Foto LaPresse - Claudio Furlan

Viva la confusione estetica. La “Prima della Scala” ai tempi del super green pass

Giacomo Papi

Come le streghe, anche noi del Foglio abbiamo qualche vaticinio da fare per la prossima kermesse

Il 7 dicembre a Milano è un’interruzione. È la sera in cui, ogni anno, quel che resta e quel che avanza della buona e cattiva borghesia può finalmente concedersi il lusso di lasciarsi andare ed esibirsi alla “Prima della Scala” in compagnia di una ragguardevole massa di intrusi e forestieri. È la sera in cui Milano può abbandonare il suo proverbiale understatement (traduzione in milanese: schisch, giò bass) per sfoggiare finalmente il suo amore per il lusso, il chiassoso e il kitsch che, negli altri 364 giorni dell’anno, rinchiude nell’armadio. La sera di Sant’Ambrogio è l’unico momento in cui i milanesi ricchi, aspiranti o sedicenti tali possono finalmente mostrarsi baüscia (traduzione dal milanese: non c’è) e ostentare la crassa ricchezza di cui la città, almeno nelle sue fasce più abbienti, dentro la prima cerchia dei Navigli, si dice sia intrisa.

Prima della Scala 2021, una ripartenza targata super green pass

Il 7 dicembre è una licenza mondana. È un green pass per pavoneggiarsi. (E per questo qui se ne scrive arbasineggiando e carlemiliegaddeggiando). Il 7 dicembre di quest’anno, però, sarà l’interruzione di un’interruzione, dunque qualcosa che potrebbe assomigliare a una ripresa. Dopo venti mesi di contagi, lutti e quarantene, Milano si prepara a ripartire nei giorni in cui mezza Europa si richiude di nuovo perché il Covid ha ripreso a pulsare, e il governo Draghi (traduzione in milanese: dragh, bissòn spüafoegh. El ghe sarà? El ghe sarà minga? E la sciora Serenella me la se sarà intappàda?) ha varato il super green pass. Sono tutte ragioni per cui vige incertezza. La ciurma dei No Vax si assieperà in piazza della Scala carica di rabbia e bacilli? E alla Prima prevarrà la cafonaggine o la sciatteria, il pudore o la sguaiatezza, lo stile dimesso imposto dal Covid o l’esibizionismo scaturito dal bisogno di ribellione? Perché tra gli effetti della pandemia – accanto ai morti, alla crisi, ai ritmi scombussolati di sonno e veglia, alla paura e alla malinconia – quello meno indagato riguarda proprio il vestire, il modo di apparire in pubblico. La reclusione tra le mura di casa – che negli ultimi mesi da forzata si è fatta elettiva – ha indotto abitudini e attitudini opposte. Da un lato c’è chi, dopo mesi in mutande (traduzione: müdand), non ha più alcuna intenzione di rimettersi in sesto perché si è reso conto, come i lord di campagna di Downtown Abbey, che gli abiti usati e lisi sono molto più comodi, e così ha preso a vagare per le strade avvolto (o avvolta) in calzoni consunti e maglioni tarmati oppure sovente – orrore! – in tuta. Nel mio quartiere si aggira, per esempio, un avvocato un tempo irreprensibile che, d’improvviso, sembra aver smarrito ogni misura al punto da recarsi in ufficio in infradito perfino a novembre.

 

Sul lato opposto ci sono coloro che, dopo il lockdown, non riescono più a uscire di casa se non si agghindano come l’indimenticata Anna Piaggi. Conosco un altro, questa volta ingegnere, noto per la sua sobrietà fino al febbraio 2020, che da quando ha ottenuto il Green Pass rinforzato va all’Esselunga vestito come Renato Zero al Piper e a fare jogging in calzamaglia di lycra fluo. Il proverbiale ciuffo che fuoriesce sbarazzino dalla cuffia della Monaca di Monza nei “Promessi sposi” sembra essersi tramutato in un cornino di lumaca, pronto a ritrarsi terrorizzato soltanto a guardarlo o, in alternativa, a essere sguainato come una spada fiammeggiante senza alcuna ragione. È che Milano ha da sempre una doppia natura. Retrattile. Da una parte nasconde, dissimula e reprime la sua voglia di vivere e bellezza, ma dall’altro la urla, la erutta, ci si rotola insieme nel fango. Ma nel corso della sua storia, almeno fino al Covid, ha saputo gestire quest’alternanza tra Jeckyll e Hyde in turni decennali: per dieci anni si sta tutti in casa schisci e per dieci si esce per le strade, gasati e ganassa; per dieci anni si lavora al chiuso e per dieci si consuma all’aperto.

La doppia natura di Milano, visibile anche alla Scala

Lo schema ha funzionato, come i turni in fabbrica o il Giovedì grasso, fin a quando, alla fine di un decennio euforico, è arrivato il virus a chiudere tutto e a fare rintanare tutti in casa prima del tempo. E così i bioritmi cittadini sono saltati. Il 7 dicembre alla Scala questa confusione sarà visibile, a fissare i dettagli: sotto agli smoking inappuntabili, alle pochette di strass, ai trionfi di chiffon e ai diademi criso-elefantini pulseranno gemelli mancanti, ciuffi di peli malrasati, smalti sbeccati, suole lise. Ci si sorriderà, certo, ma ci si guarderà con sospetto, chiedendosi tutti se nel foyer o nel loggione si aggiri già il famigerato ceppo sudafricano con le sue trentadue mutazioni. In quell’approssimazione, però, in quell’incertezza impaurita, Milano forse sarà elegante davvero, perché userà il nuovo senza esserne schiava e senza spogliarsi del vecchio. Sarà ancora abbastanza giovane da avere la forza di divertirsi, ma abbastanza vecchia per non scambiare quel desiderio di vita in una legge morale. E quando sul palco le streghe di Giuseppe Verdi e Francesco Maria Piave cominceranno a cantare – “Vien Macbetto. Eccolo qua! Le sorelle vagabonde van per l’aria, van sull’onde, Sanno un circolo intrecciar Che comprende e terra e mar” – forse Milano potrà finalmente confessare a se stessa di avere avuto paura (traduzione in milanese: paüra, cagòtt, stremizzi).

Di più su questi argomenti: