Verdetto d'autore
Il Putto reggifestone è di Raffaello oppure no? L'ultima scoperta chiude il dibattito
Ricerche, restauro, analisi di fluorescenza dei raggi X. Così si è arrivati a una risposta definitiva sulla questione dell'attribuzione dell'opera, che da secoli divideva gli storici dell'arte
L’arte che genera l’arte, che fa scoprire e riscoprire, spesso qualcosa di nuovo che in realtà è antico e prezioso, spazzando via dalla nostra anima la polvere della quotidianità. È il caso del Putto reggifestone conservato all’Accademia nazionale di San Luca, per troppo tempo al centro di dibattiti tra studiosi ed esperti in materia sulla sua veridicità per via dell’analogia del frammento di affresco con uno dei due putti che affiancano il profeta Isaia, realizzato da Raffaello nella chiesa romana di Sant’Agostino. Fu realizzato da Raffaello Sanzio (1483-1520) oppure no? È la domanda che in tanti si sono posti e alla quale si è giunti, finalmente, ad avere una risposta definitiva e positiva nei giorni scorsi. Tutto nasce in occasione della mostra “Raffaello. L’Accademia di San Luca e il mito dell’urbinate” dello scorso anno (il 500esimo dalla sua morte), curata da Valeria Rotili, Stefania Ventra e Francesco Moschini. In quell’occasione è stato chiesto a Chiara Pierucci, vice presidente dell’associazione Mecenati della Galleria Borghese-Roman Heritage Onlus, di fare qualcosa per confermare l’esatta attestazione di quel frammento di affresco che arrivò all’Accademia nel 1834, con il lascito testamentario del pittore e collezionista Jean-Baptiste Wicar. Da grande esperta d’arte quale è, Pierucci ha sposato subito il progetto portandolo al comitato dei Mecenati di cui fa parte – assieme a Maite Bulgari che ne è la presidente, al consigliere Ugo Pierucci, a Riccardo Lattuada e Andrea Mauro Boccanelli –, che ha subito deciso di impegnarsi in tal senso (“il fine dell’associazione – ci spiega Bulgari – è quello di sostenere iniziative che vogliono tutelare e valorizzare il patrimonio artistico di Roma, piena di tesori ancora da scoprire”).
È stato così avviato un progetto di studio, restauro e valorizzazione dedicato al Putto, coinvolgendo specialisti di diverse discipline al quale ha preso parte anche un gruppo di ricerca del dipartimento di Storia, Disegno e Restauro dell’architettura di Sapienza Università di Roma, operando un nuovo restauro. Insieme a Rotili e a Ventra, hanno lavorato Silvia Ginzburg, professoressa di Storia dell’arte moderna a Roma Tre, Carlo Falcucci, ingegnere esperto di diagnostica artistica e Paolo Violini, il restauratore per eccellenza di Raffaello, colui che è stato responsabile dal 1995 al 2012 del cantiere delle Stanze del Sanzio in Vaticano, senza dimenticare l’eccellente intervento sulla Madonna di Foligno.
Anche nel caso del Putto, quindi, è emersa la necessità di procedere “a un intervento di restauro che eliminasse dalla superficie le sostanze estranee – ha precisato Violini –, conferendo la corretta leggibilità alla pellicola pittorica originale”. Il gruppo così costituito ha scelto di ripartire da una vicenda critica cruciale per il dipinto in esame, ovvero i due articoli comparsi contestualmente sul Bollettino d’arte del 1960, scritti da due persone che la pensavano in maniera opposta. Da un lato, c’era Luigi Salerno, allora ispettore della Soprintendenza ai monumenti di Roma e del Lazio; dall’altro Pico Cellini, che aveva appena concluso il delicato restauro dell’affresco conservato in Sant’Agostino. Per il primo si trattava di un falso realizzato dallo stesso Wicar; per il secondo si trattava, invece, di una figura certamente attribuibile alla mano del Sanzio. Cellini, confortato da analisi tecniche, sosteneva la probabile derivazione dei due infanti dal medesimo cartone e intuiva l’elevata qualità pittorica del frammento, ma soprattutto riconduceva la sua provenienza alla testimonianza di Vasari che menzionava una prima versione dell’Isaia realizzata e distrutta poco dopo dallo stesso Raffaello.
Il progetto odierno è ripartito proprio da questa querelle, smontando punto per punto ciascuna delle due tesi e sottoponendole a verifica. Le ricerche della Ginzburg e le analisi di fluorescenza dei raggi X per la caratterizzazione dei pigmenti di Falcucci hanno consentito di ricostruire, attraverso riproduzioni grafiche, pittoriche e fotografiche, l’aspetto che l’opera ha via via assunto nel corso dei secoli, gli interventi cui è stata sottoposta e la considerazione critica nelle fonti otto-novecentesche in rapporto alla questione dell’attribuzione, in molti momenti messa in dubbio proprio per via delle condizioni conservative della stessa opera. “Siamo molto orgogliosi di questo esito eccezionale – conclude Bulgari –. All’inizio non potevo certo immaginare che il risultato sarebbe stato quello della probabile attribuzione a Raffaello”. Il Putto è, quindi, suo e oggi – finalmente – ha una nuova vita.