Chi è Tommaso Pignatelli, il poeta nascosto
Storia di “un’eminente figura del Parlamento” e di una rivalsa delle lettere sulla politica
“Oggi, scrivere è la sola maniera di continuare a vivere”.
André Malraux
Fatale, per la scelta tra la letteratura e la politica, fu la lapidaria frase in epigrafe dell’autore francese. Quando gli intraprendenti ragazzi napoletani la selezionarono con altre citazioni per riempire un riquadro nel primo numero della loro rivista, il Partito comunista italiano non gradì affatto. Anzi fece sapere che avrebbero dovuto scegliere tra libera ambizione letteraria e ortodossia marxista. E loro, che consideravano Malraux “l’ideale del poeta armato”, piuttosto che un “traditore” della classe operaia nella guerra di Spagna, ci restarono malissimo. Ma alla fine chiusero la rivista e s’iscrissero al Pci. Si concluse così, con un primo e ultimo numero datato gennaio 1944, la brevissima vita del mensile “Latitudine, contributi alla cultura”. E cominciò la lunghissima carriera politica del futuro undicesimo presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e di Massimo Caprara, direttore di quel giornale e di lì a poco segretario personale, per circa un ventennio, di Palmiro Togliatti.
Ben vestiti, dai modi garbati, figli della buona borghesia napoletana, gli operai del Partito chiamavano quei compagni “i signurini” e Curzio Malaparte, nella sua estrema conversione, se ne appuntò i nomi per un eventuale corso di leninismo nella villa di Capri. Con Napolitano e Caprara, avevano contribuito alla fondazione di “Latitudine” i ragazzi del cosiddetto “gruppo di Chiaia”, compagni di scuola al liceo classico Umberto I che si sarebbero avvicinati al comunismo facendo la gavetta nei giornalini dei Guf, i Gruppi universitari fascisti. Maurizio Barendson, Antonio Ghirelli, Giuseppe Patroni Griffi, Raffaele La Capria, Francesco Rosi. Con Luigi Compagnone, Tommaso Giglio, Renzo Lapiccirella e il poeta “maledetto” Gianni Scognamiglio condivisero vaste e imprecisate ambizioni culturali nella Napoli flagellata dai bombardamenti del ’43. Prima si riunivano nella scenografica casa di La Capria a Palazzo Donn’Anna, edificio di singolare bellezza e leggendaria cupezza per secolari storie di fantasmi, da cui si tuffa a mare Massimo De Luca, autobiografico protagonista del romanzo Ferito a morte. Quindi si radunarono nel più ordinario appartamento di Barendson, ragazzo di sangue olandese tentato all’epoca dal cinema e dalla narrativa ma che un giorno sarebbe diventato volto celebre della domenica calcistica italiana con il programma televisivo “90° minuto”.
Quasi tutte le loro biografie avranno per comun denominatore la partenza da Napoli e la conclusione a Roma, ed è qui che vivono ancora gli unici sopravvissuti di quella generazione: Napolitano, classe 1925, e La Capria, classe 1922, rappresentanti della biforcazione che s’impose ai giovani di “Latitudine” tra l’impegno militante e un’esperienza intellettuale svincolata dal Partito. Eppure, malgrado l’iscrizione al Pci nel novembre 1945, Napolitano non smetterà mai di coltivare i suoi interessi culturali, anche se comprimerà la passione per il teatro che lo aveva affascinato nella prima gioventù. Fu soltanto a metà degli anni Novanta che si diffuse la notizia di una sua produzione poetica, tuttora reputata verace malgrado le smentite del diretto interessato. L’opera, una plaquette di 76 pagine di ormai ardua reperibilità, fu pubblicata a Roma nell’aprile 1995 e in seconda edizione a giugno successivo dalle Edizioni dell’Oleandro. Autore Tommaso Pignatelli e titolo, a prima lettura enigmatico, Pe Cupià ‘o chiarfo. Ossia: “per imitare l’acquazzone”, così tradotto da un idioma napoletano iperletterario, con una varietà lessicale che combina termini secenteschi, novecenteschi o inesistenti ma coniati dall’autore. Le poesie della raccolta, nel loro eccesso di raffinatezza, risulterebbero incomprensibili senza le note finali e il testo a fronte in italiano, che ne rivela una innegabile bellezza.
