Le macchine della Repubblica/2
Gli anni Sessanta, la Dolce vita del cinema e delle auto, a partire dalla Flaminia presidenziale
La Lancia Flaminia 335 è un opulento macchinone, ma batte in signorilità le altre auto candidate alla rappresentanza, italiane e straniere. Il suo transito sulle strade segna il passaggio di un'età dell'oro per il nostro paese: nello sport, nel cinema e nello stile di vita
Quello che potete leggere di seguito è il secondo episodio del viaggio a puntate sulle auto che hanno fatto la storia della nostra Repubblica a cura del regista e sceneggiatore Marco Tullio Giordana per il nostro giornale. Potete trovare la prima puntata qui.
Il 1960 si apre fra grandi speranze e tensioni sociali che sfociano nei moti di luglio: morti a Reggio Emilia e Licata, feriti a Genova e in tutte le grandi città italiane che protestano contro il governo Tambroni ammiccante ai missini. A Roma il tenente colonnello Raimondo D’Inzeo comanda le cariche di cavalleria a Porta San Paolo, gli verranno perdonate solo grazie alla medaglia d’oro conquistata di lì a poco alle Olimpiadi (il fratello Piero si guadagna quella d’argento). Forse sono proprio le Olimpiadi a riportare la concordia e l’orgoglio nazionale: non solo per le 13 medaglie d’oro (leggendarie quelle di Livio Berruti, Sante Gaiardoni, Giuseppe Delfino, Giovanni Benvenuti, e mi scuso con gli altri che tralascio) che collocano l’Italia al terzo posto dopo Stati Uniti e Unione Sovietica (il miglior risultato mai ottenuto ai Giochi), ma anche per la faccia “moderna” che la città mostra col villaggio che spazza la baraccopoli di sfollati detta Campo Parioli. Progettato da Adalberto Libera (quello della villa di Malaparte a Capri), Luigi Moretti (Accademia di scherma al Foro Italico, Gil e poi Watergate Complex di Washington, parcheggio sotterraneo di Villa Borghese, etc.), Vittorio Cafiero e Vincenzo Monaco, è realizzato in tempi brevi e offerto chiavi in mano agli atleti che arrivano da tutto il mondo. Il ponte di Corso Francia, progettato negli anni Trenta da Armando Brasini (cui il Duce in persona cancella con un tratto di matita risparmiatrice l’arco trionfale che doveva aprirne l’ingresso) non è agibile per via di un cedimento strutturale. Le splendide macchine italiane degli anni Sessanta, Giuliette sprint e spider, Appie, Aurelie, Flaminie, Ferrari, Maserati (più le Jaguar, Ford, Chrysler, Cadillac, Citroen, Mercedes della folta comunità diplomatica straniera) devono allinearsi sul ponte di barche Bailey che rammenta a tutti i tempi di guerra, finita sì da 15 anni ma le cui ferite non sono ancora rimarginate.
Per il cinema italiano il 1960 è una buona annata: escono La dolce vita di Federico il Grande, Rocco e i suoi fratelli del Chinacci (come chiamavano in famiglia Luchino Visconti), La ciociara di Vittorio De Sica (farà vincere l’Oscar a Sophia Loren), Tutti a casa di Luigi Comencini, L’avventura e La Notte di Michelangelo Antonioni, Signori si nasce e Totò, Fabrizi e i giovani d’oggi di Mario Mattoli, Il bell’Antonio e La giornata balorda di Mauro Bolognini, Audace colpo dei soliti ignoti di Nanni Loy, Adua e le compagne di Antonio Pietrangeli, Risate di gioia di Mario Monicelli, Kapò di Gillo Pontecorvo, La lunga notte del ’43 di Florestano Vancini, Il Mattatore di Dino Risi (con Vittorio Gassman), I dolci inganni di Alberto Lattuada, Il letto a tre piazze di Steno, La maschera del demonio di Mario Bava, I delfini di Citto Maselli, Era notte a Roma di Roberto Rossellini. Debutta alla regia Ermanno Olmi con Il tempo si è fermato, intanto che in rampa di lancio scaldano i motori Pier Paolo Pasolini (Accattone), Marco Bellocchio (I pugni in tasca), Bernardo Bertolucci (La commare secca) e a scorrere anche solo questi titoli – dato che nel solo 1960 la cinematografia italiana ne ha prodotti o coprodotti ben 143 – viene da pensare che non eravamo messi male. Senza contare i filmoni americani che vengono a girare a Cinecittà, complici le paghe basse e le superbe maestranze, non ancora sindacalizzate, capaci di costruire qualsiasi cosa, gli scenografi, i costumisti, il fulgore della città che accoglie attrici e attori, li vizia, li coccola, ne mischia il sangue e il seme coi rampolli locali. Per l’appunto: la Dolce vita.
