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Natale a Napoli

Tra le statuine del presepe c'è pure Greta. Ma nessuno batte Pulcinella

Francesco Palmieri

Sui banchetti di San Gregorio Armeno le novità come ogni anno non mancano. Ma per la maschera napoletana non serve l'attestazione dell'Unesco: è già un patrimonio culturale dell'umanità

E arrivò il giorno della Greta di creta. Il marketing spontaneo dei pastorai napoletani, che hanno intuito come si fa notizia, sbocciò forse con la statuetta di Antonio Di Pietro pm di mani pulite. Da allora pedinarono l’attualità, modellando anno per anno i vip del momento sui banchetti di San Gregorio Armeno con una scansione oscillante tra la cover del Time e le aperture serali dei tg, incoraggiati da turisti e titoli prenatalizi dei giornali. Recita l’ultimo: “Greta Thunberg è il nuovo personaggio dei presepi”. Con l’impermeabile giallo e l’espressione di supplice minaccia spicca tra il rapper Fedez e il tennista Djokovic nella bottega della dinastia artigiana Di Virgilio. Per sopraggiunta assuefazione, i personaggi pop nemmeno più sembrano incongrui accanto a San Giuseppe e alla Madonna, al “pastore della meraviglia”, al pescatore e al monaco questuante, giacché il canone postmoderno esclude perentoriamente un quinto dei Beatles ma ammicca all’idea che i Re Magi fossero quattro di cui l’ultimo con le fattezze di Trump.

Lontana fa sembrare, l’abuso mediatico della creta, l’epoca recente in cui venir plasmato a San Gregorio Armeno ti consacrava come solo una caricatura di Giorgio Forattini. Ne fu così orgoglioso, Luciano De Crescenzo, quando si scoprì riprodotto fra i pastori che confessò con vanità: “In pratica, l’ho considerato un Oscar alla carriera”. Oggi qualsiasi visitatore può ottenere a pagamento l’emozione del proprio doppio in terracotta.

Schiuso a un tempo sincronico e sospeso che proietta il futuro nel passato, scenario di una Terra desolata che assimila geografia delle mappe e paesaggi interiori, il presepe napoletano tradizionale è una sofisticata macchina immaginale di cui si sente lo scricchiolio degli ingranaggi da quando gli stessi artigiani, per ruffianeria turistica, hanno deciso di incepparli. E’ un processo cominciato prima della moltiplicazione dei b&b nel centro antico e che albeggiò addirittura con l’arrivo delle truppe americane, quando non feriva ancora il cuore della tradizione. Precisò anzi certi confini urbani: “Piazza della Carità costituiva il limite tra il presepe e il sempre più frettoloso albero di Natale, tra gli struffoli e il panettone Motta, fra i rumorosi tricche tracche e i silenziosi cartoncini di auguri natalizi, tra il casereccio nocillo e l’internazionale whisky”, ha ricordato Roberto De Simone in “Satyricon a Napoli ’44”, dal non casuale sottotitolo “Fra Santa Chiara e San Gregorio Armeno”. Per decenni durante l’Avvento le rarefatte cornamuse degli zampognari avrebbero continuato a fare controcanto a “White Christmas” e “Jingle Bells”, mentre a San Gregorio Armeno, fino all’ondata turistica degli anni recenti, il tempo tornava magico e sospeso, simile a quello d’anteguerra. Per intuire come fosse basta forse il presepiale copione di “Natale in Casa Cupiello”. 

 

Dopo il dicembre 2020 chiuso per Covid, un’ordinanza più speranzosa che sagace regola adesso a senso unico il traffico pedonale tra Spaccanapoli e piazza San Gaetano, ma la “strada dei pastori” ha perduto da tempo le sue peculiarità deambulatorie. Travalicata ormai la definizione di “assembramento”, ha meritato i sostantivi ulteriori di calca, ressa o il più prosaico “casino”. C’era invece una volta, nei dicembre prima della Napoli for dummies, la San Gregorio Armeno che De Simone ha descritto da testimone in quel romanzo del 2014, dove “il ritmo ondulante dei tradizionali compratori era scandito dalla meticolosa scelta degli ultimi addobbi presepiali: due fascetti di pungitopo, detti spinapùllece o ceraselle, agghindati da rossissime bacche, qualche ramo di ‘rustina’, un’erba pungentissima, da collocare come cupola a tutta la costruzione scenografica, e da disseminare di fiocchi di ovatta simulanti un caldo e religioso nevicare”. Vi si sarebbe potuto incontrare un Eduardo di turno, alias Luca Cupiello, che giusto dopo avere contrattato il prezzo dei Re Magi s’incamminava infreddolito verso casa, dove li avrebbe svolti con cautela dalla carta di giornale per esibirli alla famiglia indifferente: “Gaspare e Melchiorre erano ancora buoni, ma questo qua, vedete… questo è Baldassarre… s’era rotta ‘a manella… E allora sembrava brutto un pastore nuovo e due vecchi… Così li ho comprati tutti e tre. Ma guardate con che precisione sono fatti… Io ci tengo na passione, che volete…”.

