la "bestia" domestica
Sono un attore: credo ancora a Babbo Natale. Parola di Alessandro Haber
Il cinema e il teatro, "la mia malattia costruttiva": un gioco "fatto con tutta la serietà possibile". Gli incontri che cambiano una vita, Roma, le donne e Marlon Brando. E la pandemia, pasantissima, perché "la mia vita senza recitazione è solitudine"
“Nella mia vita ho sempre detto quello che pensavo e fatto quello che volevo. Non devo nulla a nessuno, anche se ci sono persone come Pupi Avati e Giovanni Veronesi che me l’hanno cambiata. Sono un attore e la mia è una malattia costruttiva. Mi piacciono le sfide e amo il rischio: se non si rischia, la vita stessa è monotona. Ci sono delle volte in cui ho esagerato o esagero, ma è durato un attimo, tipo questa mattina, qui a Roma: sono uscito con il motorino nonostante la mia operazione al ginocchio, le stampelle e le buche di Trastevere. Sono così, non ci posso fare niente”. Sincero, non convenzionale e diretto, Alessandro Haber si racconta al Foglio la vigilia di Natale. “La passerò qui a Roma: chi mi vorrà vedere, con le dovute precauzioni vista la situazione che stiamo vivendo, deve solo chiamarmi. Io ci sono”. Haber - come lo chiamano tutti e come si chiama anche lui - racconta Haber in Volevo essere Marlon Brando (ma soprattutto Gigi Baggini), l’autobiografia che ha scritto con Mirko Capozzoli da poco pubblicata per Baldini+Castoldi.
Settantaquattro anni passati tra 120 film e oltre 50 interpretazioni a teatro, è un eterno ragazzo “che non ha mai perso l’entusiasmo di quando ne aveva 20”, dice Giuliana De Sio nei commenti alla fine del libro, sua collega ed ex fidanzata. “Sembra un parente, uno zio, qualcuno che legittima comunque un rapporto di confidenza”, aggiunge Valeria Solarino. “I suo eccessi sono sempre stati la normalità, ma non sono stati mai drammatici”. Gli amici lo chiamano “la bestia”, ma lui alla fine si rivela sempre “un animale domestico”. “Il mio lavoro – ci spiega - mi ha salvato: è sposa, amante, troia, è il mio equilibrio e la mia droga. Non c’è niente che mi faccia stare meglio. Quando sono a casa, invece, mi sento vedovo, cerco la felicità e non la trovo. Si immagini, quindi, quanto possa essere stata devastante per me la pandemia, visto che la mia vita senza la recitazione è solitudine. Quel periodo mi ha insegnato che siamo appesi ad un filo e che la vita è fragilissima, oltre ad avere una maggiore attenzione per gli altri, ma io ce l’avevo già prima, ad esempio per il mio pubblico. Senza, un attore non è niente: è la mia certezza ed è per questo che l’ho sempre rispettato”.
“Guadagnare – aggiunge - è importante, ma scelgo poi sempre io le cose per riproporle fuori dall’ordinario. Amo quello che faccio: l’ansia della telefonata non mi ha mai abbandonato e amo sentirmi in precarietà, perché poi arriva sempre qualcosa che ti fa tornare con i piedi per terra, che ti fa sentire vivo. Nonostante tutto, nella vita c’è sempre qualcosa di miracoloso”. Recitare è stata ed è la sua vita, ma quel verbo lo detesta. “Mi da’ l’idea che sia una cosa finta, preferisco jouer in francese, che da’ più l’idea del ‘gioco’ che è poi il nostro mestiere. Noi attori crediamo ancora a Babbo Natale e alle favole, giochiamo con gli oggetti, con i costumi e con le parole. Creiamo affidandoci più alla fantasia e alla sensibilità che alla cultura. Poi c’è il talento che non si compra al mercato, né si insegna all’Accademia. Senza, avrei fatto una brutta fine. Molti lo smarriscono, perché si compiacciono troppo; il mio non è sfrontato, non ha la puzza sotto al naso”. È stato un ‘gioco’ – “fatto con tutta la serietà possibile” – anche sposare Antonella, una ragazza molto più giovane di lui con cui ha avuto una figlia, Celeste, che oggi ha 17 anni. “È stato un vero miracolo, ha cambiato i parametri della mia vita. Ora con sua madre siamo separati, abbiamo entrambi un’altra storia, io con un’archeologa dell’Aquila che ha trovato un pezzo di antiquariato in me”, scherza.
