il foglio del weekend
Libri antivirali. Così la lettura è diventata legittima difesa
Un atto solitario, che richiede sforzo e concentrazione, e aiuta a combattere l’angoscia. Soprattutto di questi tempi
Nel celebre incipit del romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore, Italo Calvino si rivolge al suo immaginario lettore mettendo subito le carte in tavola: “Stai per cominciare a leggere […]. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo che ti circonda sfumi nell’indistinto. Prendi la posizione più comoda: seduto, sdraiato, raggomitolato, coricato. Coricato sulla schiena, su un fianco, sulla pancia. In poltrona, sul divano, sulla sedia a dondolo, sulla sedia a sdraio, sul pouf. […] Bene, cosa aspetti?”.
Secondo l’autore della memorabile trilogia di favole araldiche, la lettura è dunque un atto solitario, il più solitario di tutti, e ubbidisce a leggi precise: richiede concentrazione e una specifica fatica. Inoltre, il suo tempo deve essere integralmente libero, così come libera deve essere la scelta di raccontare quelle che si giudicano più meritevoli. Per essere chiari, chi scrive – pur non avendo mai avuto quella specie di ossessione che si chiama bibliomania – si riferisce al caro e vecchio libro cartaceo, quello che Abū Hayyān al-Jāhiz, un sapiente arabo del IX secolo, considerava “un amico che non va a dormire se non prima che tu stesso sia caduto nel sonno”.
In un’èra contrassegnata da incessanti innovazioni tecnologiche, vale la pena precisarlo. Ricordo soltanto alcune date. La forma-libro che resiste ancora oggi vede la luce intorno al terzo secolo d.C., quando il codice di pergamena soppianta definitivamente il rotolo di papiro. Verso il 1450 comincia la straordinaria avventura della stampa a caratteri mobili. Le moderne rivoluzioni nei mezzi di comunicazione scattano invece negli ultimi decenni del Novecento: la parola internet appare nel 1974; il web nasce nel 1991 nei laboratori del Cern; nel 1998 Larry Page e Sergey Brin fondano Google. Nello stesso anno Kim Blagg inizia la vendita di testi digitali via Amazon. E, quando l’ebook si affaccia sul mercato multimediale, subito viene pronosticata la crisi irreversibile del libro nelle forme tradizionali finora conosciute.
E’ assai probabile che sia questo il loro destino ineluttabile. Tuttavia, da vecchio impenitente quale sono, ho giurato eterna fedeltà a un oggetto che per me non potrà mai essere sostituito da alcun aggeggio elettronico. Come osservava Norberto Bobbio in un testo (De Senectute) che può essere considerato una specie di testamento morale e intellettuale, il vecchio imperturbabile di una certa tradizione retorica e il vecchio disperato per l’avvicinarsi della morte sono due atteggiamenti estremi. Tra questi due estremi vi sono molti altri modi di vivere la condizione senile: l’accettazione passiva, la rassegnazione, l’indifferenza, l’ostinazione di chi rifiuta di ammettere il proprio declino fisico e si camuffa con la maschera dell’eterna giovinezza; oppure il distacco dagli affanni quotidiani e il raccoglimento nella riflessione e nella solitudine della lettura.
E che sia Una meravigliosa solitudine lo spiega magistralmente, in un saggio con questo titolo, Lina Bolzoni (Einaudi, 2019). E’ un viaggio, dotto e avvincente, attraverso i riti della lettura celebrati da insigni umanisti e letterati del Rinascimento. Una galleria dei grandi del passato, da Petrarca a Boccaccio a Machiavelli, da Montaigne a Erasmo da Rotterdam. In essa però, come lamenta con franchezza la storica della Letteratura italiana, mancano figure femminili. Del resto, la storia degli uomini narra di una atavica diffidenza nei confronti delle donne e, in particolare, del loro accesso alla cultura. Basti pensare che ancora all’inizio dell’Ottocento circolava un “Progetto di legge per vietare alle donne di imparare a leggere”.
