Timothy Mucciante, l'imbroglione provvidenziale
Era un avanzo di galera che prova a rilanciarsi in una casa di produzione. Lì si imbatte in “Lucky” di Alice Sebold e scopre che l’uomo che la scrittrice aveva condannato non era uno stupratore
"Questo è ciò che io ricordo”, recita la frase d’apertura di “Lucky”, il libro al centro di questa storia. Già: quel certo fantasma che svolazza tra l’oggettivo e il soggettivo. Tra l’irrefutabile e l’apparente. Tra il certo e il possibile. Ricordate “Rashomon” di Kurosawa? Una vicenda cambia senso a seconda del punto di vista che l’esamina.
Questa volta abbiamo un caso di cronaca giudiziaria americana che, dopo un tempo assurdamente lungo, deflagra in uno scandaloso errore, devasta la vita di un uomo e ne ridisegna i contorni, da carnefice a vittima. A margine di questa notizia, la parabola di un personaggio che apparentemente non c’entra, passa quasi per caso, ma poi ne diviene protagonista determinante, ribaltando un proprio percorso tutt’altro che lineare. Equivoci e ricostruzioni, verità e apparenza, passato e presente, equivoci e destino: un calderone caotico e dai profluvi diabolici, che per miracolo adesso si ricompone e diviene luogo non più della dannazione, ma della rinascita. Un labirinto? Meno di quel che sembri a prima vista. Piuttosto un gioco di specchi. Per interrogarci su quanto ci dobbiamo fidare di ciò che crediamo di vedere e su quanto sia importante continuare a guardare fino a stabilire l’indefinito. Chiamando in causa dei valori assoluti, anche quelli in apparenza al di sopra delle parti: il senso della giustizia, il valore dell’uguaglianza, i diritti dell’individuo – di tutti gli individui, senza distinguo. Un discorso che, perciò, di colpo si proietta sul bordo del precipizio – etico, sociale, culturale. E che impone di procedere con ordine.
Nelle ore piccole dell’8 maggio 1981 la diciottenne Alice Sebold, matricola della Syracuse University, esce da un party per la fine dei corsi nell’omonima college town dello stato di New York. Viene intercettata da un uomo in un parco, trascinata in un tunnel e brutalmente violentata. Le ricerche dell’assalitore sono infruttuose. Alcuni mesi più tardi, però, Alice s’imbatte per le strade del centro in un uomo che è certa di riconoscere come colui che le ha usato violenza. E’ un ragazzo di 20 anni, si chiama Anthony Broadwater e lavora per una ditta di telecomunicazioni. E’ nero, come l’uomo del parco. Sebold informa la polizia della scoperta e Broadwater viene arrestato, sebbene si dichiari estraneo alle accuse. Non sa produrre alibi certi: quella notte era solo in casa. Comunque, nel corso del riconoscimento la Sebold, messa di fronte a cinque uomini di colore, non identifica Broadwater come il suo violentatore, bensì un’altra persona. Solo più tardi, sottoposta alle pressioni di un’assistente del pubblico ministero incaricato, Alice ritratta e mette la crocetta accanto alla casella di Broadwater.
Il processo inizia il 17 maggio 1982 e dura solo due giorni. L’imputato viene riconosciuto colpevole sulla base di due elementi: il riconoscimento da parte della vittima e la perizia di un chimico che giudica compatibile un capello trovato sugli abiti della Sebold coi suoi, applicando una teoria che negli anni successivi verrà smentita e riconosciuta responsabile d’innumerevoli false attribuzioni di reato. Il giudice William Gorman, pur noto per l’equilibrio delle sue sentenze, va dritto alle conclusioni e sancisce la colpevolezza di Broadwater. Resterà in prigione per 17 anni, fino al 1998, allorché potrà godere di un regime di libertà condizionata dall’essere classificato “violentatore”, etichetta d’infamia che lo costringe a una vita all’ombra della vergogna.