Haber e le donne, dunque, che cadono tutte o quasi ai suoi piedi. Ma come fa? “Forse perché ho l’occhio spermatico (ride, ndr). Scherzo. Le faccio ridere, ma alla fine sono sempre loro a scegliere. Le ho sempre rispettate anche quando è stato detto il contrario (ogni riferimento all’episodio con la figlia di Lavia non è puramente casuale, ndr): non mi sento un cesso, sono un tipo interessante, ma soprattutto sono un artista che gioca con i sentimenti, con la poesia, con la metafora e il teatro”. “Haber suona bene ovunque”, si legge nel libro. “Haber è come un camaleonte – aggiunge lui – e dove si posa diventa quel colore. Chiunque dovrebbe provarlo, perché gli farebbe bene anche se non lo sopporta. È una spezia, un peperoncino molto piccante che non piace tutti”.
Marlon Brando – citato nel titolo - è uno dei suoi miti, “è l’unico a cui l’avrei dato, perché aveva una faccia, un’energia e un magnetismo che non ho trovato in nessun altro. Era sempre qualcosa di conturbante: rappresentava l’attore con la ‘a’ maiuscola, era il cinema e anche quando aveva dei suoli brutti, riusciva ad emergere in maniera straordinaria. Se devo pensare a uno come lui oggi, mi viene in mente Javier Bardem”. Gigi Baggini invece, il personaggio interpretato per pochi minuti da Ugo Tognazzi in Io la conoscevo bene, “è un fallito e vive tra gli ultimi”. “Io non mi sento mai appagato e il mio è un continuo work in progress. Sono uno stacanovista: ogni volta che sono in teatro o che si accende la cinepresa, ricomincio da capo: mi stupisco, mi metto in discussione, ma ho bisogno di continue conferme dal pubblico per sentire che esisto. Le vittorie, ma soprattutto i fallimenti sono di grande insegnamento, delle palestre di vita”. Vedere “lo strano effetto che fa la mia faccia nei vostri occhi” – come canta ne La valigia dell’attore, la canzone che gli scrisse Francesco De Gregori in Haberrante, il suo primo disco del 1995 – rappresenta al meglio, spiega, il suo lavoro, “perché contiene una follia costruttiva che non si esaurisce mai e che ci aiuta a superare ogni ostacolo”. Il cantautore romano è stato uno dei tanti incontri “fondamentali e piacevoli” che ha avuto nella sua vita, cui si aggiungono anche Mimmo Lucasciulli, Nanni Moretti, persino i fratelli Ferrara: “Giorgio è nato il 19 gennaio come me, feci Rosa Luxemburg con sua moglie (Adriana Asti, ndr); con Giuliano invece giocavamo a dadi al bar del Sitea a Torino utilizzando come fiches i sottobicchieri che valevano per noi centomila lire”.
Con Mario Monicelli si vedevano spesso. “Una notte ebbi anche la fortuna di riportarlo a casa a novantatré anni dopo una festa da me. Lui a mezzanotte, qualunque cosa stesse facendo o accadendo, doveva andare a dormire e anche allora fu irremovibile, ma i taxi non si trovavano e fu così che lo portai in scooter. Avrei voluto fare una foto con lui per immortalare quel momento, ma aveva troppa fretta di arrivare a quell’appuntamento con il letto. Quando è morto sono stati in tanti a chiedermi cosa ne pensassi della sua scelta di morire in quel modo. Il suo è stato un gesto inaspettato, ma coerente. Era onnivoro, cresceva giorno per giorno e quando non l’ha potuto più fare, quando ha cominciato a non sentirsi più vivo e ad avere bisogno degli altri, si è sentito arrivato. Non voleva rompere più il cazzo a nessuno”.
