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Bruno Ceschel: il guru del self publishing

Luca Fiore

L’auto pubblicazione ha segnato l’editoria fotografica degli ultimi anni e il merito è dello scrittore, artista, e docente italiano, che ha scritto pure un manuale-manifesto. Dagli esordi a Treviso al curriculum spedito a New York 

"Ciò che mi interessa di più nella fotografia, e nell’arte in generale, è la capacità di costruire il futuro. Gli artisti hanno l’abilità di raccontare, di farci pensare a un avvenire diverso, migliore. E’ questo il filo che tiene insieme ciò che faccio: libri, mostre e insegnamento”. Bruno Ceschel sa bene che la fotografia ha fatto la sua fortuna sulla capacità di memoria, di far risuscitare persone, cose e avvenimenti che non ci sono più, come spiega Roland Barthes scrivendo della sua ricerca di un’immagine che faccia rivivere la madre scomparsa. Eppure, in Ceschel, inquieto visionario, prevale la forza opposta che l’arte ha di spingersi oltre i limiti del conosciuto e, come diceva Luigi Ghirri di Daguerre, di avvicinarsi alla frontiera del “già visto” e contemporaneamente del “mai visto”.
Bruno Ceschel è considerato, nel mondo dell’editoria di fotografia, il guru dell’auto pubblicazione. Nel 2010 ha fondato un progetto culturale, poi diventato una casa editrice e una serie di seguitissime masterclass online, dal nome furbo e ottimista: Self Publish, Be Happy. Da allora, se il modo in cui i fotografi pensano e realizzano i libri è cambiato, è anche grazie alla valorizzazione e alla visibilità data a centinaia di pubblicazioni indipendenti di giovani artisti che prima venivano trascurati da editori e curatori. Il Guardian ha definito l’iniziativa di Ceschel come “l’avanguardia della rivoluzione del self publishing”. SPBH nasce infatti come invito alla nuova generazione di fotografi di inviare le proprie pubblicazioni perché potessero essere inserite nella collezione di libri fai-da-te che, l’anno scorso, è stata acquisita dalla Maison Européenne de la Photographie (MEP) di Parigi. Tremila tra libri e fanzine: una “fotografia” di ciò che è nato spontaneamente nella giovane comunità di artisti negli ultimi quindici anni.

 

L’avventura di Ceschel, classe 1977, inizia a Treviso, poco lontano dal paese in cui è nato e cresciuto, Orsago, nella redazione di Colors Magazine, la rivista di culto fondata nel 1991 dal designer Tibor Kalman e dal fotografo Oliviero Toscani per il gruppo Benetton. Dopo gli studi di Sociologia a Trento e Londra, diventa redattore nel periodo in cui a dirigere il giornale sono Adam Broomberg e Oliver Chanarin, due figure centrali della nuova fotografia, che lo proiettano sulla scena internazionale. Tre anni dopo è a Londra, si arrangia con collaborazioni con testate italiane, soprattutto femminili. Ma la nuova svolta arriva quando gli consigliano di mandare il curriculum vitae a Chris Boot, già direttore di Magnum Photo a New York e Londra, già direttore editoriale di Phaidon e futuro direttore esecutivo dell’Aperture Fundation. Uno delle master mind del settore. In quel momento Boot lavora in proprio, pubblicando libri, tra gli altri, di Martin Parr, Luc Delahaye, James Mollison e Stephen Gill. E’ una vera e propria scuola per Ceschel, che inizia a famigliarizzare con il mondo della fotografia che conta.
Nel 2008 gli viene proposto di curare una mostra per il Brooklyn Museum, con catalogo di Aperture. Il tema, all’epoca, è all’avanguardia: Contemporary Queer Photography. Il progetto, però, salta e non se ne fa nulla. “Ma in quei due anni a New York sono entrato in contatto con una comunità di giovani fotografi e artisti che facevano lavori in sintonia con i miei interessi. Utilizzavano la carta stampata, libri e fanzine ed erano self publishers. Quella del Do-It-Yorself, negli Stati Uniti, è una cultura molto più radicata che in Europa e quel che vedevo mi sembrava di grande valore”. Decide così di lanciare una open-call, invitando a farsi mandare queste pubblicazioni e promuovendole sul suo blog. “Ho proposto alla Photographer’s Gallery di Londra un evento, chiamato proprio Self Publish, Be Happy, in cui mostravo una selezione di questi libri e organizzavo incontri con gli autori. Erano opere che non circolavano con la distribuzione tradizionale e la gente non aveva idea della loro esistenza. E’ stato un successo travolgente. Il principio era democratico, tutti potevano mandarci la loro opera, poi noi selezionavamo quelle che sarebbero entrate nella collezione. Dal giorno alla notte avevo casa piena di libri. Sono arrivato a ricevere anche 15 pubblicazioni alla settimana. La gente ne parlava, è girata la voce. E la Photographer’s Gallery ha iniziato a tenere alcuni di questi libri nel suo bookshop”. 