Presentato in Francia nei primi mesi del 1801, è una specie di repertorio dei pericoli che la lettura rappresentava per gli “angeli del focolare”. Un testo grottesco, e tuttavia fedele interprete del senso comune dell’epoca. Dopo un’ampia casistica dei danni prodotti, nella vita pubblica e domestica, dalle donne che sanno leggere, seguono gli articoli della legge, fra cui ne spicca uno che recita: “La Ragione vuole che i mariti siano gli unici libri delle loro mogli, libri viventi, ove giorno e notte esse imparino a leggere il proprio destino”. Paradossalmente, l’estensore della proposta, Sylvain Maréchal, aveva contribuito, con Babeuf, Buonarroti e Darthé, alla redazione del “Manifesto degli uguali” (1796) in cui si proclamava la necessità di una radicale uguaglianza sociale. Ma evidentemente le donne non avevano ancora diritto di farne parte.
Di avviso completamente diverso era invece uno dei protagonisti dell’Inghilterra vittoriana. Il 6 dicembre 1864 John Ruskin, un esteta affascinato dai preraffaelliti inglesi e disgustato dalle miserie della società industriale, tiene una conferenza alla Rusholme Town Hall, presso Manchester. Di fronte ai genitori che gli chiedono quale educazione sia più utile dare ai figli, egli rivendica il valore autonomo dell’istruzione. Perché solo l’istruzione realizza uno spazio utopico di eguaglianza, dove le gerarchie sociali si possono invertire. Nasce da qui l’appello a una politica che sostituisca le armi con i libri. Una settimana dopo, sempre a Manchester, Ruskin tiene una seconda conferenza. Al centro c’è proprio il ruolo della donna e l’idea che, grazie alla lettura, essa può conquistare un “potere regale”.
Il critico d’arte britannico aveva un ammiratore e un traduttore d’eccezione, Marcel Proust. Nel 1900, alla morte di Ruskin, gli dedica due necrologi; tra il 1904 e il 1906 traduce i due discorsi manchesteriani. Nell’introduzione al primo (Sesamo. I tesori del re), respinge la concezione utilitaristica e pedagogica, lì teorizzata, della lettura come dialogo con libri-amici. Infatti, questa concezione è per lui in conflitto con “quel meraviglioso miracolo della lettura che è la comunicazione nel cuore della solitudine”.
Ciononostante, dopo aver criticato il paragone fra il libro e l’amico, Proust lo riprende e lo sviluppa a modo suo: “Probabilmente l’amicizia, l’amicizia verso gli individui, è cosa frivola; e la lettura è una forma di amicizia. Ma almeno è un’amicizia sincera, e il fatto che si rivolga a un morto, a un assente, le dà qualcosa di disinteressato, quasi di toccante […]. Nella lettura, l’amicizia è subito riportata alla sua primitiva purezza. Verso i libri, nessuna cortesia. Con questo genere di amici, se passiamo la serata insieme, è perché ne abbiamo davvero voglia. Sul serio, il più delle volte, li lasciamo solo a malincuore […]. Tutte le inquietudini dell’amicizia vengono meno sulla soglia di quell’amicizia pura e serena che è la lettura”.
Il tema cruciale del silenzio viene quindi riproposto in una originale versione del rapporto con il libro-amico, che deve garantire il massimo di trasparenza e di libertà: “L’atmosfera di questa pura amicizia è il silenzio, più puro della parola. Infatti si parla per gli altri, ma si tace con se stessi. Inoltre nel silenzio non c’è traccia, come nella parola, dei nostri difetti, delle nostre moine […]. Lo stesso linguaggio del libro è puro (se il libro merita questo nome), reso trasparente dal pensiero dell’autore che l’ha emendato da tutto ciò che non coincideva con esso, fino a farne la sua immagine fedele”. Secondo Proust, quindi, il libro è una specie di “specchio dell’anima”; e la lettura è un’esperienza del tutto intima e personale, un cammino in cui, incontrando l’altro, si riconosce e si modifica il proprio io. Un percorso ai limiti del tempo e dello spazio, là dove si delineano infiniti mondi virtuali e la realtà si apre all’orizzonte del possibile.
Certo, non è facile seguire questo percorso quando una devastante pandemia non solo altera profondamente stili di vita e di consumo, ma intacca le basi stesse di quella “socievolezza” che tiene insieme una comunità di cittadini. Ne deriva uno stato di fibrillazione permanente che può degenerare nell’angoscia. E, fra le emozioni costitutive della condizione umana, l’angoscia è tra le più predisposte a vertiginose metamorfosi. In verità, di solito ansia e angoscia vengono usate come sinonimi, anche se la seconda ha indubbiamente un’espressività molto più alta.
