La creatura mostruosa del partito Stato e, sottopelle, la Russia stessa
L'Urss come storia di famiglia: il mio giardino in una tazza di tè
L’infanzia cullata dalla calda e falsa gloria della società nuova. Il viaggio, poi, nell’est urbano derelitto di Berlino. Il sovietismo che non si può scindere dall’epopea russa e il mito sopravvissuto. Memorie
Alla fine degli anni Cinquanta, bambino affacciato all’adolescenza, l’Unione Sovietica mi fece da culla e mi consentì di giocare seriamente alla Grande guerra patriottica, come si chiamava da loro la seconda guerra mondiale, e perfino alla campagna di Russia di Napoleone. Il cappellino di foggia militare della divisa scolastica e la fibbia della cintura in stile Armata Rossa non li dimenticherò mai, riesca o no a trovare le vecchie foto nascoste in qualche scatola da scarpe di una famiglia decisamente non archivistica.
Indimenticabile il viaggio da Roma con papà, mamma e fratello su una enorme Buick con la bussola per le strade sconnesse, fangose, mal servite di carburante e disseminate di mužiki in estasi per l’apparizione americana inaudita. Dopo paesaggi alla Turgenev e cieli vasti e bassi e spesso grigi piegati su boschi di pioppi e di betulle, ma immensi sempre come le pianure, Mosca che si era negata alla gloria dell’Empereur e lo aveva lasciato solo tra le fiamme mi aprì il suo cuore di neve, di cipolle crude, di gelati divorati al gelo, di kvas che compravo chiedendo l’elemosina di qualche copeco allo zio della strada, il djadja che vuole bene ai bambini. Vidi e sperimentai la calda e falsa gloria della società nuova, del mito eroico, senza perdere la precoce sottigliezza togliattiana, il tesoro intellettuale dei borghesi comunisti che mi avevano generato e mi stavano allevando. Il culmine ideologico dell’esperienza stalinista e tolstoiana fu quando spiegai saccentino a un compagno di prima elementare in russo perfetto, un annetto o poco più dopo l’arrivo a Mosca, che Napoleone non era fascista, Hitler era fascista.
Stalin era morto da cinque anni, da due il paese era stato destalinizzato da un suo sodale e successore, un contadino mezzo ucraino, e i segni del famoso disgelo si alternavano alle attività ancora in piena efficienza della Lubjanka. Era il momento dello Sputnik, di Gagarin, dei versi popolari e nazionali di Evtušenko e della competizione detta coesistenza pacifica con il gigante dirimpettaio americano. Momento effimero ma non per un bambino in divisa che si rivoltolava nella neve, apprendeva e insegnava a velocità supersonica ai corrispondenti esteri, colleghi del padre, una nuova lingua, e ingrassava felice a vista d’occhio combinando la kaša scolastica di semolino e la pasta all’italiana di cui mamma faceva rifornimento a ogni viaggio della speranza dei compagni del Pci e dell’Unità in visita. Viste le premesse personali, è appena ovvio che le ombre restassero ombre e il sol dell’avvenire splendesse fulgido sulla grandeur di uno Stato guida incontestabile, con il quale vigeva un legame di ferro.
Oddio, qualche ombra me l’ero riportata a Roma dopo tre anni di residenza moscovita, magari senza saperlo, perché nei dieci anni di carriera e milizia del giovanotto funzionario e dirigente del partito operaio che poi diventai, anni Settanta, accadde qualcosa di strano. Dicevo a casa che non potevo andare in un paese in cui non c’erano i caffè dove sedersi (la seduta al caffè è sempre stata la mia fissazione) e occorreva il visto per i viaggi interni.
E da occidentalista nei gusti e nelle abitudini non mi successe mai, cosa strana e perfino inaudita nell’apparato torinese al quale appartenevo, di tornare tra tanti viaggi euroamericani non dico a Mosca, ma anche soltanto, magari per vacanze o incursioni di lavoro o compagnonnage, in qualche luogo al di là della cortina di ferro.
Più tardi, fuori dal partito, iscritto al Goethe Institut per leggere la lingua maledetta di Mark Twain, durante uno stage a Berlino presi la metropolitana alla Friedrichstraße, varcai il muro ancora ben saldo che fissavo ogni giorno stregato e agghiacciato dalla finestra della biblioteca del Preußischer Kulturbesitz, oltre gli edifici dei Philharmoniker, girai triste per l’Est urbano derelitto e in bianco e nero, e al termine della giornata me ne ritornai a Schöneberg, dove vivevo, rifatta per la prima volta dall’infanzia l’esperienza della gloria del socialismo o comunismo reale. Ero sulla via dell’anticomunismo, forse già un passetto oltre il traguardo, la gita mi confermò nelle nuove certezze incipienti, anche evocando l’epoca infantile in cui trattavo le ombre come cosa salda.