Di lì a poco, nel 1999, la Sebold, divenuta scrittrice, pubblica “Lucky”, il memoir in cui ricostruisce la tragedia che ha sconvolto la sua giovinezza. Tre anni più tardi torna a elaborare in forma di romanzo il tema della violenza sessuale e pubblica “Amabili resti”, che diventa un formidabile successo editoriale, vende dieci milioni di copie e la trasforma in un nome di punta della narrativa americana. Dal romanzo viene tratto un eccellente film diretto da Peter Jackson e la fama che avvolge la Sebold conduce alla riscoperta di “Lucky” e della storia della violenza sessuale di cui nella realtà Alice è stata vittima da parte dell’uomo a cui, nella ricostruzione, attribuisce il nome di Gregory Madison, ma che per lei altri non è che Anthony Broadwater.
Nell’insanabile dolore provocato da un evento estremo come la violenza sessuale, la vicenda appare conclusa: la Sebold ha trovato la sua strada sublimando la tragedia in cui s’è imbattuta. Broadwater ha pagato le sue colpe, che continua a scontare ben oltre la detenzione, marchiato dall’orrendo delitto di cui si è macchiato. La giustizia è stata amministrata con l’inflessibilità richiesta in casi del genere, a dispetto delle inesauribili pretese d’innocenza del condannato. Ma è qui che, a sovvertire la ricomposizione, entra in gioco un altro personaggio. Decisivo. Il suo nome è Timothy Mucciante.
Mucciante, 61 anni, è come Broadwater un uomo alla deriva, però privo della rassegnazione di quel coetaneo reo di violenza sessuale, sebbene anche lui col suo fardello di errori con cui fare i conti. Alle spalle ha una scia di crimini, tre condanne per truffa, milioni di dollari in multe, un processo per poligamia, svariate sentenze di fallimento. Immaginate un tipo alla Joe Pesci, il malandrino inventivo spesso interpretato dall’attore italoamericano. Ma senza lo humour, naturalmente, e senza il suo successo. Mucciante è originario del Michigan ed è stato anche un avvocato, prima di venire estromesso dall’ordine, con la proibizione di esercitare, per le porcherie che ha combinato. Ha trascorso un cospicuo numero di anni dietro le sbarre (“E’ il motivo per cui ho capito cosa provava Broadwater. Ci ero passato. Con una differenza: io ero colpevole”), scontando frodi e imbrogli d’ogni genere, alcuni al limite del plausibile, come un oscuro commercio di preservativi con la Russia. Tutti progetti finiti allo stesso modo: Mucciante che scappa coi soldi e poi viene beccato. Recidivo, seriale, patologico, si direbbe irrecuperabile. Fino al 2010 per lui le prigioni hanno le sliding doors. E i prezzi che Timothy paga sono alti: lui stesso racconta d’essere stato vittima di violenze sessuali in carcere, d’essere stato diagnosticato bipolare, d’aver sviluppato un timore psicotico nei confronti degli afroamericani, di aver abusato di alcol, psicofarmaci e molto altro. Un tragitto in un inferno personale che l’avrebbe quasi convinto a farla finita da solo.
Invece no. Ancora una volta raccoglie le forze, si rimette in pista e torna a galla, con una serie di business temporanei che almeno lo tengono lontano dalla galera. Fin quando Mucciante decide di farsi largo in un settore per lui inedito: le produzioni cinematografiche. E’ storia recente, soltanto dell’anno scorso. Mucciante viene a conoscenza che a Toronto si progetta la trasposizione sul grande schermo di “Lucky”, il resoconto autobiografico scritto dalla Sebold, e si dà da fare per entrare nel team di produzione, sostenendo di avere qualche milione di dollari da investire. Gli piace l’idea di lavorare su quella storia che lo fa sentire coinvolto, quasi che Broadwater, nella sua immaginazione, sia un ex-compagno di cella. Anche se tra loro due c’è quella spiccata diversità: Broadwater vive con vergogna e rassegnazione il proprio destino di emarginato sociale, Mucciante invece ha dentro il fuoco che lo spinge sempre a ricominciare, sperando di mantenersi per una volta sulla retta via.