Altro suo amico è il produttore Pietro Valsecchi, che quando si conobbero faceva anche lui l’attore. “Per Pietro, oggi, sono come il ristorante sotto che non si frequenta anche se si mangia bene, o forse gli ricordo un passato meno felice. Chissà, forse avrebbe dovuto chiamarmi per offrirmi una parte, ma temendo una mia reazione sconsiderata, non l’avrà fatto, perché mi ritiene troppo esigente e ha ragione. Ogni tanto lo chiamo e lo insulto, perché se io fossi lui e lui Haber, gli avrei offerto come minimo un ruolo da protagonista. Resta comunque il mio amico numero uno prima ancora di Giovanni (Veronesi, ndr) e il cordone che ci unisce è fortissimo”.
Sono stati tanti i ‘no’ ricevuti, ma soprattutto quelli detti, ad esempio a Vittorio De Sica. “Il mio più grande rimpianto è non aver lavorato con lui ne Il giardino dei Finzi Contini. Avrei dovuto interpretare il protagonista, ma alla fine prese Lino Capolicchio dicendomi che mi avrebbe assegnato un altro personaggio. Rifiutai, pentendomene, perché poi il film vinse l’Oscar. Oggi farei anche due pose gratis”.
E a proposito di Oscar, gli chiediamo se ha visto il nuovo film di Sorrentino che quest’anno concorrerà per l’Italia e cosa ne pensa di lui. “Mi è piaciuto molto, è il suo film che ha più personalità, anche se ha qualche lentezza e avrebbe potuto togliere qualcosa. Vedere un film di Paolo è come quando si andava a vedere un film di Fellini e di altri come lui: ci si andava e basta, indipendentemente dal cast che ha”, aggiunge mentre dietro di lui, il traffico natalizio romano continua a procedere senza sosta. “Amo questa città con le sue difficoltà e contraddizioni, la sento mia, nonostante sia nato a Bologna e abbia trascorso la mia infanzia in Israele. Prima che venisse eletto Gualtieri, ragionavo con un tassista che avrei voluto dividerla città in quattro parti e mettervi alla prova quattro ipotetici sindaci: del PD, dei 5Stelle, del partito della Meloni e di quello di Berlusconi. Dopo quel periodo di prova, avrei fatto governare il più capace. Un’idea surreale, lo so, ma tanto è surreale anche questa città: c’è sempre na’ matriciana o na’ pajata dietro. Persino la sua squadra, di cui sono simpatizzante, è così. Milano, invece, ha un’energia diversa: qui a Roma, ci può vivere chiunque, perché si vive anche di espedienti, alla giornata. In altri posti è impensabile prima ancora che impossibile”.
In attesa di vederlo a teatro a febbraio con Morte di un commesso viaggiatore (prima a Chieti, poi Trieste e Roma), studia, legge, si informa, aspetta. Ad esempio, il prossimo presidente della Repubblica. “Draghi sta facendo un lavoro meraviglioso, senza di lui saremmo affogati tutti, ma lo vedo più come presidente del Consiglio. Al Quirinale vorrei Gentiloni o Veltroni, Berlusconi no, anche se il carisma ce l’ha. Se sarà lui – aggiunge - mi auguro solo che si responsabilizzi”. Nel frattempo il tempo scorre in generale, nella vita e nel presente. Come vorrebbe essere ricordato? Gli chiediamo prima di salutarci. E lui: “Come un cane sciolto che non deve un cazzo a nessuno, ma questo – forse – l’ho già detto troppe volte. Vorrei che fosse istituito un premio con il mio nome in un festival, a Venezia o altrove, e che sia dedicato ai giovani talenti. So che è presuntuoso da parte mia, ma questo è un desiderio che rispecchia il mio essere anomalo. Poi, sa, dopo io non ci sarò, quindi tutto ha poca importanza. Mi auguro solo di poter incontrare tutti quei talenti che ho incontrato e di fare insieme una grande festa, ma la vedo dura”.