Voti a perdere. Chi sono i franchi tiratori per il Quirinale
Alleanze, patti e convergenze. Ma alla fine i tradimenti dovuti al voto segreto hanno sempre deciso l’elezione del presidente della Repubblica
C’è chi li considera il “sale della democrazia parlamentare”, e chi “topi che escono dalla tana”. Possono essere mossi da motivazioni nobili (il diritto al dissenso) o meschine (la tutela delle proprie sinecure). In ogni caso, se i franchi tiratori sono stati importanti quando i partiti erano forti e i loro segretari rispettati e temuti, in un sistema politico rissoso e frammentato il loro potere di interdizione può risultare determinante. E la corsa al Colle oggi rischia di essere condizionata dagli umori dei “peones”, che vedono con il fumo negli occhi la prospettiva di elezioni anticipate, sapendo che molti di loro – anche in virtù del drastico taglio dei seggi – torneranno a casa.
Ma chi sono i franchi tiratori? Il termine appare per la prima volta nei reportage dei giornalisti che seguivano la guerra franco-prussiana del 1870. La sua origine è francese, e designava i soldati (“francs-tireurs”, dove “franc” significa libero) di una compagnia non inquadrata in un esercito regolare, dotata perciò di ampia autonomia nella scelta degli obiettivi e delle forme di lotta armata (spesso simili alla guerriglia dei tempi moderni). Lo slittamento semantico del termine dal campo militare a quello politico risale agli albori della Repubblica, anche se la storia parlamentare del Regno d’Italia è ricca di “tradimenti” grazie al voto segreto (ne fece le spese anche il primo governo Cavour), un istituto già previsto dallo Statuto Albertino del 1848. Il fascismo si affrettò ad abolirlo, modificando il regolamento della Camera, subito dopo la marcia su Roma.
Da noi i franchi tiratori entrano in scena nel 1948, quando De Gasperi candida al Quirinale il ministro degli Esteri Carlo Sforza, gradito agli americani. Il leader democristiano è convinto di poterlo eleggere almeno alla quarta votazione. Le cose però si mettono male. La mattina del 10 maggio, quando termina il primo scrutinio, De Gasperi capisce che le elezioni del 18 aprile hanno sconfitto il Pci, ma hanno anche sancito la divisione della Dc in fazioni contrapposte: Sforza riceve solo 353 voti, mentre Enrico De Nicola lo supera con 396 voti. La fronda viene attribuita ai “professorini” vicini a Giuseppe Dossetti (Aldo Moro, Amintore Fanfani, Giorgio La Pira, fra gli altri), che non amavano Sforza anche per la sua fama di anticlericale e libertino. Alcuni seguaci di Dossetti gli rimproveravano perfino di avere l’abitudine di girare nudo per casa turbando le monache che abitavano di fronte.
De Gasperi affida così a Giulio Andreotti, Attilio Piccioni e Guido Gonella il compito di dare a Sforza il benservito. Il ministro accoglie la delegazione in vestaglia e monocolo mentre prepara il suo discorso di insediamento: sulla scrivania c’è un foglio sul quale si poteva leggere: “Signori senatori, signori deputati...”. “Eccellenza, non so come dirlo, ma la Dc non può più sostenere la sua candidatura”, balbetta un imbarazzato Andreotti. Sforza corruga la fronte, ma dissimula la delusione con grande eleganza: “Per carità, capisco benissimo, meglio così”. Ma il tempo stringe e bisogna trovare rapidamente un’alternativa. All’una di notte si riunisce la direzione Dc, che però non scioglie il nodo. De Gasperi decide allora di rompere gli indugi. La figura di Luigi Einaudi gli sembra l’unica, per la sua autorevolezza, in grado di ricompattare la Dc e la maggioranza. Alle quattro di notte è proprio Andreotti a comunicare al senatore liberale che sarà il nuovo candidato al Colle. “Per me va bene. Però c’è un grave inconveniente. Sono zoppo: come farò a passare in rassegna le truppe durante le parate?”, chiede Einaudi. “Non si preoccupi, potrà farlo in automobile”, è la risposta serafica del giovane politico romano. E così l’11 maggio 1948, dopo un terzo scrutinio andato a vuoto, con 518 voti su 900 (871 presenti), lo stimatissimo economista piemontese, antifascista storico ma monarchico convinto (almeno fino al referendum costituzionale), diventa il primo presidente della neonata Repubblica con i voti di Dc, liberali, socialdemocratici e repubblicani.