L’angoscia e l’ansia, dunque, non si distinguono fra loro se non per la diversa intensità semantica. Entrambe designano una sottile inquietudine o, meglio, un profondo tormento interiore, legato a un’idea di sventura imminente e a un senso di estraneità alienante. Sono esperienze emotive improvvise e laceranti, che possono manifestarsi attraverso un malessere fisico e psichico in grado di annientare, in talune circostanze, la volontà dell’individuo. La paura, al contrario, denota uno stato d’animo che nasce da una situazione di rischio reale, in contesti ambientali in cui le cause del pericolo sono chiaramente determinate e percepite. Se attraversiamo la strada, guardiamo a destra e sinistra perché temiamo di essere investiti. La paura è pertanto un ottimo meccanismo di difesa: come insegnano le vecchie guide alpine, la paura -suggerendo prudenza e circospezione- spesso ci salva dalle valanghe.
Al tema dell’angoscia hanno dedicato pagine cruciali Sigmund Freud e Martin Heiddeger. In Freud è la madre di ogni sintomo nevrotico, che si attiva in virtù di un conflitto più o meno cosciente tra l’Io e la società (Inibizione, sintomo e angoscia, 1925). Dal canto suo, in Essere e tempo (1927) Heiddeger sostiene che l’angoscia è anche confronto perenne con l’incombenza della morte, la cui presenza ciascuno di noi tende a rimuovere costantemente. Essa però riemerge inesorabile, tagliente e irrevocabile, proprio quando siamo immersi nel tumulto e nell’abisso dell’angoscia. Quando essa si agita in noi, il mondo si trasforma facendosi ostile e ambiguo, divenendo talora irraggiungibile, enigmatico e inconoscibile.
Poco più di ottant’anni prima, Soren Kierkegaard aveva sviluppato riflessioni non meno memorabili. In suo celebre testo, Il concetto dell’angoscia (1844), il pensatore danese scrive: “E nessun grande inquisitore tien pronte torture così terribili come l’angoscia; nessuna spia sa attaccare con tanta astuzia la persona sospetta, proprio nel momento in cui è più debole, né sa preparare così bene i lacci per accalappiarla come sa l’angoscia; nessun giudice, per sottile che sia, sa esaminare così a fondo l’angoscia che non se lo lascia mai sfuggire, né nel divertimento, né nel chiasso, né sotto il lavoro, né di giorno, né di notte” (“Opere”, Sansoni, 1972).
Eppure, come spesso accade, forse è stato un poeta, Charles Baudelaire, colui che è riuscito a descrivere, con più efficacia di un trattato di psichiatria e filosofia, la realtà psicologica e umana dell’angoscia. “Spleen” è una locuzione inglese che designava la milza; successivamente assunse il significato di “malinconia” o “tedio esistenziale”, sulla base delle antiche teorie mediche che situavano proprio nella bile secreta dalla milza l’origine della sindrome depressiva. Non fortuitamente Baudelaire ha intitolato proprio “Spleen” uno dei gioielli della raccolta lirica Les Fleurs du mal (1857), in cui simbolismo e crudo realismo si mescolano in versi stilisticamente sublimi, che esprimono con straordinaria modernità l’angoscia paralizzante e il panico per l’inevitabile tragicità della nostra esistenza.
Nel caso del virus, tuttavia, ci troviamo di fronte a un nemico minaccioso quanto invisibile, che può colpirci quando meno ce lo aspettiamo. E, ove questo nemico non venga sconfitto senza resa, l’angoscia può tracimare nella collera. E la collera, si sa, il più delle volte è una reazione ad aspettative deluse carica di energia scomposta e di aggressività che annebbiano l’intelletto. Fin dall’antichità esiste però un farmaco efficace contro l’ansia o, meglio, contro il tumulto delle passioni che ci assale e rischia di travolgerci nelle ore più buie della nostra esistenza. Non è certamente l’unico e non garantisce prodigiose guarigioni (come del resto il vaccino) ma, diversamente dagli antidepressivi, non causa danni collaterali: è la lettura, appunto, di un buon libro.