Apologia della virilità
La virtù al centro del libro di Harvey C. Mansfield del 2006, da poco ripubblicato con una traduzione rivista. Un'analisi razionale che smentisce la vicinanza con la "mascolinità" e l'aggressività, e arriva a una definizione del coraggio filosofico, al tempo della società sessualmente neutra
Pubblichiamo la prefazione di “Virilità”, il libro di Harvey C. Mansfield scritto nel 2006 e da poco ripubblicato dalla casa editrice Liberilibri (432 pp., 20 euro) in una traduzione rivista da Michele Silenzi.
Questo è un libro sulla virilità. Che cos’è la virilità? Conviene partire da esempi concreti che già conosciamo: gli eroi dello sport, troppo numerosi per poterli nominare tutti qui; Margaret Thatcher (come? virile, una donna?), ex primo ministro della Gran Bretagna, oggi considerata la donna più potente della nostra epoca; Harry S. Truman, il presidente degli Stati Uniti famoso per i suoi severi richiami al senso di responsabilità; Humphrey Bogart in Casablanca, nel ruolo del cinico e risoluto Rick, cool prima ancora che la parola cool diventasse di moda; gli agenti di polizia e i pompieri di New York, che l’11 settembre 2001 diedero prova di grande coraggio. La virilità cerca il dramma, è pronta ad accoglierlo, predilige tempi di guerra, conflitti, situazioni di rischio. Innesca il cambiamento o viceversa ripristina l’ordine quando la normale routine non è più sufficiente, le strategie falliscono, la fiducia nel controllo razionale della scienza moderna si incrina. La virilità è l’ultima carta da giocare, la risorsa cui attingere prima di cedere alla rassegnazione e alle preghiere.
Oggi viviamo in una società che ha finalmente accolto un modello di giustizia radicalmente nuovo: la neutralità di genere. In questa nuova società – la società sessualmente neutra – l’identità sessuale non determina i diritti e i doveri del singolo né il suo ruolo, ma è diventata piuttosto un ostacolo irrazionale al compimento della piena libertà e dell’efficienza sociale poiché, subordinando la donna all’uomo, non consente di trarre vantaggio anche dalle sue capacità. La virilità, qualità attribuita di fatto a uno solo dei due sessi, impedisce che vi sia una distribuzione equa, o comunque razionale, di compiti e ricompense tra uomini e donne; sembra quasi che incoraggi un pregiudizio di superiorità degli uni sulle altre. Proprio da qui prende le mosse il mio libro, dalla virilità intesa come ostacolo irrazionale a un progetto razionale mirato a rimuovere quel pregiudizio. Il mio obiettivo, tuttavia, è riuscire a convincere i lettori più scettici (soprattutto le lettrici più istruite) che vale l’esatto contrario: la virilità, in tutta la sua irrazionalità, merita di essere difesa dalla ragione.
In effetti, inizialmente avevo pensato di intitolare questo libro Moderata apologia della virilità, ma gli uomini virili non sono moderati e io non ci tengo a passare per uno che, per codardia o per snobismo, mette le mani avanti ancor prima di cominciare. In ogni caso, la mia conclusione rimane la stessa: la virilità merita una “moderata difesa” che tenga conto dei pregi e dei difetti che ciascuno può riscontrare in essa. Siamo tutti pronti a elogiare la necessità dei suoi risvolti positivi (la virilità dei soccorritori dell’11 settembre) e siamo altrettanto pronti a bollare come assolutamente non necessari quelli negativi (la virilità dei terroristi delle Twin Towers). Ma è possibile avere gli uni senza gli altri? In genere, ciò che è buono, pensiamo ad esempio al vino francese, è buono nella maggior parte dei casi e solo accidentalmente cattivo. Nel caso della virilità, invece, le proporzioni cambiano: la virilità sembra essere per metà buona e per metà cattiva. Forse è buona perché è anche l’unico antidoto contro i problemi che essa stessa causa. Ecco cosa intendo quando dico che va difesa con moderazione.
La virilità riguarda tutti noi da vicino, è qualcosa che chiunque può riconoscere. Il senso comune ha molto da dirci sulla virilità e io condivido gran parte di quello che dice. Mi piace la schiettezza con cui difende gli stereotipi sui due sessi. Non provo invece altrettanta simpatia per le due discipline scientifiche che studiano la virilità, la psicologia sociale e la biologia evoluzionistica, sebbene entrambe confermino ampiamente gli stereotipi del senso comune. Gli studi degli psicologi sociali si prestano bene a smentire chi sostiene che non esistono differenze tra i sessi o che, se anche esistessero, sarebbero facilmente superabili; e poi c’è un innegabile fascino nel veder dimostrate in modo oggettivo piccole ma significative differenze tra le modalità con cui uomini e donne affrontano le stesse situazioni nella vita di tutti i giorni. Si tratta di differenze evidenti per chiunque si prenda la briga di osservare e che già sono diventate degli stereotipi. Ma è sempre rassicurante constatare come il metodo scientifico conduca a confermare fatti che già conosciamo.