 

Il difetto dell’ostinazione, virtù di chi preserva qualsiasi tradizione, rende attuale da tre secoli il presepe napoletano perché ha escluso i personaggi della cronaca – nessuna Greta d’epoca – che lo avrebbero condannato a un continuo invecchiamento temporale. Ha incluso piuttosto gli archetipi perché non recano una data di scadenza. Né posteriore né anteriore. Perciò, grazie all’abolizione del tempo, tutti accettano e nessuno si domanda cosa ci facciano a Betlemme un cacciatore col fucile, il cuoco con il cappellone, un frate cappuccino, una monaca, la banda dei mori, il suonatore di chitarra e due giocatori di scopa. Né qualcuno si stupisce che le montagne di sughero innevate e un impervio castelletto medievale si staglino sul “fondale” di un cielo stellato proteso sul deserto con candide cupole moresche e palme da dattero. Come la cabala simbolica dei 90 numeri della Smorfia, con cui è imparentato, il presepe è la rappresentazione del sostrato psichico collettivo illuminato da una (ri)nascita prodigiosa e irreversibile. Ma mentre l’estrazione dei numeri è determinata dalla sorte, la composizione del presepe popolare, che può mutare ogni anno, deriva dalla scelta consapevole di chi rovista nel suo inconscio e lo rifabbrica con le proprie mani. Perciò in questa profonda operazione, che sembrerebbe impegno puerile, ogni Luca Cupiello si cimenta una volta l’anno senza sapere mai se sarà l’ultima. Malgrado, o forse a causa, dell’insoffribile rumore del mondo.

Perciò non hanno un vero prezzo le statuette dei vecchi pastori, persino se di plastica, quando a dotarle di valore sono state le dita e gli animi che le hanno maneggiate e tramandate. Rinnovellato ogni Natale, ciascun presepe rievoca i nomi di chi non è più in famiglia. Poi certo esistono per i collezionisti abbienti le sculture artistiche, degne dei sontuosi allestimenti nelle chiese e nei musei. Mentre s’affollava San Gregorio Armeno, su nel quartiere Vomero il 5 dicembre scorso la Casa d’aste Vincent mandava all’incanto alcuni pastori del XVIII secolo: come un “vecchio borghese” di Giuseppe Sammartino, autore del celeberrimo Cristo velato della Cappella Sansevero, che partiva da una stima fra 7 mila e 10 mila euro; stessa quotazione per una “vecchia in abito da festa” del medesimo artista; fra 1.300 e 1.800 euro una papera in terracotta policroma; da 2 a 3 mila un cesto coi piccioni.

 

Questo dicembre però, in cui Napoli non ancora uscita dalla pandemia sfida la sua stessa superstizione col dubitabile augurio di Greta sul presepe, sarà ricordato per almeno altre tre o quattro cose. Per essere il primo Natale di Gaetano Manfredi a Palazzo San Giacomo dopo il decennio delle sindacature De Magistris; per l’uscita su Netflix del candidato agli Oscar “E’ stata la mano di Dio” di Paolo Sorrentino; per il film di Sergio Rubini “I fratelli De Filippo”, che ripercorre la storia di Eduardo, Peppino e Titina a ruota della pellicola “Qui rido io”, con cui Mario Martone ha raccontato la biografia del loro padre naturale e artistico Eduardo Scarpetta. Ma per qualche ineludibile concatenazione astrale o sincronicità junghiana, questo dicembre si è aperto pure con l’annuncio di Pulcinella candidato dell’Italia a “Patrimonio culturale immateriale dell’umanità”, qualifica già riconosciuta dall’Unesco all’arte del pizzaiolo nel 2017 e cui da ultimo ha aspirato, senza riuscirvi, il rito del caffè espresso.