Siamo a inizio 2021. Per la regia del film viene scelta Karen Moncrieff, quella di “13 Reasons Why”, buona serie giovanilistica di Netflix, incentrata su temi scottanti. Come attrice protagonista si opta per Victoria Pedretti, la ragazza di “You”, altra serie hit della grande N – che parrebbe aver manifestato interesse nell’acquisire il film (notizia poi smentita). Entrato nella squadra della produzione, Mucciante approfondisce diligentemente il soggetto su cui sta scommettendo. Peccato che, nel giro di poche ore, tutto ciò che legge – il libro della Sebold, la sceneggiatura del film, i resumé del processo – lo convincono di trovarsi in presenza d’una clamorosa bufala giudiziaria: “Ci vuole un imbroglione per riconoscere un imbroglio”, sosterrà più avanti. Ai suoi occhi il racconto elaborato dalla Sebold fa acqua da ogni parte: “E’ la seconda parte del libro, quella che parla delle indagini, del riconoscimento e del rapido processo, che mi sconcertava. Tutto suonava falso e avevo trascorso abbastanza tempo nelle aule di giustizia per capire che c’era puzza di montatura”.
Mucciante lo fa presente ai compagni di cordata produttiva, ma l’unico effetto che ottiene è quello d’essere messo alla porta: del resto non ha ancora prodotto un centesimo dei fondi che ha promesso e nel reparto creativo del film – nel quale lui non ha voce in capitolo, incaricato solo di logistica – nel frattempo sta passando la linea di virare il soggetto della Sebold in termini più fiction, sostituendo la figura del violentatore nero con quella di un bianco, per evitare attacchi su questioni razziali. A fine giugno comunque Mucciante è fuori dalla partita e potrebbe perdere interesse quanto alla veridicità della vicenda. Invece stavolta, per l’imprevedibile natura irrazionale del suo carattere, decide d’insistere e di fare il possibile per vederci chiaro.
Ha un piano.
Va a Syracuse e assume Dan Myers, un detective a basso costo, a sua volta con diversi scheletri nell’armadio: gli paga 750 dollari d’anticipo e gli ordina di ficcare il naso in quelle vecchie carte. Myers contatta Broadwater, ma viene accolto con reticenza. Anthony conduce un’esistenza misera, ha una salute malandata e una compagna che rappresenta il suo unico interesse: non ha più fiducia nella giustizia e teme nuovi disastri. Alla fine però Myers lo convince a richiedere il rilascio degli atti processuali, come suo diritto, in caso di istanza di revisione. Quando Myers legge lo smilzo documento, capisce che il traguardo è a portata di mano e convoca due avvocati di cui si fida: Dave Hammond e Melissa Swartz, entrambi attivi nella difesa dei diritti dei più deboli. A questo punto servono soldi per finanziare l’impresa. Ed ecco tornare in scena Mucciante, l’uomo dalle risorse nascoste: mette in piedi una raccolta fondi online (nome: “Raddrizzare un torto”) e raccoglie in pochi giorni 70 mila dollari. In cambio del finanziamento, Mucciante fa una richiesta – ecco il suo lungimirante progetto: tutti i personaggi coinvolti firmeranno un impegno di collaborazione al film-verità che realizzerà con la sua neonata casa di produzione. Il titolo? “Unlucky”, sfortunato, per mettere in chiaro cosa pensi della trappola nella quale è caduto Anthony Broadwater. Il quale, alla fine, si convince, vede la luce in fondo al tunnel ed entra in squadra.