(A proposito di ombre, Julij Fridman abitava da noi per certi periodi a Roma, dormiva nello studio di mio padre, su un divano letto che ho ancora nella casa di campagna, e lo ricordo a notte come l’immagine stessa della tristezza e di un’incondivisibile memoria, con la sua canottiera, affacciato alla finestra e con un braccio appoggiato alla scrivania, gli occhialini da intellettuale povero, un cuore evidentemente provato, una discrezione meravigliosa. Domandai a mia madre chi fosse questo ospite misterioso e mi rispose che aveva passato anni in un lager sovietico, ne aveva riportato insonnia e mal di vivere del sopravvissuto, mamma mi trasmise queste informazioni come si trasmette una vergogna di famiglia. Ecco, la storia sovietica era una storia di famiglia anche per chi come noi ne aveva solo sfiorato il lato tragico e inconfessabile.)
Che cosa resti, a parte i ricordi, non lo so così bene come dovrei. Oltre tutto, non per prousteggiare, è in questione la memoria involontaria. A perestrojka avviata, Ugo Stille voleva mandarmi lì come corrispondente del Corriere, cosa che poi non si realizzò per banali motivi sindacali, e presi lezioni di russo da Elka Ibba a Italia Urss per impratichirmi. Le parole infantili mi riaffioravano alla mente, e la dolcissima Elka ne era compiaciuta, tanto che alla sesta lezione o settima mi disse di scrivere qualcosa in cirillico, ovviamente. Riluttavo, a stento decifravo le lettere e leggevo i vocaboli senza capirli, come potevo scrivere? Mi sottopose un testo e mi disse di copiarlo, lo feci e osservò: “Ma questa è la grafia di un bambino russo di sei anni!”.
L’Unione Sovietica è una zona neuronale d’archivio che non si può abbandonare, almeno lo è per uno come me
L’Unione Sovietica è una zona neuronale d’archivio che non si può abbandonare, pensai, almeno lo è per uno come me. Ma il mio giardino in una tazza di tè ha anche un profilo culturale e politico, tanti anni dopo quello resta e si vede. Scherzando e provocando ho detto qualche volta che sono un tossico dello Stato guida: l’Urss, poi gli Stati Uniti, Israele, il Vaticano. Vera la grande fascinosa influenza che ha su di me, da sempre, e non sono l’unico, la realtà che si fa storia umana e la storia umana che si fa realtà. La sede petrina è il minuscolo rimasuglio, a parte il cristianesimo bimillenario, del potere temporale, e ospita altri fantasmi mica male, c’è un lotto cimiteriale oltre le mura vaticane in cui è legalmente conservata l’ultima traccia o vestigium del Sacro Romano Impero di Nazione Germanica. Israele è un fazzoletto di terra minuscolo e gigantesco in cui si incontrano popolo, elezione, nazione, Stato.
Ora vogliono defraudare gli Stati Uniti della legittimazione dei Fondatori, dei Padri, perché erano proprietari di schiavi, ma è da pensare che alla fine la costituzione scritta più antica dell’Occidente sopravviverà alla cancel culture e al wokismo perché il mito delle origini, l’impero che splende sulla collina e il Dio personale appartengono di diritto e di fatto all’uomo americano. Quanto all’Unione Sovietica, Putin sta bene attento a non disperdere l’eredità cerimoniale e simbolica, inno e anniversari vittoriosi, cesaropapismo, e si capisce, ma non fa nulla, al contrario, per disperdere il ricordo della violazione flagrante di ogni diritto e di ogni pietà degli anni dello stalinismo dispiegato. Anche nel suo cervello di kagebista c’è quella zona neuronale nascosta, e gli serve da instrumentum regni. Al di là di questo, che tuttavia è importante, decisivo, si è sedimentato nel cuore dei russi il fatto storico della privazione del liberalismo e della democrazia, il loro Sonderweg, e si tratta di un fenomeno internazionale che concerne i nemici come gli amici del ricordo sovietico.
Il fatto è che il sovietismo non è disgiungibile dall’epopea russa, dalla fondazione al medioevo al moderno e contemporaneo. Il cancelliere federale non è più il Kaiser, l’antropologia tedesca ha radici nuove, con scarse persistenze. Invece lo spirito dell’Urss vive in tutti gli altri spiriti della storia nazionale, e non lo testimonia solo Masha Gessen con la sua grande ricerca sul mondo postsovietico, lo dice anche il sublime esperimento letterario di Vasilij Grossman in cui il peggio dell’oppressione stalinista si incolla in un ribollente brodo di umanità all’epopea patriottica e guerresca di Stalingrado, in fondo lo dice tutta la grande narrativa russa dell’Ottocento, lo dice l’opera lirica dall’Onegin al Mazeppa alla Dama di picche alla Lady Macbeth del distretto di Mcensk, lo dice il cechovismo dei racconti e dell’indagine umanitaria sui detenuti lontani dell’isola di Sakhalin, lo dice l’invenzione del nichilismo in Padri e figli o la nostalgia caucasica della vita dei cosacchi raccontata dal vecchio conte di Astapovo e Jasnaja Poljana. L’Unione Sovietica non è stata solo un’inestirpabile costruzione ideologica per generazioni, una società e uno Stato nuovi, qualunque cosa l’aggettivo stia a significare, è stata sottopelle la Russia stessa.