 

Cinque anni dopo, siamo nel 2015, Self Publish, Be Happy diventa anche un libro edito da Aperture con il sottotitolo che recita: “A Do-It-Yourself Photobook Manual and Manifesto”. L’introduzione di Ceschel inizia così: “Questa non è una raccolta di libri di fotografia di recente pubblicazione. Non è un best of. E’ una chiamata alle armi, un grido di battaglia a partecipare, agire, condividere”. Nel volume si trovano grandi nomi, artisti che lo sarebbero diventati e altri che sono rimasti nell’ombra. Troviamo The Little Brown Mushroom Dispatc di Alec Soth and Brad Zellar, una serie di pubblicazioni in forma di quotidiano che documentano i viaggi del fotografo e dello scrittore americano in giro per gli Stati Uniti. Oppure Nude del fotografo cinese Ren Hang, che raccoglie le opere poi diventate celebri soprattutto dopo il suicidio dell’artista, stampato da un tipografo amico. C’è Gomorra Girls di Valerio Spada, che racconta le periferie di Napoli alternando materiale dal dossier di polizia sull’omicidio di una quattordicenne, uccisa dal fuoco incrociato in una sparatoria, e le immagini del quartiere in cui la ragazza viveva. O ancora Afronauts della spagnola Cristina de Middel, che ricostruisce liberamente, tramite documentazione originale, fotografie e disegni dell’artista, la storia del progetto spaziale dello Zambia che negli anni Sessanta sognava di mandare astronauti su Marte. “I self publishers hanno mandato all’aria le regole dell’editoria tradizionale, molto legate agli standard imposti dai grandi come Taschen e Steidl. Hanno introdotto novità sia dal punto di vista dei temi che venivano presentati sia sulla forma dell’oggetto libro”, spiega Ceschel. “Non solo perché spesso gli artisti venivano da minoranze e, appartenendo a comunità poco rappresentate, raccontavano storie e temi fino ad allora inesplorati, ma avevano una libertà e una spregiudicatezza nell’uso del mezzo editoriale. L’aspetto fisico della pubblicazione diventa parte integrante della narrazione. Qualità di carta, grafica, rilegature, tecniche di stampa. Erano giovani che pensavano al libro in modo differente. Un’esperienza che sicuramente ha finito per influenzare anche l’editoria mainstream. Oggi, anche se il trend è quello del libro “a la Michael Mack”, molto pulito e classico, certe sperimentazioni le vediamo in libri pubblicati anche da realtà più consolidate e ufficiali. Il linguaggio del libro fotografico è cambiato per sempre”.

 

Ma c’è un’altra dimensione che, secondo Ceschel, questo fenomeno ha fatto emergere. “Tradizionalmente, la fotografia è sempre stata una realtà parallela al mondo dell’arte contemporanea, per diverse ragioni storiche, tanto è vero che nei musei è sempre stata considerata una cosa a sé, paradossalmente certe istituzioni non l’hanno nemmeno collezionata. E lo stesso è avvenuto per i fotolibri che sono rimasti separati dalla storia dei libri d’artista”. Negli ultimi quindici o vent’anni, osserva, si è assistito alla fusione tra fotografia e l’arte contemporanea. “Tale fenomeno non lo si vede solo nei musei, ma anche nell’editoria: tutti questi esperimenti non arrivano dal nulla, non se li sono inventati i self publisher, ma è qualcosa che è maturato dalle esperienze delle avanguardie artistiche. Alcuni studiosi ritengono che il libro d’artista sia la forma che esprime la quintessenza dell’arte del XX secolo. Perché ha le caratteristiche che hanno plasmato il secolo scorso: l’adozione del processo industriale, le sperimentazioni concettuali, l’impulso democratico, sociale e rivoluzionario”. E non è un caso, continua Ceschel, che molti degli artisti dell’ultima generazione si siano formati in università in cui la fotografia è insegnata nel dipartimento di Contemporary Art e non in quello di Design o di Arti applicate. “Questo ha fatto sì che questi fotografi abbiano un modo di pensare diverso. E’ gente con una testa differente rispetto alla precedenti generazioni e questo mi ha sempre attratto. Ma non perché mi interessi l’arte contemporanea in sé, ma ciò che con essa viene detto. Alla fine, quello che io cerco – in generale, nella vita – è confrontarmi con idee nuove. Per poter vivere meglio, per capire chi sono e dove sono. Per questo sono sempre in cerca di qualcosa di inedito, per ciò che viene raccontato e per come viene raccontato”. 