La lettura degli atti ha convinto i legali d’essere di fronte a un clamoroso caso d’inadempienza giudiziaria: “Sono bastate due sedute per distruggere la vita di un uomo”, racconterà Hammond. Le mosse del team Mucciante ottengono subito i primi effetti: la produzione del film “Lucky” viene sospesa e poi abbandonata (“Era un altro modo per monetizzare il razzismo”, dirà lui). E Scribner, editore del libro della Sebold, lo ritira dalle librerie, annunciando una futura revisione del testo. Le cose prendono a correre: il 17 novembre scorso Hammond e Swartz presentano ricorso contro la sentenza, protestando le irregolarità nel riconoscimento che incastrò Bradwater, oltre alle pressioni a cui fu sottoposta la Sebold nell’identificazione e l’assoluta inaffidabilità dei contributi scientifici. Gli effetti sono immediati: William Fitzpatrick, procuratore distrettuale della contea, accoglie il ricorso e lo fa proprio, dichiarando che “il popolo americano s’associa alla richiesta di revisione della sentenza contro Anthony Broadwater”.
Di colpo sembrano tutti d’accordo che un immotivato spirito vendicativo abbia provocato condotte altamente lesive e non professionali, il cui prezzo è stato pagato da Broadwater. La cui posizione viene stralciata e la cui reputazione viene tardivamente riabilitata. I suoi avvocati fanno partire formidabili richieste di risarcimento contro lo stato di New York e c’è da credere che una pioggia di quattrini aspetti dietro l’angolo. Broadwater dice di volere solo di che comprarsi una casetta di fronte a uno stagno, dove trascorrere gli ultimi anni insieme alla sua Elisabeth. Myers, Hammond e Swartz si godranno i frutti d’una popolarità che li farà sentire dei piccoli Johnny Cochran, l’avvocato nero che vince le cause impossibili (inclusa quella per OJ Simpson). La Sebold, informata dei fatti, commenta soltanto otto giorni dopo il proscioglimento di Broadwater e parla “della vita di un uomo irreparabilmente alterata dallo stesso crimine che alterò la mia”, offrendo solidarietà a “un altro giovane di colore brutalizzato da un sistema legale imperfetto”.
Mucciante si gode il successo e la butta sul filosofico, tirando in ballo la predestinazione: è stata l’occasione che il destino gli ha offerto per ricominciare, iniziando dall’aiutare il prossimo. Quando gli propongono di offrire la sua versione dei fatti con un editoriale sul Los Angeles Times scrive: “Una domanda che mi viene posta è: di chi è la colpa di questa ingiustizia? Della Sebold, del sistema giudiziario americano, o di entrambi? Io non credo che lei, vittima di stupro a 18 anni, abbia delle colpe. Ha fatto del suo meglio ed è stata manipolata da un procuratore senza scrupoli. Poi però ha scritto ‘Lucky’ e nel farlo avrà esaminato il fascicolo giudiziario. Possibile che non si sia resa conto delle flagranti mancanze del procedimento, a partire dal disgraziato episodio di riconoscimento di cui fu protagonista? Perché non ha affrontato l’errore che aveva commesso? Il vero fallimento, comunque, è delle forze dell’ordine e dei professionisti legali coinvolti nel caso. Dio sa quante altre volte una buffonata di questo genere sarà andata in scena in America. Il buonsenso mi ha suggerito che c’era qualcosa che non andava nella vicenda. Ma il fatto che una verità così ovvia sia stata ignorata solleva la domanda più importante: quanto è frequente tutto ciò?”.
Fine di questa storia di destini incrociati, capaci di interferire reciprocamente. Di pentimenti, revisioni e speculazioni. Di ferite che non si rimarginano. Di quella notte di maggio. Della ragazza che torna dalla festa. Dell’uomo nero. Del terrore dell’altro. Della guerra civile silenziosa. Del provvidenziale imbroglione. Dell’America del Novecento, che continua a sembrare più vera di quella del presente. E che si ripropone come il modello autentico, in tutto il bene e in tutto il male. Sembra perfino di sentire una colonna sonora per i titoli di coda. Che ne dite di un vecchio Stevie Wonder, smagliante e analogico, da “Songs in the Key of Life”, anno 1975? Perché questo paese fatica a staccarsi dalle sue eterne contraddizioni e da tutta quella energia, che ora sembra mancargli.