L’elezione di Giovanni Gronchi (28-29 aprile 1955), su cui convergono i voti di socialisti e comunisti, è teatro di due curiosi episodi. Appena terminato il quarto e decisivo scrutinio, Gian Carlo Pajetta e Velio Spano fanno portare dai commessi un Cynar liscio ai banchi del governo dove era seduto Mario Scelba, che all’epoca guidava il governo. L’invito a dimettersi era esplicito. Lo farà due mesi dopo. Dal canto suo, l’ambasciatrice americana a Roma Claire Boothe Luce, alla proclamazione di Gronchi, personalità indigesta all’Amministrazione americana, abbandona platealmente le tribune dell’aula di Montecitorio.
L’elezione di Antonio Segni (nono scrutinio, 2-6 maggio 1962) si svolge in un clima di forte tensione nella Dc. Moro sostiene Segni ma un nutrito gruppo di franchi tiratori vota per Attilio Piccioni e Giovanni Leone. I morotei non si scoraggiano, e ricorrono a uno stratagemma: ritirano dai commessi due schede e le consegnano precompilate ai loro colleghi sospettati di non avere “le idee chiare”. L’escamotage viene subito scoperto, tanto che un indignato Giuseppe Rapelli, uno dei fondatori della Dc, sbotta: “Bisognerebbe votare nudi”. Tuttavia , nonostante le numerose proteste, sortisce l’effetto desiderato e dopo altri quattro giorni di votazioni Segni viene eletto.
L’elezione di Giuseppe Saragat (16-28 dicembre 1964) avviene dopo il ventunesimo scrutinio. Il candidato della Dc è Giovanni Leone ma Moro, presidente del Consiglio, è contrario. Convoca a Palazzo Chigi Carlo Donat-Cattin, leader di Forze Nuove. Gli spiega il suo obiettivo ma lascia a lui a la scelta dei “mezzi tecnici”. Donat-Cattin riunisce la sua corrente ed è categorico: “I mezzi tecnici sono solo tre: il pugnale, il veleno e i franchi tiratori”. Da quel momento, il termine viene definitivamente sdoganato ed entra a spron battuto nel lessico politico nazionale.
Nel 1971 Fanfani, presidente del Senato e in corsa per il Quirinale, affronta nella buvette di Montecitorio uno dei principi del giornalismo italiano, Vittorio Gorresio, accusandolo di non dire la verità: “I tuoi articoli li tagliano i tuoi padroni”. Il giornalista della Stampa risponde il giorno dopo con poche righe: “Il linguaggio del senatore Fanfani non si addice a un presidente, anche solo del Senato”. Più caustico un franco tiratore, che sulla scheda verga un distico divenuto famoso: “Nano maledetto, non sarai mai eletto”. Alla fine Fanfani si ritira e viene eletto al ventitreesimo scrutinio Giovanni Leone (9-24 dicembre 1971).
E’ Oscar Luigi Scalfaro a presiedere la seduta durante la quale sarà poi eletto al Quirinale (sedicesimo scrutinio, 25 maggio 1992). Dopo i tatticismi iniziali, la prima candidatura che viene bruciata è quella del segretario Dc Arnaldo Forlani. La situazione di stallo proseguirà per dieci giorni, con la rapida bocciatura di tutte le candidature avanzate. A sbloccarla fu, il 23 maggio 1992, la strage di Capaci in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie e alcuni uomini della scorta. Un evento tragico e dal forte impatto emotivo, che spinse il Parlamento a trovare un rapido accordo su un candidato istituzionale.
La tecnologia dei fax entra nell’elezione del presidente della Repubblica quando un gruppo di intellettuali, politici e artisti lancia la candidatura di Emma Bonino. Indro Montanelli e Franca Rame, Rita Levi Montalcini e Lucio Dalla, Margherita Hack, Umberto Veronesi e Claudia Cardinale trascinano il nome della storica esponente radicale a cavalcare i sondaggi grazie a una campagna condotta con tradizionali banchetti per strada ma anche attraverso l’uso massiccio, appunto, di messaggi via fax. Il Parlamento però non si lascia influenzare, e la candidatura di Carlo Azeglio Ciampi lanciata da Walter Veltroni, sostenuta da Romano Prodi e suggellata da un patto tra Massimo D’Alema e Silvio Berlusconi, nonostante un centinaio di franchi tiratori giunge al successo al primo scrutinio per la seconda volta nella storia repubblicana (13 maggio 1999) dopo quella di Francesco Cossiga (24 giugno 1985).
