Consumare le parole. Quando gli scrittori spariscono
È vero che “al giorno d’oggi per essere scrittore ci vuole più forza fisica che immaginazione”? La letteratura non sempre si accompagna alla mondanità. Quello che spinge un autore a non scrivere più
La scrittura è un segno nel mondo. Derrida lo ha detto chiaramente: scrivere è sempre lasciare una traccia. Dunque la stessa esistenza è scrittura. Una sfumatura della vita, un’orma sulla banchina della metro, perché fuori piove e un passante frettoloso ha piantato sul cemento la sua impronta bagnata, come labile segno della propria esistenza. Un simbolo che resta ricordo, che dice qualcosa, ma non tutto, non del tutto. Una scrittura degna di interesse però; un gioco grammaticale che si fa presto letterario se frapposto alla cultura dell’approssimazione fatta di scrittori senza voce e editori senza bile. Perché in fondo è vero: la prognosi della scrittura, quella letteraria perlomeno è grave. Non moribonda ma grave. E allora, come afferma Enrique Vila-Matas, in Bartleby e compagnia, solo da una spinta negativa, si può far sorgere “la scrittura dell’avvenire”. Una scrittura del “no” quindi, che mostri come a volte soltanto attraverso un diniego si possano osservare le strade ancora percorribili.
“I prefer to not” diceva lo scrivano Bartlebly del racconto di Melville a qualsiasi richiesta che non aveva nulla a che fare con le sue mansioni. Un no che si fa negazione e sintesi del mondo; così come il no imposto alla letteratura da quegli autori che di punto in bianco hanno deciso di non scrivere più. Come Juan Rulfo, il maggiore scrittore messicano del Novecento, che dopo aver stilato di getto Pedro Páramo, non scrisse nulla per trent’anni; come per privare il mondo della propria azione, di un scelta, della propria esistenza. Anche Rimbaud, che precocissimo aveva sviscerato gli abissi del proprio inferno, a soli 21 anni, dopo essersi fermato qualche settimana a Milano nella casa di una sconosciuta signora, smise misteriosamente di scrivere. Non sapremo mai il perché, eppure un giorno decise di tirarsene fuori, aveva probabilmente consumato le parole, le aveva ribaltate pur di comprendere la letteratura. Forse qualcosa capì, chissà. Quello che è certo è il suo silenzio. Perché la vera trascendenza forse è nella quiete, nella potenzialità interrotta. Ed ecco allora spiegato perché Dio tace. Aveva ragione Marius Ambrosinus: “Secondo me, Dio è una persona eccezionale”.
Lo stesso Kafka aveva chiesto all'amico Max Brod, come ultima volontà, di bruciare le sue opere. Voleva trasformare le sue parole in cenere, ma fortunatamente non è avvenuto. Così tutte le sue carte affastellate, una valanga di fogli incompleti, bozze e idee mai concluse stanno lì, a ricordare che si può scrivere anche senza farlo, che la vera eredità del Novecento forse sono proprio tutti i libri che non sono stati scritti, che vivono come “sospesi sopra la letteratura universale”.
In Italia è di sicuro Bobi Bazlen lo scrittore mancato per eccellenza, persona coltissima, che ha introdotto in Italia i più grandi autori di sempre; consulente di Einaudi, e fin dalla sua fondazione fulcro centrale dell’Adelphi. Un uomo di lettere che non scriveva, componente rara e come disse una volta: “Credo che ormai non si possa più scrivere libri. Perciò non scrivo libri. Quasi tutti i libri sono note a piè di pagina gonfiate fino a diventare volumi”. Ecco, che sia da monito. Che la sua eredità venga colta. La scrittura non dovrebbe essere un mezzo per la gloria della pubblicazione. L'attitudine alla scrittura è una propensione umana, però bisognerebbe essere disposti a sacrificarne i risultati per il piacere della scoperta, un esercizio per cercare un luogo (la letteratura) in cui isolarsi e negarsi. Senza il bisogno, o necessariamente l'ambizione, di occupare uno scaffale in libreria.
Ma pare essere sempre più difficile. Ormai l'editoria si veste di mondanità. Ha ragiona Bernardo Atxaga quando dice riportando la frase di un amico che “al giorno d’oggi per essere scrittore ci vuole più forza fisica che immaginazione”. Feste, fiere, incontri presentazioni, aperitivi e a risentirne sono i bei libri. Dovremmo fare come Bartebly, dunque, abbracciare il moto del rifiuto e dire “I prefer to not” a questa “letteratura alimentare” imperturbabile verso il passato. Ma in fondo come diceva Chamfort: “L'uomo è un animale stupido, a giudicare da me”.
Universalismo individualistico