A cento anni dalla loro nascita
C'era un altro Pasolini oltre la manica era il poeta Philip Larkin
Uno amava Gramsci, l’altro la Thatcher; uno diffidava della civiltà occidentale, l’altro se ne disinteressava. L’ambiguità del poeta inglese che amava il jazz, e oggi è il più instagrammato di tutti
Nel 2022 cade il centenario della nascita di… Pasolini, si sa. Anche. Ma qualche mese più tardi, precisamente il 9 agosto, fanno anche cent’anni dalla nascita di Philip Larkin, il più amato e secondo molti il più grande poeta in lingua inglese del secondo Novecento (amato vuol dire anche familiare, se non proprio alle masse, al lettore comune, quest’araba fenice: lui, Larkin, una volta disse che gli sarebbe piaciuto se delle sue poesie un giorno si fosse parlato nei pub. Chissà se oggi se ne parla. Ma giorni fa sull’Evening Standard, che è abbastanza un quotidiano da pub, l’articolo dedicato all’ultima puntata di Succession cominciava così: “Il tema centrale di Succession è la tossicità delle relazioni familiari, e il penultimo episodio della terza stagione è stato in sostanza una poesia di Philip Larkin in movimento”).
Ognuno dovrà decidere su quale delle due tombe, Pasolini o Larkin, deporre il suo mazzo di fiori, e per facilitare la decisione ecco qui in forma tabellare una serie di coppie oppositive o quasi oppositive che provano a descrivere i caratteri, le traiettorie di vita:
Progressista in politica, conservatore nei costumi (PPP) vs. Conservatore in politica, conservatore nei costumi (PhL).
Perennemente in pubblico, sui giornali, in televisione, al cinema, persino con le poesie (PPP) vs. Alieno dall’impegno pubblico, dall’apparire, dallo spendere il suo nome o il suo ruolo di intellettuale per parlare di qualcosa di diverso rispetto alle due cose di cui era competente, la letteratura e il jazz, anzi una piccola porzione della letteratura e del jazz (PhL).
Tendenza a sperimentare, contaminare, esplorare forme e generi diversi (PPP) vs. Quieto ossequio della tradizione letteraria, nessuna tentazione sperimentale, pochissima comprensione per chi sperimenta, come Pound, Picasso, Charlie Parker (PhL).
Devozione per Antonio Gramsci (PPP) vs. Devozione per Margaret Thatcher (PhL).
Amore per il popolo, soprattutto per il sottoproletariato (PPP) vs. Insofferenza nei confronti di più o meno tutti, in particolare dei diversi da lui, ma un certo amore, sì, per il popolo, non però il sottoproletariato delle borgate ma la working class sobria e operosa, un popolo contemplato da lontano, per esempio in una vecchia fotografia (come nella splendida MCMXIV), o in una festa o una fiera; Show Saturday: “E ora via, tutti quanti, alle loro vite provinciali: / ai nomi sui furgoni, ai calendari cogli appuntamenti / appesi in cucina; di nuovo ai raduni rumorosi / alla borsa del grano, ai giorni di mercato nei bar, / all’inverno che arriva, mentre la fiera smantellata / muore a sua volta nell’area di lavoro” (PhL).
Diffidenza per i prodotti materiali e immateriali della civiltà occidentale, nostalgia per la pre-civiltà, la vita naturale, amore per i bambini ancora intatti, non traviati dall’educazione (PPP) vs. Disinteresse per tutto ciò che non è occidente, anzi quasi per tutto ciò che non è britannico; diffidenza nei confronti della natura e dei comportamenti non corretti dall’educazione, quindi anche dei bambini: “Più vicino sei alla nascita, peggio sei” (PhL).
Tendenza a incolpare certi particolari esseri umani – i capitalisti e i loro emissari, i politici conservatori, gli insegnanti – per l’infelicità degli altri esseri umani (PPP) vs. Tendenza ad accettare stoicamente, senza lamenti e senza strepiti, i mali della vita, un po’ come Leopardi, ma in modo più asciutto, con più ironia e autoironia, una virtù della quale il suo coetaneo PPP era naturalmente del tutto privo (PhL).
Omosessuale, famelico in campo sessuale (PPP) vs. Eterosessuale, non particolarmente interessato al commercio carnale, semmai più propenso alla masturbazione.