Il nome di Giorgio Napolitano è avanzato dall’Unione di Prodi dopo aver constatato l’impossibilità di una convergenza tra la coalizione di centrosinistra e la Casa della libertà. Berlusconi dichiara la sua ostilità nei confronti dell’ex dirigente comunista e impone ai suoi parlamentari di non partecipare al voto. Per sicurezza, li costringe a sfilare sotto ai catafalchi (le cabine elettorali) a passo di carica, senza sostare nemmeno un secondo dietro le cortine di velluto bordeaux. Prodi, che a breve diverrà premier, ironizza: “Correvano come bersaglieri”. Berlusconi, che aveva imposto la candidatura di Gianni Letta, prende atto di un centinaio di defezioni tra le sue file e opta per la scheda bianca. Napolitano verrà eletto al quarto scrutinio (10 maggio 2006), con 543 voti, 38 in più del quorum.
La fisionomia bipolare del sistema politico italiano viene travolta il 23-24 febbraio 2013 con l’inatteso exploit del M5s. Il 17 aprile il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, stipula con il Polo della libertà e Scelta civica di Mario Monti un’intesa sulla candidatura di Franco Marini. L’indomani, al primo scrutinio, Marini ottenne 521 voti, 200 in meno della somma di cui disponevano le tre forze politiche che avevano siglato l’accordo. Alla vigilia del quarto scrutinio, con un cambio radicale di scenario, Bersani propone ai grandi elettori del suo partito la candidatura di Prodi, approvata per acclamazione. Il 19 aprile, al quarto scrutinio, in cui era prevista la maggioranza semplice fissata a 504 voti (il solo centrosinistra ne disponeva di 496), il Professore ottiene 395 preferenze, bocciato da almeno 101 franchi tiratori. Il Pd, lacerato da guerre intestine che si erano tradotte nella prassi brevettata dalla Dc durante la prima Repubblica, si trova nel caos più completo. Il resto, ovvero il percorso che porterà al secondo mandato di Napolitano (quarto scrutinio, 18-23 aprile 2013), è cronaca.
L’elezione di Sergio Mattarella (quarto scrutinio, 29-31 gennaio 2015) vede all’opera non i franchi tiratori ma i “franchi sostenitori”, come vengono designati con un neologismo. Infatti, il giudice della Consulta voluto da Matteo Renzi, ma osteggiato da Berlusconi, incassa una inaspettata cinquantina di voti del centrodestra. Ciononostante, nell’aula di Montecitorio le votazioni si susseguono senza troppe polemiche. Protestano solo i parlamentari della Lega al primo scrutinio, esibendo una vecchia pagina del quotidiano il Manifesto su cui campeggia il titolo: “Non moriremo democristiani”.
Concludo queste brevi note con una postilla. Il 12 maggio 1948 Luigi Salvatorelli, ragionando sulla ventilata candidatura di Einaudi al Quirinale, scriveva: “Ci riferiamo al criterio, messo davanti con insistenza quasi pregiudiziale, che il presidente dovesse essere scelto all’unanimità, o almeno a grande maggioranza. C’è in tale criterio un nucleo sano: il desiderio che il Capo dello Stato sia persona di largo e sicuro prestigio, al di là delle divisioni di parte. Sarebbe però errato e pericoloso il pretendere che la [sua] elezione equivalga a una specie di embrassons-nous che confonda tutti i partiti […], all’infuori di ogni distinzione e contrapposizione politica. In regime democratico parlamentare la scelta del Capo dello Stato non può non presentare una rispondenza al volere della maggioranza elettorale e parlamentare […].Ove invece il criterio della larghissima maggioranza per l’elezione del presidente della Repubblica sia portato agli estremi, esso può ipso facto rovesciarsi nelle mani dei suoi incauti sostenitori, convertirsi in veto posto dalla minoranza, o dalle minoranze, ai voleri della maggioranza del Parlamento e del popolo sovrano” (La Stampa). Le acute riflessioni dello storico del cristianesimo sono quanto mai attuali, e suonano da ammonimento ai grandi elettori chiamati a scegliere il successore di Mattarella. Una scelta che, parafrasando Winston Churchill, resta tuttora un rebus avvolto in un mistero all’interno di un enigma.