C’è un’auto che rappresenta perfettamente questo momento di opulenza classica e modernità, di calme, luxe et volupté, di turgore istituzionale e ostensione di suprema magnitudine: si tratta della Flaminia tipo 335 comunemente definita presidenziale. Gli italiani la conoscono bene perché la vedono sfilare col presidente neoeletto o per la Festa della Repubblica del 2 giugno ancora oggi. Non se ne cerchi la storia su Wikipedia. Lì scrivono che fu prodotta in cinque esemplari, di cui uno donato alla regina Elisabetta in occasione della visita in Italia del 1961. Errore madornale, dato che le auto uscite dalla Pininfarina (che si scrive ora attaccato per decreto presidenziale) sono solo quattro e portano, come nella tradizione, i nomi dei cavalli delle scuderie quirinalizie: Belsito, Belvedere, Belmonte e Belfiore. Qualcuno riesce a correggere la svista? Io non ci riesco, nemmeno per le inesattezze che riguardano la mia minima persona, figuriamoci se riesco a intervenire sul pedigree di un’automobile. Se qualcuno di voi sa farlo intervenga, si prodighi, salvi la Patria e la sua memoria.
Questa Flaminia fece la sua apparizione proprio per la Regina, allora splendida trentacinquenne, accompagnata dallo svettante impeccabile principe consorte. In qualche foto la vediamo invece condividere il sedile con Giulio Andreotti (era ministro per gli Affari esteri) e si capisce che lo scambio le risulta meno intrigante.
La Flaminia 335 è una versione allungata e scoperta della berlina normale, un opulento macchinone da commendatore che batte in signorilità e stazza le coeve Fiat 2100 e Alfa Romeo 2000 candidate alla rappresentanza, ma tutte surclassate da questa che risolve con grazia una certa pesantezza del modello di serie e uguaglia – a mio parere anzi supera – qualsiasi altra auto “presidenziale” del periodo, compresa la Lincoln Continental di Kennedy, la Mercedes 300 di Konrad Adenauer, la Rolls-Royce Phantom IV di Francisco Franco e di quasi tutti i Reali sopravvissuti. Batte perfino la grandeur francese, perché la pur vistosa Citroën carrozzata Chapron per il presidente De Gaulle è meno bella e riuscita della nostra Flaminia.
La 335 fece dunque il suo debutto ufficiale con Elisabetta e da allora fu sempre impiegata per le visite di Stato e le cerimonie più significative; con Kennedy ai primi di luglio del 1963, all’inaugurazione del Salone di Torino nell’ottobre del 1963, dell’Autosole nell’ottobre del 1964, con De Gaulle nel luglio del 1965 all’inaugurazione del traforo del Monte Bianco. Lasciata nel garage del Quirinale negli anni della presidenza Leone (salvo che per la sua elezione o per le simpatiche scorribande notturne dei figlioli adolescenti), non venne utilizzata da Pertini e Cossiga, forse perché gli anni di piombo suggerivano auto meno vulnerabili. Furono Scalfaro e Ciampi a riscoprirla, passata la bufera. Da allora i nostri presidenti hanno continuato a usare la Belvedere (targa Roma 454307) e la gemella Belfiore (Roma 454308). Le altre due si trovano: una al Museo dell’Automobile di Torino (Belsito, Roma 474229) e l’altra al Museo della Motorizzazione militare della Cecchignola a Roma (Belmonte, Roma 454306).