Viaggi in quantità, specie in paesi poveri e arretrati, alla ricerca tra l’altro di una semplicità di vita, di una purezza che l’Occidente ha perduto (PPP) vs. Strenua volontà di starsene a casa. In un’intervista: “Non mi dispiacerebbe vedere la Cina, purché potessi tornare indietro lo stesso giorno”. In una lettera a Winifred Arnott: “Ho un insensato pregiudizio contro la gente che va all’estero IN QUALSIASI PERIODO DELL’ANNO, ma IN PARTICOLARE a Pasqua e Natale” (PhL).
Scrivere e pubblicare moltissimo (PPP) vs. Scrivere abbastanza, non molto, e correggere in continuazione, e pubblicare poco (PhL).
Dentro questa coazione a scrivere, la coazione a dire agli altri come va vissuta la vita, e quindi una iperproduzione di saggi “sulla politica e la società”, e anche di saggi letterari in cui alla fine i libri sono lo spunto, il pretesto per parlare soprattutto di politica e società (PPP) vs. Niente di tutto questo (PhL).
Non è rincuorante il fatto che a distanza di pochi mesi, in due remote province dell’Europa, siano nati due grandi scrittori così diversi in tutto? Dunque, ripensandoci: fiori a tutti e due. Ma dovendo scegliere, o dovendo darsi delle priorità, dato che nel 2022 di Pasolini si parlerà anche troppo, prima a Larkin. E distinguiamo l’uomo e l’opera.
Quanto all’uomo (nato a Coventry, centro-nord dell’Inghilterra industriale, 1922 – morto a Hull, cittadina costiera dello Yorkshire, 1985: qui per trent’anni lavorò come bibliotecario nella locale università), ecco pochi detti memorabili dai quali non è difficile dedurre una visione del mondo e una condotta di vita: “Oh, io adoro Margaret Thatcher. Finalmente la politica mi sembra una cosa sensata!”. “La privazione è per me ciò che i narcisi erano per Wordsworth”. “Creature orrende, i bambini, non trova? Egoisti, rumorosi, piccoli bruti crudeli”. “Odiavo tutti, quand’ero bambino, o così pensavo. Poi, crescendo, ho capito che odiavo soltanto i bambini”. “Davvero, credo sia un grave difetto della vita che tanto tempo venga sprecato in rapporti sociali, perché non solo è tempo sottratto alle tue faccende private, ma t’impedisce anche di accumulare l’energia psichica necessaria a creare arte o qualsiasi altra cosa”. “Trovo l’idea di stare sempre insieme a qualcuno piuttosto oppressiva; la vita per me è più una questione di solitudine ravvivata dalla compagnia che una questione di compagnia ravvivata dalla solitudine”.
Ma soprattutto, soprattutto: “Ho festeggiato il Capodanno ordinando un nuovo fornello a gas e un nuovo scendiletto […]. Il fornello non è ancora arrivato (lo voglio bianco, non crema, e questo mette un po’ in crisi l’azienda del gas), e nemmeno lo scendiletto, che ha un motivo nitido ma riposante di foglie verdi. Il lampo di entusiasmo che mi ha spinto ad acquistarli è già quasi svanito” (Lettera a Barbara Pym).
Quanto all’opera, due romanzi scritti attorno ai venticinque anni, Jill e Una ragazza in inverno, e due romanzi “rosa” tradotti qualche anno fa da Nottetempo (oggi sarebbe chick lit, ma scritta da un maschio, quindi indiziata di appropriazione); un certo numero di saggi per lo più brevi sulla letteratura e sull’altro suo grande amore, il jazz (negli anni Sessanta ha tenuto mensilmente una rubrica di jazz sul Daily Telegraph, con minuziose recensioni di nuovi e vecchi dischi: “Posso stare una settimana senza poesia ma neanche un giorno senza jazz”); ma soprattutto quattro raccolte di poesie, raccolte brevi, di poche decine di poesie ciascuna. Non eccezionale la prima (La nave del nord), molto bella la seconda (Quella che s’ingannò di meno), supreme la terza e la quarta (Le nozze di Pentecoste e Finestre alte).