 

 

Per spiegare che cosa significa, Ceschel fa l’esempio della sua collaborazione con l’artista e arrivista Carmen Winant che, a suo dire, si basa sulla messa in discussione dei suoi preconcetti e le sue idee rispetto all’identità di genere. SPBH ha pubblicato My Birth, il libro di un progetto in cui la Winant raccoglie quasi 3 mila immagini di donne nel periodo di gestazione e del parto – soggetto completamente tabù nella società occidentale-, esposto nello stesso anno nella mostra “Being: New Photography 2018” al Moma di New York. “Quel libro ha avuto un impatto viscerale nella comunità di persone che ho incontrato in musei o fiere. Abbiamo ricevuto tantissimi messaggi di gratitudine per quel libro. E per me, da un punto di vista personale, si è aperto un mondo che non conoscevo”. Un altro sodalizio di Ceschel è quello con la famosa poetessa americana Claudia Rankine, con cui collabora regolarmente e con cui sta lavorando sul The Racial Imaginary Institute Biennale 2022, intitolata “On Nationalism: Borders and Belonging”. “Il suo lavoro radicale sulla costruzione politica e sociale della razza bianca mi ha spinto a intraprendere un percorso emotivo e intellettuale incredibile sulla mia di identità”. Oppure l’amicizia con il fotografo e scrittore Nicholas Muellner, che approfondisce le potenzialità del rapporto tra fotografia e letteratura. “Anche lui mi ha spalancato un mondo che per me era sconosciuto. Ma nel momento in cui uno ti dà la chiave per entrarci, hai la possibilità di scoprire quante cose sono nascoste dietro quella. Sono tutte relazioni che mi danno strumenti per aprirmi a nuove idee. Col tempo mi accorgo di essere sempre più insofferente verso ciò che mi dà l’impressione del già visto e sentito”.

 

E’ da questa insofferenza che, nel 2018, nasce l’idea di organizzare, al museo C/O Berlin, un evento intitolato “Photobook: RESET”. “Avevo l’impressione che la fotografia contemporanea non si stesse occupando seriamente di alcuni temi che oggi, per fortuna, sono esplosi nel dibattito pubblico. Come è possibile che i musei propongano collezioni di opere prodotte solo da uomini? Esistono voci alternative all’uomo bianco eterosessuale? Ma c’erano anche le sfide poste dall’accelerazione del progresso tecnologico. Erano le domande che io avevo e alle quali avevo l’impressione che nessuno stesse provando a rispondere seriamente”. L’idea è stata di invitare l’élite della fotografia – docenti universitari, curatori, editori, critici, artisti, designer – e chiedere loro, anziché un intervento ex cathedra, di mettersi in gioco attraverso il format del workshop. “Non mi aspettavo che si trovassero soluzioni. Sono problemi enormi che non si risolvono in un weekend. Ma desideravo che, attraverso un lavoro molto personale, ciascuno tornasse a casa con una serie di domande nuove su cui provare a continuare una riflessione”. Risultati a tre anni di distanza? “Non mi piace dar voti ai colleghi. Ma c’erano Lesley A. Martin di Aperture e Michael Mack. La loro lista di libri è diversa rispetto a prima? In una certa misura sì. Le cose si stanno muovendo. Non dico che quell’evento sia stato decisivo. Certe cose erano già nell’aria. Moltissima strada è ancora da fare. Ma ogni tanto vediamo qualche scossone. Come quello accaduto a Foam, il museo di Fotografia di Amsterdam, dove è stata nominata alla direzione creative Jane’a Johnson, una trentenne afroamericana. E’ la prima non olandese a ricoprire quel ruolo”. 

 

In questi mesi si sta aprendo un nuovo capitolo della vita di Ceschel. Dopo un decennio passato tra Regno Unito e Stati Uniti, soprattutto a Londra, è rientrato in Italia e trovato casa a Milano. “Arrivato a 40 anni mi è sembrato il momento giusto per pensare a qualcosa di nuovo. La Brexit ha dato la spinta. Londra è un posto che amo e mi ha dato tantissimo. Lì ho avuto opportunità incredibili, ma ora rientrando nel mio paese spero di portare anche la mia esperienza e un modo di pensare a questo lavoro e alla fotografia che è probabilmente diverso. Una forma per far questo, per ora, non l’ho ancora trovata. Ma le cose mi sono sempre riuscite sperimentando sul campo. Non ho intenzione di cambiare metodo. Vedremo”. Nel frattempo, negli ultimi mesi, sono usciti quattro nuovi libri di SPBH. Due monografie, Promise Land di Gregory Eddi Jones e Say So di Whitney Hubbs, e due saggi brevi su temi – com’è nell’uso di Ceschel – tutt’altro che scontati, Instructional Photographs: Learning How to Live Now di Carmen Winant e To Be Determined: Photography and the Future di Duncan Wooldridge.

 

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