Tuttavia, rimango alquanto critico nei confronti del modo in cui la scienza tratta la virilità. Sia la psicologia sociale sia la biologia evoluzionistica, infatti, si occupano soltanto della manifestazione più rozza della virilità, l’aggressività, ignorando del tutto, invece, il fenomeno dell’assertività virile. Un uomo virile si fa valere affinché la giustizia in cui crede non resti inascoltata. Si espone per richiamare l’attenzione su ciò che ritiene importante, talvolta su questioni molto più grandi di lui (come la natura e il valore della civiltà occidentale, nel caso delle forze dell’ordine di New York e dei fascisti islamici). Di fronte a questioni così grandi e così importanti per l’essere umano, queste due discipline, e più in generale tutta la scienza, mostrano di sentirsi a disagio. Si tratta di un grave limite per lo studio della virilità, un limite che ritengo inaccettabile. Il fatto è che la scienza non è neanche in grado di comprendere a fondo l’aggressività, visto che ignora completamente il thumos, fenomeno noto a Platone e Aristotele ma in seguito abbandonato perché sfigurava nel programma della scienza moderna. Il thumos è una qualità dell’animo, presente sia negli esseri umani sia negli animali, che spinge gli uomini, in particolare gli uomini virili, a rischiare la vita per salvarsi la vita. Si tratta di un paradosso ben familiare a chiunque abbia mai provato la fame. Eppure, quasi non se ne trova traccia nella letteratura scientifica sulla virilità. Siccome la virilità vive di quel paradosso, deve essere necessariamente più complessa del banale istinto all’aggressione, alla dominazione e all’autoconservazione a cui la scienza cerca sempre più di ridurla. Ho fatto tutto ciò che potevo per sviluppare i temi dell’assertività e del thumos rispetto alla virilità e il mio libro (ecco un esempio di asserzione virile) è l’unico in cui potrete trovare una trattazione della virilità sia nel suo complesso sia rispetto a queste sue due componenti.
In altre parole, ciò che mi preme sottolineare è che la mia riflessione sulla virilità si spinge oltre le interpretazioni, pur interessanti, che ne dà la scienza, e ne sviluppa in modo particolare due aspetti che ritengo fondamentali. Dopo aver sottoposto a disamina critica le posizioni della scienza sociale e della biologia darwiniana, mi rivolgo, infatti, alla letteratura e alla filosofia, che tanto hanno da insegnare anche sulla virilità. La quantità di materiale interessante è tale da costringermi a selezionare soltanto pochi esempi tra quelli più rilevanti. Non sono disponibili molte opere dedicate interamente alla virilità, ma quasi tutti i più grandi scrittori e filosofi hanno scritto qualcosa sul tema. Tra quelli che ho raccolto qui, alcuni li ritengo illuminanti, come William James o gli Stoici; altri sono assolutamente da citare per la loro simpatia, come Teddy Roosevelt, Tarzan (non sarà uno scrittore ma è più scaltro di quanto si pensi) e Hemingway; due di loro, Platone e Aristotele, sono addirittura essenziali. So che alcuni lettori pensano che non ci sia nulla da imparare da bei discorsi privi di numeri e grafici; il mio consiglio è di avere pazienza e giudicare i risultati. Nell’attesa, provate a riflettere su questo: tanto la narrativa quanto la saggistica mirano a illustrare la verità.
Attingerò dunque a fonti di natura diversa e le presenterò in una serie di episodi che non seguono un preciso ordine cronologico, bensì il filo rosso della mia argomentazione. Il discorso si svilupperà a partire da ciò che ci è più familiare, gli stereotipi sulla virilità, per arrivare a ciò che lo è meno, ma che è forse più utile: la saggezza di Platone e Aristotele. Non stupitevi, dunque, se la definizione di virilità cambierà man mano che ci allontaneremo dalla dimensione dell’aggressività per avvicinarci a quella del coraggio filosofico.