La poesia più famosa di Larkin è forse quella che comincia molto spiritosamente col verso “They fuck you up, your mum and dad” (‘Ti fottono, il papà e la mamma’) e si chiude molto amaramente col verso “And don’t have any kids yourself” (‘E non mettere al mondo bambini’): queste sedici sillabe bastano in effetti a dare un’idea non falsa circa l’opinione che Larkin aveva dell’esistenza. Più famosa non vuol dire però più bella, e neppure più rappresentativa. Una delle caratteristiche che rendono particolarmente interessanti le sue poesie è la loro ambiguità. Non nel senso che siano difficili da capire verbalmente, come tanta altra poesia novecentesca: il Larkin maturo non ama gli artifici del simbolismo, fa raro uso dell’analogia, racconta più che evocare. Le sue poesie migliori sono ambigue perché non è mai veramente possibile definire il sentimento che le ispira, o l’idea che vogliono far nascere nella mente del lettore. Si leggono e alla fine ci si domanda: come la pensa, veramente, l’uomo che le ha scritte? Per esempio: Le nozze di Pentecoste racconta un viaggio in treno in compagnia di un certo numero di sposini in viaggio di nozze: la splendida immagine finale, “uno sciame di frecce / che da qualche parte diventava pioggia”, esprime un’idea di fecondità o allude a un pianto? Oppure: Finestre alte finisce con la visione della luce che filtra da una finestra: “il vetro che ritaglia il sole, / e oltre il vetro, l’aria blu, che non mostra / nulla, e non è in nessun posto, e non ha fine”: questo cielo infinito è contemplato con angoscia o con sollievo? Oppure: Gli alberi è certamente un canto di gioia per il ritorno della primavera; però a un certo punto si dice che “their greenness is a kind of grief”, cioè che lo schiudersi delle foglie è una specie di lutto... Oppure: i cavalli da corsa ora messi a riposo che Larkin descrive in At Grass invecchiano sereni oppure sono ossessionati dal ricordo della loro arrembante gioventù? E’ come se fuori dall’Eden, cioè qui sulla terra, ogni cosa bella fosse minata da un cancro; ma anche come se il velo del penoso tran tran quotidiano potesse squarciarsi, di tanto in tanto, e lasciar intravedere una promessa, se non di gioia, di serenità. Con qualche distinguo, si possono forse applicare a Larkin le parole che Jean-François Revel ha scritto una volta a proposito di Proust: “Là dov’egli è scettico, non lo è per insensibilità o perché neghi l’esistenza di un bisogno che è impossibile soddisfare; ma là dov’egli prova il bisogno di una gioia assoluta, non ne trae la conclusione che l’oggetto di questa gioia deve necessariamente esistere, sotto l’una o sotto l’altra forma, per compiacere a noi. Accade che l’uomo sia torturato dal desiderio di oggetti che non esistono: le cose stanno così, tutto qui”.
A giudicare dalla frequenza con cui lo si trova citato nei post su Facebook e su Instagram, e dall’enfasi con cui lo si cita, il verso più famoso di Larkin dopo “They fuck you up, your mum and dad” è probabilmente “What will survive of us is love”, che conclude una poesia intitolata An Arundel Tomb (“Una tomba ad Arundel”), ultima della raccolta Le nozze di Pentecoste, cosicché è come se l’intero libro si chiudesse su questa – per Larkin – anomala dichiarazione di fiducia in una sorta di ordine terreno-celeste: “ciò che sopravviverà di noi è l’amore”. Ma è davvero così? Ecco un bell’esempio di ambiguità larkiniana su cui vale la pena di soffermarsi – bello perché esemplare del suo modo di scrivere e perché si tratta di una delle sue poesie più riuscite.