Il 22 ottobre del 1962 il controspionaggio americano individua a Cuba – dove la rivoluzione del 1959 s’è spinta in direzione filosovietica – le basi in costruzione di missili a corto e medio raggio di fabbricazione russa. Non sono ancora completate; il resto del materiale è in viaggio via mare. E’ la risposta al tentativo fallito da parte degli Usa d’invadere l’isola (Baia dei Porci). Kennedy pronuncia in tv un discorso che fa tremar le vene e i polsi: “Non rischieremo prematuramente e senza necessità una guerra nucleare mondiale dopo la quale anche i frutti della vittoria sarebbero cenere sparsa sui nostri cadaveri; ma nemmeno indietreggeremo di fronte a un tale rischio”. Dopo alcuni giorni in cui il mondo intero vive nel terrore che scoppi la Terza guerra mondiale, le navi sovietiche decidono di invertire la rotta e tornare a casa. In cambio gli Usa promettono di non invadere l’isola mai più e smantellare le basi missilistiche in Italia e Turchia con le ogive puntate verso l’Urss. Dopo questa crisi – anche se continua a scopo deterrente la corsa agli armamenti – si impone la necessità di una distensione. Nel 1963, quasi a simboleggiare la nuova èra, viene creato un “filo rosso” per la comunicazione diretta tra Casa Bianca e Cremlino e a Mosca viene siglato un primo accordo per la sospensione degli esperimenti atomici nell’atmosfera. Sembrerebbe fatta. Tutto torna tranquillo, anche se gli americani hanno sostituito i francesi in Vietnam e si stanno impegnando sempre più massicciamente. Poi arriva Dallas.
Il 22 novembre 1963 il mondo precipita nuovamente nel caos. Tutto il mondo si commuove per l’orribile assassinio che la commissione Warren non riesce a spiegare. Inebetito davanti alle immagini – addirittura filmate! – del presidente che si accascia mentre mezza testa gli vola via, come nel peggiore dei film splatter, e la bella moglie in Chanel rosa si slancia d’istinto sul bagagliaio cercando di afferrarla. Segue l’omicidio in diretta televisiva del principale sospetto, il sociopatico (secondo le perizie) Lee Harvey Oswald con la moglie russa. Poi la visone regale di Jackie in gramaglie ai fastosi commoventi funerali di Stato, velata come il Cristo napoletano della Cappela Sansevero, la piccola Carolina scossa al fianco e il minuscolo scoiattolino John John che, tutto compreso, saluta il feretro del papà come un soldatino.
Solo l’estate prima Jackie e la sorella Lee, maritata Radziwill, passavano in costiera “la vacanza più bella della nostra vita”, camminando scalze per Positano, stupende irraggiungibili prede. A villa Episcopio, dove risiedono, sgomberano la spiaggia perché nessuno si permetta di scocciarle e quasi tutte le mattine passa a prenderle la Fiat 600 Jolly carrozzata Ghia, messa a disposizione da Gianni Agnelli, l’industriale italiano che più ganzo non si può.
Come stelle lontane milioni di anni luce che continuano a brillare anche se già estinte, così il boom sembra intatto e invece sta perdendo velocità. L’incrina il disavanzo della bilancia commerciale, l’arresto del ritmo di crescita, il riaffacciarsi dell’inflazione e dell’aumento dei prezzi. Una parola ricorre nei titoli dei giornali: congiuntura, incomprensibile a chi non abbia studiato economia. Non promette nulla di buono e suona così insistita che Ettore Scola la prende nel 1964 come titolo del suo secondo film. Le lotte sindacali s’inaspriscono, la pace sociale è rotta.
In più cominciano a scalpitare anche gli studenti, fino a quel momento tranquilli e avviati alle carriere dei padri: medici, ingegneri, architetti, impiegati di concetto, professori. Futura classe dirigente che dovrebbe ringraziare il cielo e continuare a dare esami o rincorrere le matricole lungo i corridoi degli Atenei per farsi comprare le sigarette, paga della stupida caricaturale goliardia. Invece i fanciulli si ribellano ai professori, ai programmi, alla società, al conformismo sociale, alle buone maniere. Quelli che sembravano obiettivi della promozione sociale sono ora diventati gli spregiati bersagli della contestazione. La famiglia, il posto fisso, la bella macchina, la ricca pensione. E questa rivolta avviene dappertutto, non soltanto a Roma, Milano o Torino. E’ partita da Berkeley, nell’opulenta California ed è poi dilagata a Città del Messico, Parigi, Londra. Perfino a Praga scendono in piazza chiedendo riforme e, come tutta risposta i russi invadono il paese fratello con i carri armati. Un ragazzo, Jan Palach, si dà fuoco come fanno i bonzi in Vietnam per protestare contro gli americani.
Signora mia, dove andremo a finire… (2 - Continua)