassare la Durlindana. “Nel gioco dei maschi e delle femmine”, scrive Buttafuoco, “si avanza a scatti, come le marionette tenute al filo. E il moto dell’anima, si sa, è sempre l’azzardo”.

 

Non serve chiedersi quanto queste femmine corrispondano al reale o se siamo in un teatro di fantasmi. Divertitevi, non è un trattato di sociologia, è un romanzo. E, proprio come nel teatro dei Pupi,  qui a far parlare i personaggi è sempre il narratore che presta la voce a tutti. Buttafuoco è un teatrante, sa  come illuminare la scena e come fare le voci. “Credo molto nell’ascolto del testo”, mi racconta.“ Mario Castellacci diceva: bisogna stare attenti a quello che arriva in fondo alla sala, quando ti muovi tra le poltrone o stai andando a prendere un bicchiere d’acqua nel foyer. Se il testo ti cattura, anche nella superficialità e nella distrazione, allora funziona. Altrimenti stai perdendo il sonno a costruire pagine che faranno dormire chi legge”.

 

Sono cose che passano è ispirato a fatti di cronaca accaduti in Sicilia negli anni Trenta, Buttafuoco  li ha trasportati negli anni Cinquanta e messi al centro di una scena dove l’invenzione, come si sarà capito, corre sfrenata. Intorno però si muove una folla di comprimari e comparse d’epoca. Ingrid Bergman, volata in Sicilia con Roberto Rossellini, si ferma a salutare la giovane principessa di Bauci; l’onorevole Antonino Buttafuoco, zio dell’autore, qui è il fidanzato di una ragazza che le fa da dama di compagnia. Ci sono il salotto dei fratelli Piccolo, baroni di Calanovella, nella loro villa di Capo d’Orlando, dove andava ospite Yeats. C’è l’eroe della prima guerra mondiale Carlo Delcroix, deputato monarchico e amico di Pietro Nenni; e poi  c’è la principessa Licy Wolff-Stomersee , grande studiosa di psicoanalisi e moglie di Tomasi di Lampedusa. Celebrità che hanno accettato di fare da contorno, insieme al cast di Leonforte: il farmacista con le sue cartine, il medico che assaggia l’urina del paziente immergendo un dito nel pitale, il frate francescano tonante. Insomma un repertorio veridico fa da contrappunto a una scena di rigogliosa invenzione. La fantasia giganteggia con  la realtà che fa da sfondo e le eccellenze si fanno di buon grado piccole come figurine. Buttafuoco si è divertito a rovesciare le proporzioni, a mescolare le carte e a trasformare il vero in falso e viceversa.

 

La commedia ha una sua morale, anzi due. Nel finale doppio spuntano la versione di lui, il barone Rodolfo Polizzi, e quella di lei, Ottavia principessa di Bauci, con cortese missiva all’autore. La “scostumata fabula” contiene un apologo che a me sembra riguardi il rapporto tra Verità e Giustizia, quella umana non sempre corrispondente. L’autore rovescia le carte come gli piace fare e propone un altro dittico: Realtà e Verità. “La prima è cronaca, i fatti, le cose che passano, materiali che finiscono dimenticati in qualche magazzino a prendere polvere. Mentre la seconda è dilavata dal tempo, è il simbolico, quello che resta alla fine di un lungo processo alchemico”. E Leonforte dove lo mettiamo? “È un teatro naturale, il mio Bengodi, il luogo della conversazione spiritosa e dei motteggi salaci. Sono cresciuto tra Leonforte e Agira, il paese di Ercole. Uno – e non dico quale - per me rappresenta il volto, l’altro è la maschera”.

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