Antefatto. Nel gennaio del 1956 Larkin andò in gita nella regione del West Sussex, sud-ovest dell’Inghilterra, insieme alla sua compagna Monica Jones. Nella cattedrale della deliziosa (davvero) cittadina di Chichester, a un passo dal canale della Manica, si trova il monumento funebre dedicato al conte e alla contessa di Arundel, Riccardo III di Fitzalan ed Eleonora di Lancaster, sua seconda moglie. Eleonora morì nel 1372, Riccardo nel 1376. I due corpi sono raffigurati uno accanto all’altro supini, con la mano destra di lei appoggiata nella mano destra di lui, che la stringe delicatamente col pollice. Ai piedi del monumento, gli stemmi nobiliari. Anni dopo, in un’intervista, Larkin si rammaricherà del fatto che proprio il dettaglio più commovente dell’opera – la mano del conte che accoglie la mano della contessa – era l’invenzione di un restauratore ottocentesco, Edward Richardson: “Comunque, le mani erano un’addizione ottocentesca, per niente pre-barocca”. Ma in realtà, per fortuna, è probabile che non sia così: la posizione dei corpi, la donna lievemente protesa verso l’uomo, non sembra lasciare dubbi; e del resto non mancano esempi di monumenti funebri atteggiati allo stesso modo. Non lontano dalla sua casa di Coventry, dov’era nato e dove visse fino ai diciott’anni, Larkin – che era un alacre esploratore di chiese – poté forse vedere una scultura gemella di quella di Riccardo ed Eleonora: nella collegiata di Saint Mary a Warwick un artista contemporaneo al maestro di Arundel scolpì il monumento funebre di Thomas de Beauchamp, conte di Warwick, e della consorte Katherine Mortimer: e anche loro si tengono per mano.
Una tomba ad Arundel parla dell’amore e del passaggio del tempo; e anche – ma questo lo si capisce a una seconda lettura – del potere mistificante dell’arte. Lo scultore ha ritratto i due coniugi l’uno accanto all’altro, nei loro abiti più formali: lei è coperta da una lunga veste, lui da un’armatura. Ai loro piedi non – come scrive Larkin nella poesia – due cagnolini ma un cagnolino simbolo di fedeltà (per lei) e un leone simbolo di coraggio (per lui). Stacco. La terza, la quarta e la quinta strofa registrano il passare degli anni, dei secoli. A visitare la tomba dei conti di Arundel sono arrivati prima i fedeli, poi i turisti. Sfiorati da tante mani, i volti dei due coniugi si sono consumati, i lineamenti si sono fusi nella pietra. Ed eccoci ai giorni nostri. I loro abiti sontuosi sono passati di moda, sono addirittura incomprensibili in quest’epoca, scrive Larkin, “senza armature”. In questo lentissimo terremoto è però rimasto intatto il dettaglio più toccante: le mani strette una nell’altra. E quindi? “Ciò che sopravviverà di noi è l’amore?”. E’ questo il messaggio che corre nei post su Facebook e su Instagram. Cadono gli imperi, si succedono le generazioni, il potere e la gloria evaporano, e di donne e uomini un tempo ricchi e potenti non si riesce più nemmeno a indovinare la fisionomia; ma l’amore rimane.
Bello: ma non è veramente questa l’opinione di Larkin. In realtà, riflette il poeta, quella che vediamo è chiaramente una messinscena. I due avevano deciso, o più probabilmente il conte aveva deciso che lo scultore avrebbe dovuto raffigurarli sdraiati in quella posizione, una mano romanticamente stretta nella mano dell’altro, per dare allo spettatore il senso di una granitica fedeltà. Ma perché il soggetto commissionato all’artista dovrebbe avere un qualche rapporto con la verità? Lo abbiamo visto: le mani intrecciate sono un topos della scultura funeraria (dicono gli studiosi: un topos diffuso nell’attuale Regno Unito dalla metà del Trecento alla metà del Quattrocento): perché dovremmo credere, perché dovremmo addirittura commuoverci davanti a quella che è, letteralmente, una posa?
Oppure no? Oppure neanche questa ricostruzione così amara e cinica è quella vera? Perché il penultimo verso dice che tutta questa storia – i lineamenti dei volti ormai cancellati, le mani ancora intrecciate al di là dei secoli trascorsi – dimostra “quasi vero” il “nostro quasi istinto”: dove l’istinto è probabilmente quello indicato al verso successivo: l’istinto, la sensazione, il presagio che ciò che resterà dopo la nostra morte è solo l’amore. In che forma, si vorrebbe domandare: figli? Proprietà? Opere dell’arte e dell’ingegno? E poi, per noi atei, che senso ha dire che qualcosa sopravviverà di noi? Sappiamo bene che tutto sopravviverà, ma niente che possa dirsi veramente nostro: la vita continua, ma non per noi. Forse è per questo che Larkin ha messo un almost ‘quasi’ a correggere, a limitare le parole istinto e vero. E del resto, nell’autografo della poesia ha aggiunto un commento che non sembra lasciare dubbi: “L’amore non è più forte della morte solo perché due statue si tengono per mano per seicento anni”.