Sull’identità di Tommaso Pignatelli si aprì un interrogativo che anni dopo, in forma più clamorosa, ha riguardato un altro autore (e/o autrice) napoletano: Elena Ferrante. Tuttavia in quel caso la nota in copertina forniva già un indizio importante, spiegando che si trattava dello “pseudonimo di una delle figure più eminenti del Parlamento italiano”. Che fosse Napolitano, considerando sia la padronanza dell’idioma partenopeo sia certi trascorsi culturali, ne parve convinto, ma senza nominarlo, il critico letterario Arnaldo Colasanti, che ne scrisse sulla rivista “Poesia” nel ’97. E con lui lo ha pensato chiunque si sia occupato di Pe Cupià ‘o chiarfo.
Ma perché si sarebbe celata sotto pseudonimo “l’eminente figura” che assurse più tardi, nel maggio 2006, alla presidenza della Repubblica dopo avere retto quella della Camera e il ministero dell’Interno? Una possibile risposta è sempre in quarta di copertina: “Per ora si nasconde perché, è convinto, che nella nostra cultura il poeta rimane ancora un po’ matto e un po’ svanito, poco adatto quindi, nella considerazione comune, ad occuparsi di politica, nonostante parecchi precedenti che vanno da Senghor a Mao Tse-tung e perfino a Hitler”.
“L’eminente figura”, questo è certo, coinvolse in prima persona nel divertissement letterario il linguista Tullio De Mauro, redattore di una lusinghiera prefazione alla raccolta, il quale assicurava a propria volta di ignorare le fattezze del poeta: “Con l’anonimo autore di questi testi poetici napoletani ho corrisposto attraverso una casella postale della mia città. La diffidenza per l’anonimia è stata subito vinta dalla percezione della qualità dei testi e del loro dialetto”. L’illustre studioso non lesinava lodi e giustificava le innovazioni introdotte dall’autore, accanto ai “preziosi arcaismi”, quali espressione di “un napoletano usato con libertà e naturalezza, senza purismi municipalistici”, elogiando nel Pignatelli un ritmo che “apre la strada alla testimonianza di una rinnovata vitalità del napoletano”. De Mauro forniva forse, a dispetto della dichiarata ignoranza circa l’identità dell’autore, anche un indizio sulla sua vicenda biografica di residente fuori della città d’origine, quando concludeva che “la distanza è una componente originaria della grande lirica italiana nata in questo secolo nei e con i nostri dialetti”. Significativa la data della prefazione: 18 luglio 1992, due anni e nove mesi prima della pubblicazione del libro, che l’autore aveva però tenuto nel cassetto ancora più a lungo. Lo comprova, riportata in quarta di copertina, la lusinghiera nota di un altro peso massimo della cultura: Natalino Sapegno. Considerando che il critico era morto nel ’90, Napolitano/Pignatelli serbò inedito Pe Cupià ‘o chiarfo per più di cinque anni.
Le parole impegnative di Sapegno non sembrano elargite a un esordiente qualunque: “Non si leggeva un poeta così ricco, sanguigno e leggero da moltissimo tempo”. Il paragone è addirittura con i due più insigni esponenti della lirica napoletana: “Dentro la tradizione, ma oltre la linea di Di Giacomo e di Russo, sa prendere gli umori della napoletanità senza farne mercato, ridandogli freschezza e rinnovandone la felicità espressiva fino a rendere la lingua napoletana un alto strumento di poesia”. Poi, chiosava Sapegno, “il fatto che l’Autore sia un politico tra i più agguerriti anziché togliere mordente alla sua liricità gli porge quel tanto di rude e di petroso, come direbbe Dante, da rendere ancora più suggestiva questa poesia che, con certezza, farà molto parlare i critici letterari e perfino i filologi”. Niente di meno.
Per il giovane entusiasta di Paul Eluard, André Gide e Malraux, ma che aveva sacrificato la poesia in favore dell’inflessibile Partito, si trattava senz’altro di una tardiva rivalsa sulla sua stessa scelta, che nemmeno aveva potuto soddisfare con la partecipazione ad altre riviste culturali “impegnate” fiorite nel dopoguerra napoletano: “Delta”, fondata nel 1949 con cadenza mensile poi trimestrale, e “Cronache meridionali” di cui fu direttore con Gerardo Chiaromonte tra gli anni Cinquanta e Sessanta prima di cederne la guida all’autore del romanzo breve Scala a San Potito, Luigi Incoronato, e al critico d’arte e pittore Paolo Ricci, di cui Napolitano fu molto amico.
