Facce dispari
Silvia Stucchi, Si Latinae linguae studueris numquam errabis… forsitan
L'autrice e docente universitaria racconta il ruolo chiave del latino nella formazione individuale e nella comprensione della realtà. Un patrimonio culturale spesso messo in secondo piano a discapito degli studi scientifici
Se gli aruspici fossero interpellati, invece che surrogati da superstizioni contemporanee, subito svelerebbero la piega giusta di certi destini. Parlano a volte tuttavia spontaneamente, persino attraverso i genitori. Per esempio una quadrata coppia della provincia bergamasca che sgomenta restò quando la figlia, appassionata di fumetti, chiese di fare il liceo artistico per disegnarli. Già se la videro borchiata, pinzata, con cresta porpora o blu, insomma perduta. Sicché la convinsero, di riffa o di raffa, a scegliere il liceo classico. Cominciò così il cursus per Silvia Stucchi, docente di Lingua e Letteratura Latina all’Università Cattolica, propagandista convinta dell’idioma e dei costumi dei Padri (tra i suoi libri ‘Come il latino ci salva la vita’ e poi, sempre per Edizioni Ares, "A cena con Nerone. Viaggio nella cucina dell’antica Roma").
Ma ha imparato a disegnare?
Macché. Non era cosa mia. Piuttosto, quando incontrai al ginnasio il latino e il greco pensai: che bellezza. Poi m’iscrissi all’università, ovviamente Lettere classiche: gli esami nemmeno mi sembravano esami, ma occasioni per leggere testi bellissimi.
Non è una folla a pensarla così.
Capisco, ma riflettiamo: etimologia, grammatica, costruzione delle frasi, le regole specifiche che sono il sale della lingua latina sprigionano un’attenzione per il testo che spesso manca a chi studia autori moderni, perché si concentra sulla mole di dati biografici di cui è in possesso. Invece di Virgilio, Lucrezio, Petronio sappiamo così poco che dobbiamo interpellarli quasi solo attraverso i loro scritti. Con la filologia.
Il dibattito sulla biografia e sull’opera è eternamente aperto.
Finché non si arriva alla pretesa di studiare persino la filosofia alla luce della biografia. La lezione delle lettere classiche è questa: capire senza sovracostruzioni ingombranti e tutto sommato antiscientifiche.
Quale autore la intriga di più?
Petronio Arbitro. Il ‘Satyricon’ è opera sfuggente, indefinibile: romanzo? Satira menippea? Un frammento certamente sì. Se va bene, ce n’è restato un ottavo. Poi mi appassionano Seneca e Lucrezio, del quale si sa quasi nulla ed è ancor più affascinante quando senti che tra il suo modo di guardare la realtà e il tuo si sviluppa una consonanza, perché a forza di frequentare un autore la sua lente comincia a diventare tua. Mi piace pensare a una reciprocità al di là del tempo.
Perché il latino viene visto come materia ostica?
Prima di tutto per un pregiudizio del tipo: ‘Vuoi mettere gli studi scientifici? Sono ben più utili!’. Finanche gli studenti di Lettere moderne spesso lasciano per ultimo l’esame di latino, e quelli di liceo restano sedotti più dal greco. Si capisce: il latino è una lingua più normativa, implica intuizione logica, memorizzazione di regole, la consecutio. Richiede, e perciò è utile anche a chi segue studi scientifici, le caratteristiche del problem solving. Per tradurre una versione serve lo stesso metodo di approccio a un problema matematico.
Cosa lascia, il latino, alla lingua di chi lo ha studiato?
Più che il periodare, il lessico rivela quanto una persona abbia frequentato il latino. Oggi il nostro lessico è sempre più povero.
La globalizzazione incide sull’alimentazione. Fu così nella cucina romana?
Il parametro non può essere la cena di Trimalcione con quei piatti fantasiosi e pacchiani, come non è un parametro dell’Ottocento il pranzo di nozze di Madame Bovary, ma il medium per raccontare un’altra cosa. L’alimentazione romana che emerge dai ricettari rispecchia un mondo molto diverso: non conoscevano le patate, i pomodori, tante varietà di frutta, usavano poco burro perché prevaleva l’allevamento ovino. Ovviamente niente tè, caffè, cioccolata… Avevano il gusto dell’agrodolce e l’abbondanza di spezie che sopperiva alla difficoltà di conservare le carni, che erano di tanti tipi oggi neppure considerati: Apicio cita ghiri, pappagalli, lingue di fenicottero, tra i pesci le murene. Un banchetto doveva essere connotato dall’abbondanza, mentre noi al tempo degli chef stellati lasciamo la quantità alle trattorie privilegiando l’eleganza dell’impiattamento e preferendo titillare le papille gustative.
Ma la dieta ordinaria in cosa consisteva?
Base di cereali, farro, formaggi, pane nero, olive, uova, cipolle. Verdure, soprattutto cavolo e lattuga, di rado carne o pesce. Per i dolci, i ricettari propongono torte simili ai cheesecake e in Catone c’è la descrizione degli attuali struffoli. Possiamo aggiungere la melca, una specie di yogurt, il latte fritto, la frutta secca.
Suggerisce agli adulti lo studio del latino?
Studiare latino da adulti è bello perché assecondi il tuo ritmo. Mentre oggi la medicina ci dice che la terapia genica è la chiave per la risoluzione di tantissime patologie, paradossalmente non vogliamo sapere niente del nostro dna storico. Ma per un italiano come si fa, se persino il paesaggio ti parla della civiltà latina? Se quando sorvoli la pianura padana vedi i segni della centuriazione? Senza contare la tradizione della Chiesa. E ancora: come spiegare un quadro di Poussin che reca la scritta ‘Et in Arcadia ego’, o il ciclo di Amore e Psiche, i frontespizi dei libri antichi, il motto di Casa Savoia e tutto il resto, senza conoscere il latino? Vivere senza latino mi sembra più difficile che impararlo.