E dunque? E’ una poesia che celebra il potere non dell’amore ma della morte? O i versi almeno in parte contraddicono questa riga di prosa così mesta? Vasti interrogativi. Ma intanto all’interpretazione va aggiunta una postilla. Un testo che riflette così ambiguamente sull’amore e sul tempo rivela, a guardar bene, un sottosenso più segreto e più amaro. L’amore scolpito nel marmo non rispecchia l’amore provato nella realtà perché l’arte è mendace, decora di un’aura poetica i fatti della vita, li trasfigura eliminando le ombre, stendendo un velo sopra le miserie umane: e così i devoti dell’arte in commosso pellegrinaggio nella cattedrale di Chichester corrono il rischio di scambiare – ma non è il rischio che corre qualsiasi devoto dell’arte? – quel mondo fittizio, quell’armonia simulata, con il mondo reale, con un’armonia che il conte e la contessa di Arundel, per chissà quale miracolo in quei tempi ferrei, hanno saputo creare giurandosi amore eterno. Alla fine forse è soprattutto una poesia sul bovarismo.
(Importante. Tradurre Larkin non è facile per molte ragioni, la principale delle quali è che Larkin scrive in metro, e con le rime. Inutile provare a fare lo stesso, nella traduzione. Il lettore interessato – e un po’ anglofono, almeno – troverà facilmente il testo della poesia in rete. Qui osservo solo che al verso 13 dove ho messo mentire il testo originale ha to lie, che vuol dire due cose: “giacere” e “mentire”. Larkin ovviamente gioca sull’ambiguità, che in italiano non è possibile mantenere).
Fianco a fianco, i loro volti svaniti,
il conte e la contessa giacciono nella pietra,
le loro nobili vesti appena accennate
– l’armatura snodata, la piega irrigidita –
e quel tenue indizio di assurdità,
i cagnolini sotto i loro piedi.
La semplicità di questo pre-barocco
quasi sfugge alla vista, fino a che
la vista incontra la mano dell’uomo
che stringe il guanto sinistro, vuoto; e
con un brivido tenero e acuto trova
l’altra mano di lui reclinata, che tiene la mano di lei.
Non avrebbero mai pensato di mentire così a lungo.
Questa immagine di fedeltà
non era che un dettaglio per gli amici:
la dolce grazia prezzolata di uno scultore
spesa allo scopo di far durare più a lungo
i nomi latini incisi attorno alla base.
Non avrebbero mai indovinato quanto presto,
nel loro statico viaggio da supini,
l’aria si sarebbe trasformata in tacita corrosione,
e avrebbe cacciato via gli antichi fittavoli;
quanto presto gli occhi dei posteri cominciano
a guardare, non a leggere. Con fermezza, essi
hanno perseverato, uniti, per il lungo e il largo
del tempo. La neve è caduta, senza data. Il sole
ogni estate ha affollato la vetrata. Lucenti nidiate di uccelli
hanno saltellato sullo stesso terreno
pullulante di ossa. E su per i sentieri
gente sempre nuova veniva,
cancellando la loro identità.
Ora, impotente nel vuoto di
un’età che non ha più armature, scia
di fumo sospeso in lente volute
sopra il loro brandello di storia,
un gesto è tutto ciò che rimane:
il tempo li ha trasfigurati in
menzogna. La rocciosa fedeltà
che certo non conobbero è diventata
il loro ultimo blasone, e adesso prova
che il nostro quasi-istinto è quasi vero:
ciò che sopravviverà di noi è l’amore.
(Ironici o no, irridenti o no, gli ultimi due versi di questa poesia sono incisi sulla lapide intitolata a Larkin che dal dicembre del 2016 si trova nel Poets’ Corner dell’Abbazia di Westminster: “Philip Larkin // 1922-1985 // Our almost-instinct almost true // What will survive of us is love”. I conti di Arundel hanno avuto l’ultima parola).