Pe Cupià ‘o chiarfo, ermetico nella tessitura lessicale e intimista nei sentimenti espressi, avrebbe fatto saltare dalla sedia i dirigenti del Pci napoletano degli anni giovanili di “re Giorgio”, a cominciare dal segretario della federazione cittadina Salvatore Cacciapuoti, Stalin bonsai che dettava persino le buone regole della vita privata a iscritti e funzionari. Quello incensato da De Mauro e Sapegno sarebbe stato giudicato un ozioso esercizio borghese, roba da “signurini” insomma. Ecco per esempio, disteso in prosa, il componimento intitolato “Carulina”: “Carulina spercia sèmpe ‘n pressa nun se vòta manco smiccia ‘a secùta d’uocchie ca va cu essa. Quanno sbut’’o puntòne ‘a pienzo assettata ‘nta nu ciardino, zuffunnata inta canzon’’i n’auciello appercantatore. Na vota o l’ata l’aggio addimannà si ‘a vèstia ‘a tene ‘nta caiòla. Aggia fa’, l’aggia fa’, spero nun piglia ‘o musso e doppo mo fa’ pavà.” L’autore la traduce così: “Carolina passa sempre in fretta non si gira neppure sbircia il seguito d’occhi che l’accompagna. Quando svolta l’angolo la penso seduta in un giardino, perduta nel canto d’un uccello ammaliatore. Una volta o l’altra le chiederò se la bestiola è tenuta nella gabbia. Devo farlo, lo devo fare, spero non prenda il broncio e poi me lo fa pagare”. Come che sia, Pignatelli è entrato quale esponente maggiore tra i neodialettali nel canone della poesia napoletana, con ben dieci componimenti inclusi nell’antologia The Bread and the Rose pubblicata in America.
Fu l’entusiasmo borghese di chi scopriva nuovi autori stranieri ma credeva nel contributo collettivo della cultura militante, rischiando di sacrificare quelli in nome di questa, il tratto distintivo dei “ragazzi di Chiaia”. E fu ribadito anche quando si riunirono a Monte di Dio per dar vita alla rivista “Sud” diretta da Pasquale Prunas, figlio del comandante della Scuola militare Nunziatella. L’esperimento riuscì meno effimero di “Latitudine” (durò sette numeri), ma fallì ugualmente per mancanza di soldi, di lettori e per il rifiuto di ricevere finanziamenti dal Pci, che ne avrebbe limitato l’indipendenza. Non avevano torto, se a fronte del “diritto alla disperazione” reclamato da Tommaso Giglio, sulla stessa rivista il comunista ortodosso Alberto Jacoviello lo negava a un vero intellettuale progressista meridionale, affermando – ricorda La Capria – “che quando lui si sentiva ‘negativo’ andava a trovare un amico operaio che lo chiamava ‘compagno’ e bastava questa parola a rinfrancarlo”. Speranze e delusioni di questi ragazzi furono vivisezionate en plein air dall’ex sodale Anna Maria Ortese ne Il silenzio della ragione. Con un’efficacia che la crudeltà mentale, più dell’amore, nella letteratura favorisce.
Molti anni dopo, non avendo forse mai smesso di pensare a ciò che avrebbe anche potuto essere e non era stato, “l’eminente figura” con un’esile densa plaquette ritrovava lo spazio rifiutato alla poesia in nome dell’ideologia, riconfermava con la lingua un’identità culturale che la distanza geografica col tempo tende a mortificare, e si esponeva alla prova letteraria non usando il suo nome, ché l’avrebbe falsata, ma prendendo quello di Tommaso Pignatelli di cui la storia ne tramanda uno solo: il giovane, minuto frate calabrese seguace di Tommaso Campanella, che con l’accusa di avere macchinato una rivolta antispagnola fu strozzato in cella al Maschio angioino nel 1634. Adesso non aveva più vergogna, il politico maturo e ormai “post comunista”, di sentirsi un borghese: “Con Giorgio Napolitano, sempre che sia lui Tommaso Pignatelli, siamo in effetti ai piani più alti della società, prima ancora che della politica napoletana: in un ambiente, quello della borghesia, che ancor oggi, troppo spesso, viene additato come il maggior responsabile di qualsiasi nefandezza cittadina, e che invece per lungo tempo, sostengo io, ha dimostrato di essere all’altezza della propria ‘missione’”. Così scrisse Francesco Durante, rendendo omaggio a una generazione quasi estinta, dei La Capria e dei Napolitano, “che parlava il tedesco o il francese, e che aveva così ben esercitato l’arte della memoria da mandare a mente l’intera Ape latina: destra o sinistra non faceva differenza, tutti sapevano citare Orazio, e non a sproposito”.
Qualcuno tra loro non cessò di credere, anche se lo dissimulava, che “oggi, scrivere è la sola maniera di continuare a vivere”.