La nostra volontà di potenza messa alla prova dalla pandemia
Alcuni dei più scottanti problemi della cultura moderna sono in gran parte riconducibili a questa sorta di ipertrofia dell’io, un io disposto a riconoscere soltanto ciò che esso stesso costantemente “pone” e costantemente “oltrepassa"
Il sogno umano è da sempre quello di impossessarsi, dominare, essere padroni della realtà, nonostante che questa esista già prima del nostro venire al mondo e consigli per questo un atteggiamento, non dico più umile, ma almeno più conciliante nei suoi confronti. Si tratta di un sogno che ha trovato sicuramente nella scienza moderna il suo propellente ideale, ma la cui espressione più illuminante sta forse da un’altra parte: penso all’idea fichtiana del cosiddetto “autoporsi dell’io” quale fondamento assoluto di ogni conoscenza e di ogni moralità. Chi ha qualche reminiscenza liceale ne ricorda per lo più il lato comico (difficile non farsi una risata di fronte all’io che pone il non-io). Ma nelle sue linee essenziali questa struttura è operante all’interno delle più variegate e talvolta tra loro antitetiche tradizioni del pensiero occidentale: dall’idealismo di Hegel al materialismo di Marx, dalla fenomenologia di Husserl all’esistenzialismo di Sartre, dalla mistagogia di Heidegger alla sociologia di Luhmann. Arte, religione, scienza, politica, la stessa natura non sono altro, per Fichte, che una produzione dell’“io”, il quale conosce veramente qualcosa e agisce in modo veramente libero soltanto nel momento in cui è consapevole di questa sua “originarietà”.
Già Cartesio, come è noto, aveva incominciato a riporre nel soggetto il fondamento di ogni certezza, abbandonando la concezione classica, secondo la quale l’ordine del mondo è qualcosa che gli uomini trovano, a vantaggio di una nuova, secondo la quale tale ordine sarebbe invece qualcosa di costruito. Andando avanti su questa stessa strada, Kant approdò successivamente al cosiddetto “soggetto trascendentale”, considerato, non come una parte del mondo empirico, bensì come il punto di vista a partire dal quale tale mondo viene compreso. Quanto a Fichte, egli radicalizzerà il discorso dicendo espressamente che il mondo, il cosiddetto “non-io”, è in tutte le sue manifestazioni una creazione dell’“io”. Chiunque pensi che esista un mondo al di fuori del soggetto, che ne regoli magari la conoscenza e l’azione, è per Fichte un “dogmatico”. Veramente libero è soltanto colui che sa che tutto è “posto” dall’io. La storia, la tradizione o la natura non contano più come criterio orientativo, come guida della conoscenza e dell’azione; diventano piuttosto tante forme nelle quali il soggetto si “aliena” e si ritrova, prima di rilanciare ogni volta la sua originaria creatività e, in ultimo, la sua presunta assoluta libertà.
Quella sorta di abisso tra l’io e il mondo e tra l’io e gli altri, con il quale deve fare i conti un filone divenuto dominante della cultura moderna, trova in questo modo di pensare fichtiano uno dei suoi propulsori più efficaci. Un io disposto a riconoscere soltanto ciò che esso stesso costantemente “pone” e costantemente “oltrepassa” in virtù della sua libertà è infatti un io destinato a disperdersi, a non fermarsi più da nessuna parte; è un io la cui smisurata volontà di potenza, cozzando inevitabilmente con ciò che la realtà presenta di irriducibile, finisce per renderlo dispotico o vittima della frustrazione. Gli altri, per il semplice fatto di essere “altri” rispetto a me, diventano non a caso un “inferno”, secondo la nota espressione sartriana. E con l’inferno, purtroppo, non ci si concilia; si può soltanto tentare di eliminarlo, magari assimilandolo con la forza, o subirlo come un limite insopportabile.
Alcuni dei più scottanti problemi della cultura moderna: dal problema dell’ordine sociale, concepito quale costruzione intenzionale dell’uomo, a quello di certo individualismo ostile a qualsiasi legame sociale, a quello, infine, riguardante la difficoltà ad accettare l’ineludibile presenza del limite e dell’imperfezione in ogni umana realtà; tutti questi problemi sono in gran parte riconducibili a questa sorta di ipertrofia dell’io di cui stiamo parlando e a quello che negli ultimi secoli è stato il suo strumento più potente: l’apparato scientifico-tecnologico. Autori come Cartesio, Hobbes o Marx, tanto per fare qualche nome significativo, erano convinti che la scienza avrebbe eliminato rispettivamente la malattia, il disordine e l’ingiustizia. Ma se ieri la scienza e la tecnica potevano apparire come il principale alleato della nostra volontà di potenza, oggi le cose non stanno più così. Big data, algoritmi, macchine computazionali potentissime, intelligenze artificiali possono invero ancora solleticarla, ma non per questo la durezza della realtà scompare. La pandemia dentro la quale siamo immersi ne è la prova. Essa ci mostra, non la nostra potenza, ma la nostra fragilità. Ci dice che il nostro io si trova posto in un mondo che in nessun modo siamo noi a porre e la cui resistenza, unitamente a quella rappresentata dai nostri simili, è irriducibile. E’ precisamente nella fragilità delle nostre povere vite che si rispecchiano le luci e le ombre del nostro comune destino. Altro che io che pone il non-io!