Un’altra peculiarità del mio libro è l’analisi dei diversi livelli in cui si manifesta la virilità. La maggior parte degli studi scientifici si preoccupa di individuare caratteristiche presenti in tutti i maschi, rimanendo così schiacciata su un minimo comun denominatore che forse coincide più con un concetto di mascolinità. La virilità conosce invece gradazioni diverse. Non è un caso se gli uomini virili sono portati a esprimere giudizi avversi non soltanto verso le donne, ma anche verso quei maschi che non corrispondono ai loro standard. A un certo livello, la virilità è probabilmente una caratteristica comune a tutti i maschi; a un livello superiore, invece, è propria soltanto del circolo ristretto degli uomini più virili, di cui potrebbero far parte anche alcune donne. A un livello ancora più alto, poi, la virilità diventa una virtù (anche se poco fa ho affermato che in realtà è qualcosa di neutro, a metà strada tra il buono e il cattivo): la virtù dei coraggiosi, o forse dei gentiluomini. E, salendo ancora, può addirittura assurgere ad attributo del pensiero, come coraggio di opporsi all’opinione convenzionale.
Non intendo far mio il mestiere di chi denuncia il tramonto dell’ideale del gentiluomo nella società contemporanea. Posso anche mostrarmi solidale con quanti si impegnano in questa battaglia, ma ritengo che il concetto di gentiluomo in realtà presupponga quello di virilità e a essere in crisi, oggi, è proprio la virilità. Chi volesse sapere cosa significa essere un vero gentiluomo può leggere il Tom Jones di Henry Fielding, che ne offre un bell’esempio nel personaggio di Squire Allworthy. E’ vero, oggi un uomo deve lottare per affermare se stesso, ma il vero problema non è trasformare un uomo in un gentiluomo, bensì capire cosa significa essere uomo. Se pensiamo a quanti uomini virili sono grezzi e rudi, allora la virilità è sicuramente qualcosa di più basso rispetto a un gentiluomo; se però pensiamo alla virilità così rara e poco celebrata dei filosofi, allora capiamo che può anche essere qualcosa di più elevato. La maggior parte degli studi scientifici non prende in esame i diversi livelli della virilità e non riesce quindi ad andare oltre la dicotomia elementare tra natura e cultura. La scienza si occupa di un minimo comun denominatore che, come abbiamo visto, si avvicina più a un concetto di mascolinità: quando lo trova parla di “natura”, quando invece non lo trova definisce la virilità una forma di “cultura”. Le cose si complicano, naturalmente, quando si osserva la varietà di forme che la virilità può assumere (pensiamo alla differenza che separa un cavaliere di re Artù da uno yankee del Connecticut), ma in questi casi la scienza dà un colpo al cerchio e uno alla botte, concludendo che la virilità viene sia dalla natura sia dalla cultura, e il discorso si chiude lì. In questo libro cerco di superare questa dicotomia, offrendo un resoconto dell’opposizione tra natura e cultura in cui l’assertività virile è la protagonista principale e la politica è la chiave di tutto. Cerco di rendere giustizia sia agli scienziati in camice bianco che sostengono che la virilità rientra nella sfera della natura, sia ai seguaci del decostruzionismo e della creatività, nei loro completi sgualciti o nei jeans neri, per i quali la virilità è cultura. Il punto cruciale della disputa è che natura e cultura possono sovrapporsi, non soltanto escludersi a vicenda.
Non è possibile isolare le due componenti e dire, per esempio, che sputare davanti alle telecamere (comportamento tipico degli atleti maschi ma assente tra le atlete) è per un 25 percento frutto della natura e per il restante 75 frutto della cultura. Il mio libro mira a comprendere la virilità nel suo complesso senza pretendere di spiegarne ogni aspetto. Per esempio, non ho affrontato il tema dell’omosessualità, che lascio ad altri, e non ho considerato il contributo fornito dagli studi di neurofisiologia sulle differenze tra i sessi. Mi sono soffermato più a lungo su Nietzsche che su Freud (ma sono certo che di questo i miei lettori saranno lieti). Ho lasciato fuori dalla discussione anche alcuni grandi scrittori, come Shakespeare e Cervantes, che pure meritano di essere studiati per le loro affascinanti riflessioni sulla virilità. Gli autori che ho scelto non sono trattati in maniera approfondita ma utilizzati per illustrare alcuni aspetti o problemi legati alla virilità. Quello che intendo mostrare è un metodo diverso e più ambizioso di scienza della politica, capace di avanzare con le dovute cautele, ma senza timore di fronte ai grandi interrogativi.
Passando ora dalle scuse ai ringraziamenti, sono grato a tutti coloro, amici e sconosciuti, che hanno voluto inviarmi i loro suggerimenti non appena hanno saputo che stavo scrivendo un libro su questo argomento. Un autore corre sempre un rischio quando scrive di qualcosa su cui ciascuno ha già una sua opinione personale, ma del resto correre rischi è virile. O forse è sciocco; e la virilità, allora, è sciocca? Davvero sarò capace di accettare di buon grado ogni critica negativa al mio libro? La virilità ama, ama fin troppo, vedersi accerchiata e sentirsi sola contro il mondo. Ecco un’altra tesi di fondo del libro.