Le macchine della Repubblica/4
Perle dagli scatolifici: Lancia Thema e Croma portano l'Italia negli anni Ottanta
Gli anni Ottanta schiacciano e squadrano, ma ci sono anche brillanti eccezioni che diventano macchine dello stato per eccellenza. E la Lamborghini Miura segna il suo trionfo
(Quello che potete leggere di seguito è il quarto episodio del viaggio a puntate sulle auto che hanno fatto la storia della nostra Repubblica a cura del regista e sceneggiatore Marco Tullio Giordana per il nostro giornale. Potete trovare la prima puntata qui, la seconda qui e la terza qui)
Alcuni amici, oltre a farmi notare un errore nella seconda puntata dedicata alle macchine della Repubblica (Andreotti nel 1961 non era presidente del Consiglio bensì ministro della Difesa; chiedo umilmente venia!), mi hanno rimproverato di aver ristretto a tre soli decenni la rapida ricognizione. Provocatoriamente concludevo che la Repubblica e l’Automobilismo (maiuscolo per chi lo consideri una disciplina umanistica) uscivano di scena insieme alla fine dei Settanta per lasciar posto a qualcosa che, pur assomigliando all’Evo precedente, ne ribaltava filosofia e prospettive. Questi amici avrebbero preferito arrivare fino alla fine della cosiddetta Prima Repubblica e convenire con le date ufficiali del 1992/’93 per il suo collasso (Tangentopoli, insomma), cosa che faccio aggiungendo questo capitolo senza tuttavia cambiare dentro di me la sensazione che il confine resti quello del 1978, l’anno del sequestro Moro e della sua esecuzione. But I am not a critic, non sono altro che un povero critico, potrei dire parafrasando il Bardo inglese (secondo alcuni invece siciliano, figlio di Giovanni Florio palermitano e di Guglielma Scrollalanza, donde Shake, scrolla, Spear, lancia) e tornerò a dire di automobili senza più troppo azzardare rime con la vita politica del nostro tormentato paese.
Gli anni Ottanta sono critici per tutti, per l’industria automobilistica in particolare. I guai del decennio precedente peggiorano: aumento del petrolio, dei costi dell’energia e del lavoro, inflazione che galoppa a due cifre e un ceto medio senza più potere d’acquisto; dunque consumi al minimo e baracca sociale scricchiolante. Auto sempre più schiacciate verso il basso, linee quadre, disegno elementare, come le case popolari progettate da geometri e architetti del ’68 e approvate da altri geometri o architetti comunali ugualmente del ’68 con lauree e diplomi dequalificati. Naturalmente non è che non esistano eccezioni, personalità pregevoli, progetti ambiziosi, ma sono quasi tutti costretti ad andare via dall’Italia per affermarsi anche se qualcosa di buono si fa pure qui, ci mancherebbe. E’ però la diritta via che sembra smarrita, quella dove l’Italia ha corso a perdifiato e senza scossoni, sicura dei propri risparmi, della casa, del pezzo di terra coi nonni che ancora coltivano l’orto, anche se ormai tutto è inghiottito dalla metropoli che si allarga, dall’immensa città che sale come nel quadro di Boccioni.
Anche l’élite sta cambiando pelle. Ai padroni di vapore e ferriere si sostituiscono i manager, è troppo complicata ormai la macchina organizzativa e gli eredi delle dinastie, salvo le dovute eccezioni, hanno preferito spassarsela anziché studiare. Ne consegue che le carriere di questi dirigenti, assai locupletate, si scollino dalla proprietà diventando classe a sé, una costosa nomenklatura che non potendo raschiare più di tanto il portafoglio dei padroni/benefattori, rastrella quello dei sottoposti. Senza contare i grossi affari rappresentati da servizi e infrastrutture che lo Stato dovrà adeguare ai tempi, suscitatori di appetiti e carriere connesse.
A scanso di scioperi e picchetti, le macchine finalmente si sono messe a costruire altre macchine: è il momento dei robot, accolti come innovazione maravigliosa (come si diceva delle macchine teatrali settecentesche) e liberatori dal capestro del lavoro pesante. Pochi riflettono che, grazie all’assunzione dei robot, sempre meno necessaria diventa quella umana e la classe operaia, intanto che festeggia turni e mansioni ridotte, si avvia all’uscita di scena senza che nessuno la rimpianga, nemmeno i partiti di sinistra che la rappresentavano e che dovranno ora pescare fra i reietti della piccola borghesia, ondivaga e infedele per definizione. Cambiano alleanze e strategie: i grandi gruppi che si sono fatti concorrenza in Europa ora sono costretti a matrimoni d’interesse se non vogliono soccombere come le centinaia di piccole case non più in grado di competere. I pesci grossi mangiano i piccoli, magari conservando qualche marchio illustre per non disgustare i clienti tradizionalisti.
