l'intervista
Branduardi racconta Fairytale of New York e il "Natale degli ultimi" a rischio censura
"Il pol. corr. ha rotto. È assurdo pensare che questo testo preveda rabbia contro i gay, le donne, i discriminati. Anzi dà loro voce"
Lo storico singolo dei Pogues sempre più nella bufera per qualche f-word di troppo. "La vera musica è spirito e carne: edulcorarla significa impoverirla", sostiene il cantautore che ne ha fatto una cover fedele
Lontano da addobbi, caminetti al calduccio o vagonate di buone intenzioni. Il Natale degli sconfitti inizia ubriachi e prosegue a insulti. Quindi scioglie i sogni infranti in un ballo liberatorio. È Fairytale of New York, il brano cantato dai Pogues che dal 1987 fa l'intruso tra jingle zuccherosi e imbarazza le hit parade sotto l’albero. Così insolente da mettere d’accordo bigotti di vecchia data e fanatici della pseudoavanguardia woke, che vorrebbero censurarla. “Eppure è una canzone molto più vicina ad Adeste fideles che a White Christmas o simili”: parola di Angelo Branduardi, che dieci anni fa decise di farne l’unica cover in italiano riconosciuta dalla band anglo-irlandese, “anche se l’hanno capita in pochi”. Altrove, rimane un successo senza tempo. E ogni dicembre, al centro delle polemiche.
“È un brano profondamente commovente, fino alle lacrime, senza retorica”, spiega il cantautore al Foglio. “Fantastica la melodia, le parole sono pazzesche. La vera musica è spirito e carne, bianco e nero, meccaniche celesti e un po’ di diavolo”. E in questo vortice di opposti “si pone anche il capolavoro dei Pogues”: da un lato quei ritmi celtici densi di vita e di festa, dall’altro il testo che manda in frantumi le speranze di due giovani immigrati a Manhattan. Da Broadway alla droga, dall’amore al disgusto e ritorno. La voce strascicata di Shane MacGowan, frontman sregolato, e quella angelica di Kirsty MacColl, musa un po’ underground. Insieme formano un duetto memorabile, tormentato dal destino reale dei protagonisti – lui consumato dall’eroina, lei morta nel 2000 in un incidente subacqueo per salvare la vita al figlio. “Gli artisti sono personalità confezionate in altro modo”, spiega Branduardi. “Cercano di entrare nel giardino segreto delle cose da una porta chiusa. Rincorrono visioni. Poi il difficile, una volta al di là, è tornare indietro: tanti non ci riescono e diventano un caso clinico. MacGowan, con tutti i suoi alti e bassi, le sue dipendenze, è senz’altro fra loro. Emarginati di lusso che capiscono la sincerità di una canzone come questa, di un Natale così diverso. Non dico sacro, ma sicuramente non profano”.
È anche per questo che Branduardi ha voluto così tanto Favola di Natale a New York, “una traduzione poetica e letterale, il mio omaggio al folk irlandese e ai Pogues: non li ho mai conosciuti ma so che hanno accettato di buon grado questa proposta, accertandosi che combaciasse all’originale”. Con qualche tocco d’Italia. “Mi sono messo a servizio della canzone tenendo il mio stile. L’ho fatto con il massimo del cuore. E l’abbiamo cantata in maniera delicata”, lui e Fawzia Selama: “Questa è la differenza principale della nostra interpretazione”.
Tutto il resto c’è. Eccome. “È difficile immaginare Branduardi che dice fanculo, frocio, brutta cagna strafatta: temo che il mio pubblico non abbia apprezzato del tutto”. Non sarebbe il solo. Il grande imputato è la terza strofa, quella dei fallimenti rinfacciati, che già nel 2007 Bbc Radio 1 risolse in una sfilza di bip “per non offendere la sensibilità degli ascoltatori”. In origine a tutela delle famiglie – poveri bimbi, tappatevi le orecchie! Ma le stagioni della censura cambiano. E col tempo, più della generale volgarità hanno iniziato ad allarmare due parole specifiche: slut e faggot, grandi tabù del vocabolario anglosassone. “Eppure è questo il linguaggio logico di una coppia di disperati: il pathos è nell’umanità nuda che emerge tra gli improperi. Poi sono sicuro che a MacGowan la canzone è venuta di getto, l’avrà scritta in cinque minuti”, e venuto a sapere della polemica ci ha riso su. “Il pol. corr. ha rotto le palle”, insiste Branduardi. “Edulcorare Fairytale of New York vuol dire togliervi la magia, banalizzarla in una Christmas carol qualunque. È assurdo pensare che questo testo preveda rabbia contro i gay, le donne, i discriminati storici. Perché anzi vi dà voce, è partecipe della loro solitudine. Ma d’altronde, oggi perfino Omero viene accusato di razzismo. Il male sta nell’occhio di chi guarda”.
Fa specie che a questo punto il compositore sfoderi “la mitica Fiera dell’est”, forse il più cult dei suoi successi. “Quando la scrissi, negli anni Settanta, andava molto in voga la canzone politica marxista. Così arrivai a un pezzo violentissimo, profondamente religioso, dove tutti ammazzano tutti e Dio è soltanto uno sterminatore. Chi lo capì per primo furoni i bambini. Mi riconosco nella figura del trovatore, d’accordo. Ma nella mia carriera ho provocato molte volte e spesso la gente non se n’è resa conto. Favola di Natale a New York è una di queste: ai concerti non mi è mai stato chiesto di cantarla. Evidentemente, una provocazione lanciata da uno come me può farla sembrare volgare”.
Terribile malinteso. L’ennesimo. “Leggetela”, esorta Branduardi, “ascoltatela come una canzone dalla morale profonda, che mostra la malinconia delle feste dalla parte degli homeless, degli incompresi, dei diseredati. Il Natale è soprattutto per loro, e come loro era quel personaggio straordinario nato duemila anni fa, vi si creda o no. Inoltre il turpiloquio dei Pogues viene preceduto e seguito da un’immagine bellissima”, la danza sotto la neve dei protagonisti, nonostante tutto, finché c’è vita. “E soprattutto in questo periodo, cos’è il Natale se non speranza?”. Per dirla come MacGowan: I can see a better time / when all our dreams come true. Se domani così non sarà, l’importante è averlo sognato oggi. E al limite ballarci su.