Emily in Paris (Netflix)

In difesa di Emily in Paris, leggerezza allo stato puro

Mauro Zanon

Francesi e inglesi storcono il naso. E l'Ucraina scomoda persino il ministro della Cultura per criticare la serie Netflix. Che invece è una commedia romantica da sorseggiare come un buon bicchiere di champagne e il cui successo sta tutto nei cliché. Deliziosissimi

La seconda stagione di Emily in Paris, la serie Netflix che racconta le avventure di una giovane americana a Parigi, tra innamoramenti, champagne a profusione, lusso e feste instagrammabili, è un successo di pubblico come lo è stata la prima stagione. Perché è scritta benissimo (da Darren Star) e recitata con freschezza (da tutti gli attori, nessuno escluso); perché è una commedia romantica che si sorseggia episodio dopo episodio come un buon bicchiere di Veuve Clicquot; perché è leggera e di leggerezza ce n’è incredibilmente bisogno in questo periodo. Eppure, in questi giorni, come accadde in occasione dei primi episodi usciti nell’autunno 2020, è tutto un arricciare il naso, un puntare il dito contro gli “insopportabili stereotipi” veicolati dai personaggi della serie, con schiere di critici agguerriti che analizzano Emily in Paris come se dovessero analizzare un film di Akira Kurosawa, o peggio, per restare ai nostri giorni, l’ultima opera di Apichatpong Weerasethakul, maestro del silenzio (e della noia).

 

“Una stagione fallita con ancor più stereotipi della prima”, scrive il Parisien, che si indigna non solo perché i francesi sono raffigurati come persone pigre, che arrivano tardi al lavoro, che fanno una pausa pranzo infinita, che pensano soltanto a bere vino e a “faire la fête”, ma anche perché Emily (Lily Collins), nel quinto episodio, gira per Parigi con una Vespa e con un casco griffati Dior, dopo aver abbandonato l’ufficio dell’azienda di marketing per cui lavora, Savoir. “La Parigi di Emily non è quella di milioni dei francesi”, sottolinea il Parisien, dimostrando di non conoscere il significato di leggerezza, prima di aggiungere: “L’americana vive nel suo grande loft a un prezzo irrisorio, passeggia per i quartieri chic della capitale, abbandona la rive gauche solo per andare a lavorare. Ma non in un posto qualsiasi: lavora accanto al Palais Royal”.

   

Per il Parisien, il problema è anche il film che Emily va a vedere al cinema con lo stravagante collega di lavoro Luc: “Quando Emily va al cinema con uno dei suoi colleghi, va allo Champo (Quinto arrondissement). E naturalmente non per andare a vedere Les Tuche (film popolare, ndr), ma per l’ennesima replica di Jules & Jim di François Truffaut”.

 

Non c’è un giornale francese che abbia avuto indulgenza per la serie, tutti, chi più chi meno, hanno vergato articolesse per denunciare persino i vestiti che indossa Emily. “Il suo guardaroba non è altro che un’accozzaglia di abiti démodé e di accessori strambi. A Parigi, Chicago o New York, non si vedono più donne che camminano con i tacchi alti ai nostri giorni, indossano invece scarpe da ginnastica, stivaletti bassi o Birkenstock per accompagnare una sottoveste”, scrive Vogue, aggiungendosi alla lista dei bacchettatori.

 

Anche gli inglesi si sono arrabbiati per il personaggio di Alfie, il giovane banchiere londinese di cui Emily si innamora nella seconda stagione: perché beve troppa birra, va sempre al pub ed è un tipo sempliciotto, insomma è lo stereotipo del cittadino della vecchia Albione. Ma il trofeo degli indignados è vinto a mani basse dall’Ucraina, che ha scomodato persino il ministro della Cultura per manifestare la propria stizza contro la serie ideata da Darren Star. Il motivo? Nel quarto episodio, Petra, una ragazza ucraina che Emily conosce al corso di francese, ruba abiti e borse nei grandi magazzini Samaritaine, oltre ad avere pessimo gusto nel modo di vestirsi e scarsa conoscenza della letteratura. “Emily in Paris rappresenta un'immagine caricaturale della donna ucraina, che è inaccettabile. Ed è anche offensivo. Ma è così che sono visti gli ucraini all’estero?”, ha attaccato il ministro della Cultura di Kiev, Oleksandr Tkachenko.

  

La migliore risposta l’ha data la produttrice Natalka Yakymovych, ucraina pure lei: “Dunque in una serie tv i personaggi negativi possono essere di qualsiasi origine, ma non ucraini? Ovviamente avremmo tutti preferito che venisse da Mosca, ma non si ha sempre quello che si vuole”.
 

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