Chiara Gamberale, "Il grembo paterno", Feltrinelli editore (dettaglio di copertina)

Il ritorno di Chiara Gamberale è un romanzo fosco, ma liberatorio

Marina Valensise

Una relazione violenta col padre, fino alla condanna. È “Il grembo paterno”, l’ultimo libro della scrittrice più fedele di oggi ai temi della propria ossessione

Leggete il modo in cui racconta la cena in famiglia. Chiara Gamberale sa captare i silenzi e i non detti che avvolgono come fili elettrici i suoi personaggi, per restituirne il cortocircuito che serve a far esplodere le tensioni e i conflitti della vita, dando forma parossistica al romanzo. Nel suo ultimo libro c’è un padre potente, che quando è a tavola tiene il broncio e non sorride mai. È il figlio di un morto di fame, diventato ricchissimo, ex macellaio e proprietario di un supermercato. Vive in un paese senza nome, odiato da tutti, assediato da un’amante languorosa, che lo reclama persino a Natale, e per questo è scorbutico e scontento sia coi gemelli che sanno come svicolare, sia con Adele, la primogenita che avrebbe voluto fosse un maschio, e invece ha con lui un rapporto di simbiosi seduttiva, pur vivendo in balia del fantasma della magrezza e della grassezza, tant’è che di giorno digiuna e di notte s’ingolla scarti di cibo per poi vomitare tutto, con la stessa disperazione con cui colleziona scopate a caso.

 

La madre vive in camicia da notte e non fa altro che cucinare polpette, lasagne, panzerotti, zucchine ripiene. Dopo un continuo andirivieni ai fornelli, perché manca l’olio, il sale, il formaggio, finalmente anche “Terè assettate per cortesia” si siede a tavola. E tremando di paura prende dalla pentola fumante i rigatoni per farli tracimare sul piatto dei figli, in un lago di pomodoro. Plaff, plaff. Alla fine, svuotato il piatto, sempre tremando in silenzio, e forse rimuginando quanto ormai di lei se ne frega il suo Rocchino, che il padre farmacista non voleva neanche vedere per casa, “allunga la forchetta per infilzare un ultimo rigatone dalla pentola, e infilarselo in bocca, con un che di furtivo, come se volesse smettere di mangiare, smettere di esistere”, non dare fastidio al marito, padre padrone, signore della sua vita, che invece proprio per questo ha uno scatto di nervi e finisce per umiliarla come se fosse una bambina di due anni. Adele registra, registra tutto e invece di mangiare, straparla. Parla del  suo professore di latino, che ha raccontato di  Lucrezio, felice un giorno e  tristissimo il giorno dopo, non si sa perché. Racconta di Caterina, la sua compagna di scuola, che ha detto che quel poeta le ricordava qualcuno. E infilza il padre: “E cioè proprio atté papà, perché suo padre dice che da quando siamo diventati ricchi tu sei ancora più scorbutico di prima”.

 

A Chiara Gamberale basta un dettaglio, per dare la scossa elettrica alla cena in famiglia e all’intero racconto, facendo esplodere il padre che si sente offeso, fra urla e  pianti, piatti che volano, scatena la tempesta sui non detti di una famiglia che vive  solo nel regno del fare, del guadagnare, del preparare da mangiare senza riuscire neanche a mangiare. “Che me ne fotte a me di cosa pensa quel fallito”,  sbotta il padre alzandosi di scatto, mentre la sedia gli sviene dietro e la tovaglia davanti viene tirata da sotto i  piatti, le posate e i bicchieri che precipitano a terra. “Ma guarda un po’ se adesso Rino Pietrafesa deve insegnà a me come campare”.

 
Fra le scrittrici della sua generazione, Chiara Gamberale è forse quella più tenacemente fedele ai temi della sua ossessione: la difficoltà di esistere, l’impossibilità di amare, l’incapacità di crescere e attingere alla vita piena, alla vita vera, abbandonando lo stadio amniotico prenatale e dell’infanzia, per affrontare la temperie delle passioni. Nell’ultimo libro, (“Il grembo paterno”, Feltrinelli editore) declina quest’ossessione su un’altra tonalità. E infatti, tornata a pubblicare dopo anni, scrive non solo da figlia viziata di genitori improbabili, ma da madre responsabile di una bambina senza padre, anzi senza la cornice di una coppia regolare alle spalle. Il risultato è un racconto inclemente e quanto mai autobiografico di un percorso di formazione, tortuoso e pieno di insidie, ma fondamentalmente liberatorio. Lei stessa confessa di aver confuso le tracce del suo romanzo famigliare, lasciando senza nome il piccolo paesino d’origine, Agnone, cambiando i nomi dei compaesani, per non offendere i compagni di scuola del padre, e inventandosi la figura di un’influencer bulimica che va a farsi ingravidare a Alicante da un donatore anonimo. Alla fine tesse con convinzione la trama dell’adulterio tra Adele e il pediatra della figlioletta, sino all’esaurimento dettato dalla resa. Crudele e universale, infatti, la verità della finzione non lascia scelta: i padri potenti condannano le figlie all’esilio dal mondo degli uomini.
 

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