signora bestseller
Le mille straordinarie vite di Luciana Boccardi
La “signorina Crovato” un po' Oliver Twist, un po' Heidi, contro il “femminismo da aperitivo”
La scrittrice, prima di sottoporsi a un’operazione importante, decide di mettere su carta tutti i fatti importanti della sua vita, ne esce un gran racconto picaresco al femminile come non se ne trovano più
Sai che cosa ho scoperto in questi mesi? Che il successo segue le stesse dinamiche della sfiga: è inarrestabile”. Luciana Crovato, detta “la Boccardi”, unione semantica fra il cognome del marito Virgilio, il grande documentarista Rai scomparso tre anni fa, e l’articolo determinativo che al nord caratterizza l’unicità, nel suo caso un monumento al giornalismo e all’attività culturale, ha trovato il successo a ottantanove anni, con un romanzo che, un passaparola dopo l’altro, oggi è nella venticinquina dei libri più venduti dell’anno: La signorina Crovato. In copertina c’è lei a tre anni, con una vestina bordata di pizzo, un grande fiocco in testa e la collana di ambra che, fino alla metà del Novecento, si faceva indossare ai bambini per proteggerli dalle malattie e dal malocchio, secondo una tradizione che risale ai tempi della bulla romana e certamente anche a tempi più remoti.
Tre anni fa, prima di sottoporsi a un’operazione importante per la quale le avevano dato una significativa probabilità di non riuscita, la Boccardi decide di mettere su carta, “un brogliaccio, eh?”, tutti i fatti importanti della sua vita, in gran parte ignoti alla sua stessa famiglia, compreso il famoso figlio Emiliano, PhD alla London School of Economics, titolare della cattedra di Epistemologia e Metafisica all’Universidade Federal de Bahia, di cui tutti sentiamo parlare da anni e che non abbiamo mai visto perché la moda è un mestiere ignoto ai fuoriclasse delle scienze. Una copia del brogliaccio viene consegnata alla editor Alice Di Stefano, figlia dell’amica di una vita, Cesarina Vighy detta Titti, Premio Campiello opera prima nel 2009, dicendole che “vi avrebbe trovato tante cose della gioventù della sua mamma”, consumata dalla sla pochi mesi dopo aver ricevuto il riconoscimento, e da queste finisce nelle mani del marito di Alice, l’editore Elido Fazi, raffinato cultore e traduttore di Keats, che lo legge e chiede a Luciana una trilogia.
Il secondo libro, Dentro la vita, è uscito qualche settimana fa. In copertina c’è sempre lei, di profilo, ventenne, con un tailleur stretto in vita e il foulard annodato sulla nuca come usava negli anni Cinquanta. Quando sono andata a comprarlo, scesa dal treno alla stazione Termini, la cassiera della Libreria Borri si è diretta decisa verso il primo corridoio, senza neanche doverne cercare la posizione sul terminale. Il successo si intuisce anche da dettagli come questo. Le telefono per dirglielo, è contenta, cita la folla di giovani che l’ha circondata alla Nuvola di Fuksas all’ultima edizione di “Più libri più liberi”, dove l’ha intervistata Gigi Marzullo. Scrive esattamente come parla: un flusso di coscienza perfettamente sintattico. Non corregge mai, e non ha remore. “Ho una memoria di ferro, era già tutto lì. Ed è tutto vero, al centoventi per cento. Non è un romanzo, è un memoir”. Insomma, la Boccardi storica del colore di cui tutti abbiamo osservato per anni i grandi cappelli di pelliccia indossati sulle ventitré, a tre anni ha dormito davvero nella cesta dei tacchini in campagna dopo quella che nella sua famiglia si definiva “la disgrazia”: l’incendio del cinema-teatro di famiglia che aveva reso per sempre cieco e privo di risorse suo padre – clarinettista eclettico, ateo e attivista comunista, figlio del grande tenore Gianni Masin Crovato da cui il nome di battesimo, Raoul, come negli Huguenots di Meyerbeer. Spiega di aver appreso quel po’ di pazienza che possiede dalla cura degli animali della famiglia che l’aveva ospitata mentre sua madre si dedicava al recupero impossibile del padre, nella campagna di Santa Maria di Sala, ora diventata una cittadina ricca che le ha appena offerto la cittadinanza onoraria: “Le galline sono fantasiose, le oche delle anarchiche”. Il suo è anche il racconto di una Venezia che non abbiamo conosciuto e non conosceremo mai se non, appunto, attraverso i romanzi: Mann, Boito, James, Bagnasco. La città delle ciacole e dei campielli, degli aristocratici che tengono palazzo e delle grandi feste snob, del cafetin che spezza la giornata; una città colta e popolare, lontanissima dalle oceaniche crociere ignoranti e il magnete souvenir a cinque euro, dove può capitare che alla giovane coppia Boccardi venga offerta in affitto a poco più di duemila euro al mese una casa col giardino e la corte da “Carteggio Aspern”.