Poi c’è questa creatura mostruosa del partito Stato, del concentrazionario comunista, anch’essa in formidabile continuità con il monumentalismo zarista del lavoro forzato, con la fondazione di una città “premeditata” come un delitto (la San Pietroburgo di Brodskij), con la totale disponibilità dell’individuo in favore della storia e della patria. Chi abbia passeggiato nella città dai molti nomi, politropa come Ulisse, lungo il canale Griboedov, sui moli e i ponti della Neva, dalle parti del Cavallo di bronzo e dell’Ammiragliato, tra i filamenti prospettici dell’occidentalismo di Pietro il Grande e dei suoi immediati successori, e chi abbia goduto dell’ospitalità russa, nelle case e nei musei e nei cimiteri e nei monasteri, nel Palazzo d’Inverno e tra le superstiziose insegne della dittatura del proletariato dalle parti dello Smol’nyj, la sede del primo governo bolscevico, sa di che cosa parlo.
Quelle passeggiate le ho fatte da comunista garibaldino e italiano inconsapevole, a parte la ferrea vocazione a respingere da me l’autonomia individuale in favore di qualcosa di più grande, e da anticomunista pseudoliberale consapevole tanti anni dopo, a storia finita trent’anni fa; ma nelle diverse circostanze non ho mai potuto trattenermi dall’influsso e dal sapore mitico del teatro civile russo e sovietico. Tornato in Russia al seguito di una moglie americana, nell’anno precedente lo scioglimento dell’impero bicontinentale, come diceva l’indimenticato Alberto Ronchey, riconobbi l’odore di benzina degli scappamenti d’antan, le luci al neon nei negozi ingombri di una sola merce nelle varianti del latte e della panna acida, sentii le buche delle strade e i sobbalzi esattamente come trent’anni prima a bordo della Buick. Nel mio appartamentino di Parigi pende un quadro russo comprato alle pulci e datato 1959, è forse il Parco Gor’kij, c’è la festa del Primo maggio come si vede da uno striscione che sta per essere alzato, una cittadina passeggia tenendo per mano un bambino, forse era il ritratto sovietico di mia madre con me.
L’Urss era l’altro polo di attrazione, l’altro magnete, una tentazione permanente dell’Occidente negli ultimi secoli, basta considerare il Pont Alexandre III e il suo prolungamento verso gli Invalides. Negli anni Sessanta un fotografo di talento s’ingegnò a scattare strade e angoli di Mosca e di New York ritratti alla stessa ora nel daffare del quotidiano, e mio padre osservava, il che era nello spirito dell’autore, che emergevano grandi somiglianze. Le logiche imperiali, nazionali, patriottiche, si assomigliano, in effetti, e la divergenza di valori e interessi non diminuisce l’attrazione magnetica. E si assomigliano in un certo senso anche i popoli che ne sopportano le tremende conseguenze, le loro abitudini, le ingegnerie sociali, i tic. I kibbutz e i kolkhoz si mescolano nei significati, nelle atmosfere, nelle grandezze e meschinità anche nei racconti individualistici, ostili al fanatismo, alla colonizzazione mentale della Grande Idea e della Verità, di Amos Oz, compresa la eccezionale misura del tempo tragico che è la sua storia d’amore e di tenebra.
I bolscevichi e Stalin hanno fondato un complesso militare, industriale, ideologico e sentimentale sul quale è gravato per settant’anni o quasi il peso demoniaco della speranza di mezzo mondo, mentre nel suo alveo scorreva la disperazione della miseria illiberale e totalitaria, con l’imposizione del conformismo di Stato e di partito a un paese che conosceva la amara tradizione dell’obbedienza ma anche spavalderie aristocratiche forti nel profondo nucleo del suo popolo. Che l’Unione Sovietica sia stata per tanti anni una minaccia alle libertà dell’Occidente e che abbia tenuto prigioniera l’Europa centrale e orientale è un fatto. Che la disumanità di un sistema totalitario si sia spinta tanto in là nella storia del Novecento è un altro fatto. Che il paesaggio economico, sociale, culturale di una metà del mondo sia stato devastato e sfigurato dallo Stato di polizia e dall’irreggimentazione, un ennesimo fatto. Che questi fatti siano risultati alla fine un invincibile fattore di debolezza, verso la caduta e la dissoluzione del mito, è accertato. Ma il mito è a suo modo sopravvissuto, si è fatto simbologia nostalgica dopo che la bandiera rossa fu ammainata dalla guglia più alta del Cremlino, e i cinici di ogni dove hanno sempre guardato con apprensione alla scomparsa di un fattore di equilibrio e controbilanciamento uscito dalle vicende corrusche dell’ultima guerra mondiale guerreggiata. Della schiera dei cinici non posso fare parte, ho afferrato da individualista di riporto, con passione militante e révoltée, la coda estrema della guerra fredda, ma la memoria sovietica e russa appartiene al mio mondo delle favole e dell’infanzia in una forma crudele e irrecusabile.