(1960-2022)
La morte come stato di perfezione: un ricordo di Vitaliano Trevisan
Nell'opera dello scrittore e drammaturgo veneto, morto a 61 anni, c'era molto del genio di Thomas Bernhard. L'incontro con Garrone e la realizzazione insieme del suo film più cupo "Primo amore"
Se la morte è uno stato di perfezione, come scrisse Emil Cioran in ‘Squartamento’, è certo che Vitaliano Trevisan, drammaturgo, eclettico scrittore, attore, librettista, scomparso il 7 gennaio scorso, improvvisamente e a soli 61 anni di età, abbia raggiunto quella perfezione che tutti i suoi protagonisti, frammenti eterei di una ricerca senza sosta, tradivano con la loro ontologia della imperfezione.
Trevisan, di origini vicentine, aveva raggiunto la notorietà agli inizi degli anni duemila, con un breve, incisivo e sofferto romanzo, edito da Einaudi: ‘I quindicimila passi’, storia di ossessioni, di mantriche ripetizioni, di una deriva esistenziale puntellata, come T.S. Eliot aveva puntellato le proprie rovine coi versi, da tic, ripetizioni, numerologia, piccoli rituali quotidiani.
In quel romanzo, il protagonista aveva ingabbiato il mondo intero e la propria consistenza in una misurazione inesauribile: ogni tragitto, ogni percorso, ogni deviazione improvvisa segnata sul selciato con un gessetto tenuto scrupolosamente e gelosamente in tasca. Narratore di fantasmi e di inquietudini ellittiche, di perturbamenti come potevano essere quelli liminali dell’Henry James de ‘Il Giro di vite’ o di quella autentica colata lavica di gelo emotivo rappresentata dal corpus letterario di un Thomas Bernhard.
In ogni pagina, fosse quella dei lillipuziani racconti, affilati come cesoie, di ‘Shorts’ o la librettistica cupamente strindberghiana di ‘Il delirio del particolare. Ein Kammerspiel’ o ancora i recenti ‘Works’, messa a punto sul dramma dell’obbligo sociale di integrazione e del dover lavorare senza potersi lasciar andare al deliquio fruttuoso del nulla, e lo struggente ‘Il ponte’, il cui protagonista, Thomas, suona davvero come un Bernhard condannato al perenne ricordo.
E con Bernhard, Trevisan aveva anche in comune l’idea di una sotto-definizione capillare del tessuto narrativo, quella idea di dover punteggiare i propri lavori con un sottotitolo operante come sottotesto carsico: ‘Un resoconto’ per definire ‘I quindicimila passi’, ‘Un crollo’ per ‘Il ponte’.
Ma c’è un altro Trevisan che andrebbe ricordato, per non far smarrire il senso prezioso e dolente di ciò che questo meraviglioso e certamente poco conosciuto artista è stato: il Trevisan sceneggiatore e, straordinario, sì assolutamente straordinario, e sia detto senza enfasi ma solo con ammirata partecipazione, co-protagonista, con Michela Cescon, di uno dei più cupi film di Matteo Garrone. ‘Primo amore’, del 2004.
Assai liberamente ispirato alla vicenda, umana e criminale, di Marco Mariolini, il ‘cacciatore di anoressiche’, che del suo caso aveva fatto memoir psicanalitico, edito pure in formato librario, e con cui aveva non solo illustrato le sue parafilie ma proprio anticipato il crimine che avrebbe in seguito commesso: feticista dell’anoressia, pro-ana si direbbe oggi con quel linguaggio da social media che sembra catalogare una innocua casellina da sito porno e che invece tradisce pienissima discesa nel baratro carnicino dell’auto-annullamento.
E per chi lo abbia visto, il vero Mariolini, in quella puntata sulfurea di Storie Maledette, al cospetto di una grave e notarile Franca Leosini, lui con metà volto barbuto e l’altra metà debitamente sbarbata, occhi scintillanti, aperti su orizzonti interiori di isolamento emotivo senza speranza di guarigione, incuteva un timore nerastro, come quello che si proverebbe al cospetto del nietzschano abisso.
E che fece il Mariolini? Costrinse alla fame, letteralmente, una ragazza, tra vessazioni, coercizione, umiliazioni ripetute, salvo poi vederla fuggire e cercare di riacciuffarla in un tragico finale: una sorta di dramma dell’assurdo dentro cui a volerle trovare languiscono metafore per i prossimi tre decenni, e che culminò invece con ventidue coltellate che posero fine alla vita della ragazza e che costarono trenta anni di galera al Mariolini.
E furono grandiosi Trevisan e Garrone a fare di questa storia non una trita metafora dello sdilinquimento quotidiano, del consumismo che consuma, quanto piuttosto una narrazione cristallina e un soliloquio sulla solitudine, sulle urgenze viscerali e sulla unilateralità crudele dello squartamento emotivo: perché in quel ‘Primo amore’, che tradiva l’appropriazione feroce di una cronaca nera traslata in seno alla deriva compiuta dell’esistenza e che Garrone aveva già detournato copiosamente ne ‘L’imbalsamatore’, tragica rilettura della vicenda di Domenico Semeraro, nano tassidermista con studio nei pressi della stazione Termini protagonista di un inquietante fatto di eros e thanatos, di ossessioni e di distruzione emotiva, c’era esattamente la lineare prosecuzione di questa deriva verso il nulla, destino inenarrabile di chiunque sia preda di grandi passioni.
Come riconobbe Albert Caraco, in ‘Post mortem’, la cosa migliore sarebbe non amare nessuno, e per fare ciò dovremmo cominciare proprio da noi stessi: e i protagonisti di ‘Primo amore’, come già prima de ‘L’imbalsamatore’ cercano disperatamente di annullarsi, di smettere di potersi dire innamorati, preda di una caduta ancestrale nel gorgo della autocontemplazione.
Vorrebbero chiamarsi fuori, distruggersi aderendo al progetto esistenziale di vite vuote, interrotte, spezzate, frammenti vomitati fuori da una tenerezza che nessuno sguardo potrà mai cogliere. In questo, la sceneggiatura di ‘Primo amore’ è assolutamente figlia del modo, ctonio, di approcciare la materia narrativa che Trevisan aveva e nutriva.
La mano. La mano di Trevisan che sembra carezzare il corpo sempre più scheletrito della Cescon, costretta da un sadico e masochistico gioco di nullificazione semi-volontaria, sembrerebbe gesto di passione, di condivisione, ed invece è solo esplorazione di sé stessi, autoreferenziale e concentrico girone d’inferno che cesella la riuscita del proprio esperimento.
Non a caso, il protagonista, Vittorio, alter ego metafisico di Trevisan, è un imprenditore orafo. Assiste alla trasformazione alchemica dell’oro, al cesellare materia inerte per assegnarle un valore, traslando poi questa materializzazione nella sessualità e in una passione che tutto avvolge, inghiotte e che lo porta in analisi: la passione, quella per la estrema magrezza, quella che conduce al gelo senza speranza di redenzione.
Lui e Sonia, tragico incontro di due solitudini asimmetriche, convogliate da una forza oscura verso il medesimo annuncio per cuori solitari, proprio come i rituali matematici del protagonista de ‘I quindicimila passi’, si annullano l’un dentro l’altro, continuando pur nella loro relazionalità malata, algida, cupa, ad essere tragicamente soli.
Soli nella ossessione. Soli nella morte. E per questo, come Trevisan, perfetti.