La sera prima della nostra chiacchierata ha iniziato a scrivere il terzo volume, per il quale dovremo aspettare probabilmente la fine dell’anno prossimo: “Lo sai com’è, agli editori piace avere i libri pronti per Natale”. Dalla sua bella casa dalle parti dell’Arsenale, dice di non sapere quanto abbia venduto fino a oggi, aggiungendo di non averlo nemmeno chiesto, ma di essere rimasta impressionata quando la segretaria della Fazi Editore le ha annunciato che il prossimo marzo, al momento della rendicontazione, scoprirà di essere diventata ricca. “Che dici, devo preoccuparmi?”, osserva con quella cadenza veneziana in cui l’ironia e il cipiglio si mescolano alla liquidità delle vocali e che nessun altro italiano possiede, tanto meno nel Veneto di cui i cittadini di San Marco non si sentono parte, ricambiati con vigore da Mestre a Belluno.
Ribatto che spero si preoccuperà tantissimo. Luciana, che adesso sta vivendo la sua – quante sono? – decima vita, di certo la più sorprendente e inattesa, ha sempre posseduto quello che negli uomini si definisce carisma e nelle donne un bel caratterino. Per questo, al Gazzettino, dove lavora da quasi quarant’anni, inclusi i periodi di fondazione di impostazione politico-sociale come Il Femminile mensile di lotta femminista che fra il 1974 e il 1977 raccolse le più belle firme del periodo e che le consente di affermare che “il femminismo da aperitivo di oggi, quelle poetiche idiozie delle scarpette rosse o le puntualizzazioni sulle desinenze, ci allontanano dall’obiettivo, perché la vera parità si può raggiungere solo lavorando con la parte evoluta del mondo maschile”, resistette da redattrice assunta a tempo indeterminato “per circa un mese”.
Ha trascorso il resto della sua vita lavorativa gestendo collaborazioni e attività imprenditoriali, a un certo punto perfino un ristorante, a eccezione di un periodo giovanile di grande formazione presso la segreteria organizzativa dei festival di Musica e Teatro della Biennale, che rappresenta anche la sua unica fonte pensionistica mensile diretta. Il primo romanzo si chiudeva a quel punto, con la Boccardi divenuta finalmente “la signorina Crovato” che indossava il grembiule nero della segretaria perfetta dopo un’infanzia che potrebbe rivaleggiare con i personaggi di De Amicis e dove tutti abbiamo ritrovato i grandi romanzi picareschi, teneri ed eroici della nostra infanzia: Hector Malot, Fanny Burney, l’Oliver Twist di Dickens per certi versi perfino El Lazarillo de Tormes perché la Boccardi, sia detto con affetto, è una bella impunita e ne ha fatto le spese anche una lista di stilisti lunga così, in testa i Dolce&Gabbana, dei quali esecra lo scarso uso di mondo, pur amando appassionatamente la moda “perché è vita raccontata”.
