Il talento di Lina Wertmüller, che ha travolto il noioso cinema politico d'autore
La regista era capace di sgomitare e vincere da dietro la macchina da presa in un mondo maschile, senza bisogno delle quote rosa. Appartiene alla schiera di chi ha saputo farci divertire con intelligenza
Con un nome e un cognome persino più lunghi dei proverbiali titoli fluviali dei suoi film, che scherzavano coi sommari dei rotocalchi e dei romanzi d’appendice, non era tipo da farsi mettere i piedi in testa da nessuno – colleghi maschi, attrici femmine e tantomeno critici – anche utilizzando per tutta la vita solo la versione breve: Lina Wertmüller. Con la quale s’è del resto guadagnata, senza dover rivendicare quote rosa, un posto nella storia del cinema: prima donna a essere candidata all’Oscar per la miglior regia, Pasqualino Settebellezze, nel 1977 (ma c’erano anche le nomination come film straniero e per la migliore sceneggiatura originale). E se per la statuetta alla carriera ha dovuto attendere i 91 anni, nella sua casa romana, nel 2020, poco male. L’allegria era la stessa, e anche l’allergia alle altrui ipocrisie.
Ora che si riscopre che fu la regista del Giornalino di Gian Burrasca (e qualche domanda à rebours su chi abbia cavato il meglio da Rita Pavone ci vorrebbe) e poi collaboratrice di Garinei & Giovannini, si finge con un “ah, già…” di aver sempre saputo da dove venisse quel suo mestiere solidissimo, quel senso dello spettacolo (leggero: non è un’offesa) che riusciva a far capire anche le cose serie, ma senza mai piegarsi ai birignao d’autore. Come sapesse far cadere la politica nel romanzo d’appendice e di costume – Mimì metallurgico, Film d’amore e d’anarchia –, o la battaglia dei sessi nella satira di costume. Scorsese adorava i suoi film, Altman s’inginocchiò per un baciamano. Henry Miller ammetteva che Hollywood non avrebbe mai avuto il coraggio, nel 1974, di girare Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto.
In Italia il contrario. Il suo cinema volutamente popolareggiante, con un occhio e un orecchio al melodramma, infastidiva i puristi. Nanni Moretti nel suo film d’esordio, quello prima di prendersela con Alberto Sordi, letteralmente sbavava bile alla notizia che a Lina Wertmüller fosse stata assegnata una cattedra di Cinema a Berkley. Non ne fece una malattia, ma non cambiò giudizio neppure anni dopo: “Un cafone”. Troppo disinvolto il suo cinema, lontano dalle ubbie cinéphile. Se in America perdonavano il suo essere di sinistra, in Italia non le perdonarono di non essere una devota della chiesa-partito. Tra le molte “ultime interviste” riprese ieri, ce n’è una meno frequentata, di Barbara Palombelli: “Sono sempre stata di sinistra, non ho mai avuto tessere e questo fa irritare. Mi hanno dato della craxiana, come fosse un insulto. Era un uomo intelligente, coraggioso, è stato l’unico ad alzarsi in Parlamento e a confessare la verità sui finanziamenti ai partiti”.
Sempre di sinistra, sempre un po’ di lato, a bucare la quarta parete: “In Italia si fa tutto sempre contro, siamo extraparlamentari di centro”. Aveva l’età in cui ormai si può dire tutto, ma mentre una certa sinistra stava ancora a trovare divertente il “di’ qualche cosa di sinistra” di Moretti, lei diceva: “La verità è che a unire la sinistra non sono mai state le grandi solidarietà interne, in fondo chi ci ha unito è sempre stato il nemico… Prima il diavolo era la Dc, nella persona di Giulio Andreotti, poi il povero Craxi, adesso il Male che unisce è incarnato nella persona di Silvio Berlusconi. Mi chiedo: se non ci fosse lui, se un giorno tornasse al cinema e alla tv, come faremmo a tenere insieme la sinistra? Dovremmo trovare in fretta un altro avversario o scioglierci!”. Quel Savonarola scontento di Goffredo Fofi le diede di “artista dell’era di Craxi che mai pagherà per nessuna delle sue malefatte artistiche e morali”. Lei lo querelò. Vale un altro Oscar.
Prima donna a sgomitare e vincere da dietro la macchina da presa in un mondo maschile, rifiutando di fare un cinema femminile, femminista anarchica senza doverlo dire, non fu mai amata troppo nemmeno dal mondo delle donne, da certo femminismo. Accusata di essere misogina, persino “machista”. Ci fu chi non apprezzò i suoi giudizi sprezzanti ai tempi del MeToo: “Le molestie ci sono sempre state. Oggi vengono amplificate dai media e forse ultimamente si è esagerato con la caccia alle streghe… Ci vuole il carattere. Sapevo il fatto mio. Ero capace di impormi. E, quando serviva, menavo”. Tanto da chiedersi come avesse potuto arrivare all’Oscar proprio l’anno di Weinstein, del grande rogo purificatore. “Per anni le femministe mi hanno vista come un sergente di ferro, ero troppo un macho per loro”.
Una gran fatica dei critici, soprattutto in Italia, riuscire ad ammettere che nei suoi film (mica tutti, ovvio, nessuno è perfetto) c’era un mondo diverso, sgargiante, di talento, che era la sua forza di fare spettacolo mettendoci anche le idee e le contraddizioni del momento. Sugli stereotipi del maschio italiano (la sua “musa” Giannini), gli schematismi della politica della società, gli ammiccamenti al cinema di genere. Quel suo senso di allegria, di libertà inventiva e di giudizio, dentro e fuori dal set, non garbava a tutti quei clercs che passano la vita con l’aria di essere stati traditi. Lei ci rideva sopra, ci girava un altro film. E ora appartiene di diritto alla benedetta schiera di chi ha saputo farci divertire, con intelligenza.