Dunque solo dissolvenze in nero, apocalisse, iattura? No, evidentemente. Perfino dagli scatolifici escono brillanti eccezioni come la Lancia Thema, di cui parleremo, e ovviamente scintillano nel firmamento le dream car progettate per stupire i saloni e dare, forse, indicazioni per l’avvenire. Resistono i prodotti italiani eccelsi come Ferrari (il Drake morirà nel 1988), che ha superato la crisi grazie all’acquisizione da parte della Fiat senza rimanerne fagocitata come accade per altri marchi comprati a saldo (Autobianchi, OM, Lancia, Abarth e, nel 1986, strappandola alla Ford, Alfa Romeo). La Fiat diversifica i propri investimenti nelle costruzioni (Cogefar Impresit), nell’alimentare (Star, Galbani), distribuzione (la Rinascente) ed editoria (Rizzoli-Corriere della Sera) ma sa ancora costruire automobili economiche e indistruttibili. Archiviata la triste Ritmo, escono la sensazionale Panda, la Uno, la Croma, che non è altro che una Thema rivisitata. Queste ultime saranno nel bene e nel male le predilette dalla pubblica amministrazione. A bordo di una Croma Bettino Craxi sfugge alla pioggia di monetine davanti all’Hotel Raphaël, codardo oltraggio dopo anni di servo encomio. Manzoni aveva già capito tutto.
I costi del progetto di un’auto sono enormi, dato che si trascinano dietro anche quelli dell’engineering, ovvero di tutta la catena costruttiva e dei macchinari appositi. Già da tempo i grandi gruppi cercano forme di collaborazione in vista degli assetti futuri, dato che il mercato domestico è saturo in tutti i paesi d’Europa e ancora timida si profila l’apertura a est che potrebbe salvare capra e cavoli. Si studia così il pianale di un’autovettura del segmento E (il più redditizio) in comune con Fiat Croma, Saab 9000 e Alfa Romeo 164, auto che dovranno vedersela con le spadroneggianti tedesche Audi 100, BMW serie 5, Mercedes W124 e con le francesi Citroën XM e Renault 25, essendo ormai fuorigioco le costose e obsolete Daimler e Jaguar inglesi.
Tutti questi modelli avranno fortuna ma è soprattutto la Thema a diventare l’emblema delle auto blu, chiocciola lampeggiante sul tetto, sirena spiegata e scorta anche per accompagnare la moglie del dignitario al supermercato (tentazione che sopravvivrà anche nelle successive Seconde Terze e Quarte Repubbliche con sanculotti o descamisados al governo che diventano in breve rasserenati mandarini). Thema e Croma sono le auto che appaiono in ogni foto delle cronache degli anni Ottanta, siano esse cerimonie pubbliche, serate di gala o delitti e stragi di mafia con relativi funerali, macchine dello Stato per eccellenza, tanto da confondervisi per la simbiosi. Va detto che erano eccezionali, forse il canto del cigno della sapienza autovettoria italiana. O dovrebbe l’orgoglio patriottico farci smaniare per le apolidi attuali e accomodare compiaciuti sulle loro sedie elettriche o ibride?
Nelle puntate precedenti ho tralasciato un’auto che avrebbe meritato capitolo a sé: la Lamborghini Miura. Poiché gli anni Ottanta e Novanta, per non dire d’oggi, segnano i suoi trionfi, viene buono parlarne qui. Intanto tocca dire subito che con la sua apparizione al Salone di Ginevra del 1966 la Miura fece ingiallire tutto il parco delle auto di lusso e sportive. Non c’è Ferrari, Maserati, Iso Rivolta, Bizzarrini, Aston Martin, Alvis, Bentley, Facel Vega (peraltro appena estinta) che tenga. Intanto per la scelta della motorizzazione: un 12 cilindri a V – progettato da Gian Paolo Dallara, Giotto Bizzarrini e Paolo Stanzani – piazzato dietro il guidatore come sulle macchine da corsa. Poi per il design così rastremato e filante che solo un atleta o un fachiro possono accedere all’abitacolo. E’ opera del ventottenne Marcello Gandini (come si fidavano dei giovani gli industriali del tempo!) che ha sostituito Giugiaro alla Carrozzeria Bertone. Il disappunto degli altri costruttori per il parvenu ferrarese Ferruccio Lamborghini – “buono a fare caldaie e trattori”, come dicevano di lui – si manifesta con malignità e studiata enfasi dei difetti: maneggevolezza che diminuisce col progressivo svuotamento del serbatoio anteriore, scarso spessore dei lamierati che non garantiscono la necessaria rigidità, frizione dura, freni sottodimensionati, la posizione trasversale del motore che in curva non riceve lubrificazione e la temibile tendenza a prender fuoco per via di perdite e ristagni dei carburatori. Difetti che furono via via risolti e non scalfirono la terrificante seduzione delle Miura. Macchine da cantanti, da attori, da sceicchi, da nouveaux riches, sentenziava la clientela chic, ma intanto andavano a ruba e solo l’endemica fragilità finanziaria costrinse il pittoresco geniale Ferruccio a cedere la maggioranza prima agli svizzeri, poi ai francesi, poi agli americani della Chrysler, poi gli indonesiani della Megatech, finché non subentra nel 1998 il gruppo Audi a garantire finalmente il futuro. Ferruccio si ritirò a vivere in Umbria tra il versante sud del lago Trasimeno e il borgo medievale di Panicale; lì si dedicò all’attività vitivinicola. Se per caso si guastava uno dei suoi trattori, non c’era bisogno di chiamare il meccanico. Era capace di ripararlo da solo.