Il suo è un gran racconto picaresco al femminile come non se ne trovano più (se ne sono sempre trovati pochi, il suo Femminile spiegava con chiarezza perché e come rimediare), soprattutto nell’Italia che ormai sa raccontare solo di turbamenti di peso ponderale, di invidie femminili o di tormenti di genere sessuale. A quattro anni guardiana delle oche come nella favola, poi apprendista parrucchiera, garzone di panetteria (non esiste la declinazione al femminile, domandatevi perché: e comunque ha ragione la Boccardi quando dice che le catalogazioni per genere e le definizioni per gusti, sessuali o meno, sono una scemenza); quindi “aiutino” per un grossista di spazzole e ricamatrice di borsette a venti lire al pezzo. Dalla lettura dei volumi si viene a sapere che ha appreso il suo francese di bella tournure nella casa di una famiglia molto abbiente, aiutando le bambine a fare i compiti e intrattenendole come una “damina” di compagnia, e qui sfioriamo tutte le sorelle Bronte e Heidi, ma talvolta la sua vita si tinge dei colori variopinti della Commedia dell’arte: ancora adolescente, la Boccardi diventa per esempio commessa sul Gran Viale al Lido, dove si inventa un inglese dal quale, non di rado, i clienti stranieri si ritraggono interdetti, e nel frattempo arrotonda come cantante di balera sotto pseudonimo (“Però Lisetta, te digo come ‘na mamma: ti bisogna che magni più pan. Perché te si bela, sì, ma no te gh’è bastansa tette! La gente vol vedar tante tette”). Per molti, lunghissimi anni sarà però assistente premurosa di quel babbo segnato dalla vita che sfugge al confino solo perché invalido e che lentamente scivolerà nell’alcolismo fino alla morte (non parlate alla Boccardi di No vax e di dittature presunte, morde). In quella famiglia dignitosissima, dove l’antifascismo è l’unica religione praticata con costanza, Luciana si fa imprestare una macchina da scrivere da Titti e si esercita come dattilografa, ricopiando sempre più velocemente pagine su pagine del Gazzettino, nella speranza di trovare un posto fisso e saldare i debiti con l’ospedale. A parte i lavoretti saltuari della mamma, quella ragazzina dagli occhi verdi e il mento volitivo che studia di notte è l’unica che lavori davvero, mentre al fratello minore, Giorgio, viene concesso di dedicarsi alle proprie passioni. Fra le pagine non troverete però mai un commento acido su quella che adesso verrebbe intesa come un’evidente sperequazione.
Lo sguardo di Luciana, che odia l’autocommiserazione e quel certo modo furbesco che hanno i colleghi di rappresentare le donne come vittime designate, è limpido, curioso, mai moralista. La realtà si affronta a viso aperto. Sì, decisamente Dickens. “Hai letto i capitoli dedicati alla Biennale? Vi troverai degli aneddoti che ti piaceranno di sicuro”. Ha ragione, un po’ mi conosce avendomi presa bonariamente per i fondelli per l’ansia che ogni tanto mi coglie di far parte di un mondo superficiale in un elenco di nomi e fatti sulla moda scritto durante il primo lockdown, “Burlesque”. C’è l’incontro con Peggy Guggenheim, che “possedeva quella speciale educazione che mio padre definiva all’americana, cioè non ne aveva”, c’è Lawrence Olivier che chiede di far sempre trovare alla bellissima moglie, Vivien Leigh, qualche bottiglia di whisky in camerino, c’è lo strepitoso racconto del debutto della “Carriera di un libertino” di Stravinsky nel 1951 con il magico testo di Wystan Auden, c’è il primo premio letterario che le viene consegnato da Georges Simenon per il racconto breve “Lettera a Casanova”. Ma devo ancora confessarle, non se lo aspetterebbe mai, che il punto che mi ha rapita è il suo matrimonio bianco ed eterno con Virgilio Boccardi, e il figlio avuto da un altro uomo nella serenità di tutti, senza proclami, perché il pudore non ha niente a che vedere con la liberazione femminile, e da sessant’anni Luciana non capisce perché a un certo punto fosse diventato “un dovere sociale avere rapporti sessuali indipendenti dai sentimenti”, che poi “si faceva sempre il gioco degli uomini”. Una volta entrati nel suo racconto, non si ha nessuna voglia di uscirne: “Credo sia perché si percepisce la verità. La mia vita l’ho vissuta davvero, fino in fondo. Per questo, fino a oggi non avevo provato l’esigenza di scriverne. Ed è anche un racconto di libertà, quel concetto che è il grande equivoco di oggi, dove la si scambia con l’incoscienza”.