Mentore tellurico della città laddove san Gennaro ne ha la giurisdizione celeste, presenza fissa anche fuori stagione natalizia nelle botteghe di ogni pastoraio, souvenir foggiato in mille modi a tanto o poco prezzo per ogni tasca di turista, emblema di trito folclore rifiutato dagli intellettuali permalosi e in quanto non solo folclore incensato da quelli pretenziosi, simbolo dei difetti più veraci e calunniosi del popolo napoletano, bandiera dei suoi sentimenti più fasulli e più preziosi, antico quanto le Atellane e contemporaneo come volle Stravinskij, cantato da Pino Daniele e immalinconito sul volto di Troisi, leggero e ossessionante per Tiepolo a Venezia, scippato dai teatranti francesi che se lo portarono a Parigi, dai caricaturisti inglesi che lo tirarono a Londra, danzato morente da Léonide Massine nel musical “Carosello napoletano”. Lui, Pulcinella, ha fatto impazzire d’attenzione l’antropologo Domenico Scafoglio primo avvocato del suo riconoscimento all’Unesco, ma anche il filosofo Giorgio Agamben, che gli dedicò un libro. E’ stato Pulcinella la maschera con cui i soldati fedeli a re Francesco si travestirono per Carnevale nell’assedio di Gaeta, lanciando sberleffi dagli spalti alle navi piemontesi e morendo uccisi dalle cannonate nel camicione bianco da guitto con cui per un giorno ricoprirono la logora uniforme borbonica. E’ Pulcinella il genius loci di via Tribunali, col suo busto bronzeo piantato all’angolo di vico Fico Purgatorio ad Arco dove i turisti si scattano i selfie e gli lisciano il naso adunco per buona fortuna: fu plasmato da Lello Esposito, l’artista che gli deve la fama e che lo ha riprodotto in mille stati d’animo e di corpo da quando era un ragazzo dell’orfanotrofio.

 

Geniale e presuntuoso, proprio Eduardo Scarpetta credette di avere ucciso Pulcinella, ufficialmente perché voleva rinnovare il teatro napoletano elevandolo dalla farsa popolare ottocentesca alla commedia borghese, ma probabilmente per liberarsi di una “paura indiavolata” della maschera che lo aveva ossessionato dall’infanzia e che neppure superò quando vide il più grande Pulcinella della Storia, il suo maestro Antonio Petito, morire sulla scena mentre recitava la spettrale farsa “La Dama bianca” in una sera di marzo del 1876, al Teatro San Carlino. Poi credettero di averlo ucciso i tedeschi nella Prima guerra mondiale, quando la bomba di uno Zeppelin piombato su Napoli colpì il nuovo titolare della maschera, Giuseppe De Martino. Credette di averlo ucciso Libero Bovio, che in uno struggente atto unico lo fece ritornare sulla terra – Orfeo al contrario – per portarsi nell’Ade Colombina. Credette ancora di averlo ucciso Eduardo De Filippo più per motivi ideologici, ma non poté fare a meno di indossarne a teatro e al cinema la maschera che gli aveva posto sul volto il successore di De Martino, il chirurgo mancato Salvatore De Muto, nel 1954. E quando Eduardo se la tolse, la maschera passò a Gianni Crosio linotipista ma Pulcinella per vocazione, perché chi indossa quell’abito è come chi riceve la chiamata al sacerdozio. Vi s’identifica anche quando non dice messa.

Chiunque passi per San Gregorio Armeno registra l’onnipresenza di Pulcinella e si rende conto che ha vinto un’altra volta sui suoi assassini e che baratterebbe la bollinatura dell’Unesco con un piatto di vermicelli al pomodoro. Del timbro Unesco hanno bisogno i cavalli lipizzani, l’arte dei muretti a secco, gli zufoli tribali. Non lui. Protetto dall’apparenza oleografica e dall’usura di un nome proprio divenuto sostantivo, dal sorriso aspro o commiserevole di chi lo qualifica come metafora o termine di paragone, Pulcinella cela una potenza demoniaca di cui ancora lo sanno capace i suoi sommessi devoti. S’annoverano, tra questi, gli ultimi bambini che lo videro a confronto con la Morte nei ‘teatrini delle guarattelle’ e se ne sono ricordati da adulti, guardando Il settimo sigillo’ di Bergman. Non c’è bisogno dell’Unesco “o forse, divenuto il vero Pulcinella patrimonio dell’umanità”, ha osservato lo scrittore Giuseppe Montesano, “riconosceremo che lui e le altre bizzarre e possenti radici di cui siamo fatti sono parti di noi, perché sono la cultura: senza la quale siamo solo uomini vuoti, burattini digitali, imitazioni di imitazioni. Chissà!”.

Forse ha ragione lui: c’è bisogno dell’Unesco per ricordare a San Gregorio Armeno che il pop è un’opzione di cui si può fare a meno senza perdere niente. Pulcinella è assai più vip di Greta Thunberg. Fatela scendere.

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