Anna Frank non è un cold case. La Shoah ha un senso più vasto del sapere chi la tradì
Le domande importanti sulla Memoria sono altre, come quelle di un “libro corale” di Gariwo - La Foresta dei Giusti
Qualche giorno fa, nell’approssimarsi del Giorno della Memoria, il prossimo 27 gennaio, la stampa internazionale ha dato molto risalto all’uscita di un nuovo libro che dovrebbe finalmente rispondere, una volta per tutte, alla domanda: “Chi ha tradito Anna Frank?”. Interrogativo tormentoso, che il padre dell’autrice del Diario, Otto Frank, si fece al suo ritorno ad Amsterdam, col sospetto lacerante che fosse stato un qualche conoscente della comunità ebraica, un collega. Domanda angosciosa che forse lui stesso smise a un certo punto di porsi, per dedicarsi unicamente alla memoria-testimonianza di sua figlia, che veniva da più parti messa in dubbio. E non solo dai negazionisti: è significativo che nella presentazione del libro sul New York Times si senta l’eco di polemiche decennali. Si scrive, ad esempio, che Anna Frank è stata di fatto “tradita” più volte, e per primo proprio dal padre: dalla scelta di pubblicare i suoi scritti e per giunta di edulcorarli qua e là con un editing che, decenni dopo, verrà giudicato ambiguo, moralista o addirittura sessista.
Il libro “Chi ha tradito Anna Frank?” suscita emozione perché rivela il colpevole, un ebreo. Ma la Memoria della Shoah ha un senso più vasto
L’autrice di The Betrayal of Anne Frank: A Cold Case Investigation (pubblicato il 18 gennaio da HarperCollins e uscito in traduzione italiana il 20) si chiama Rosemary Sullivan, è canadese ed è una specialista in divulgazione storica (all’attivo anche una biografia della figlia di Stalin). Più che di un libro-inchiesta, si tratta del resoconto di un’inchiesta. L’indagine che Sullivan racconta è il gran lavoro, durato anni, di un’équipe di ricercatori e investigatori, guidati da un ex agente Fbi, che hanno applicato alla vicenda tecniche “da cold case”, con l’incrocio di migliaia di dati archivistici, la ricerca e il vaglio di tutte le persone che avevano rapporti con i Frank e i loro discendenti, il tutto elaborato con un programma di intelligenza artificiale. Una prima volta, in ricerche di questo tipo. Il nome del (comunque presunto) traditore è stato ampiamente spoilerato. Si tratterebbe di un notaio ebreo, Arnold van den Bergh il nome, membro della commissione del Consiglio ebraico di Amsterdam che doveva compilare le liste degli ebrei da destinare alla deportazione. Ricco e abile, ma a un certo punto non più in grado di difendere se stesso e la sua famiglia, avrebbe “venduto” i clandestini della soffitta in cambio della vita delle sue figlie. Due inchieste ufficiali nel Dopoguerra (sui collaborazionisti) non vennero a capo della vicenda; da allora decine di storici, archivisti e indagatori del mistero ci si sono provati, riempiendo di indizi e punti interrogativi un vasto territorio. Che tradimento ci fu, tutti lo hanno sempre detto. Anche se qualche anno fa la stessa Fondazione Casa di Anna Frank con un nuovo studio sostenne che, con buona probabilità, la scoperta del rifugio fu frutto di una coincidenza, senza delazione.
Ora giunge la soluzione del “giallo” con il metodo dei cold case. Al di là del legittimo interesse euristico, viene da chiedersi se sia non tanto il metodo “giusto” (ogni metodo che apporti una nuova conoscenza certa è giusto), bensì il più adatto, o necessario, per conservare o approfondire la memoria di Anna Frank, nome divenuto quasi eponimo della Shoah. Detto altrimenti: è più interessante, per la coscienza e il giudizio dei lettori del 2022, sapere chi ha materialmente tradito i Frank, i Van Pels e il dentista Pfeffer oppure tenere vivo “testo e contesto” (ci arriviamo tra un po’) di quanto accaduto? Anche tralasciando il complesso dibattito attorno al Diario, viene da dire che la memoria – intesa come conoscenza storica illuminata da una visione morale – sia più importante di un cold case.
Del libro di Sullivan, ha creato emozione la rivelazione che a tradire degli ebrei sia stato un ebreo, anzi un membro del Consiglio della comunità. Senza istituire paragoni ingombranti con la “zona grigia” di Primo Levi, che riguarda l’esperienza limite del lager, è noto che alcuni casi simili ci siano stati. L’indagine sul notaio di Amsterdam resta indiziaria, sarà davvero colpevole?
Il tragico enigma di Benjamin Murmelstein, il rabbino sopravvissuto, intervistato da Lanzmann in “L’ultimo degli ingiusti”. La Memoria e il Male
Il libro di Sullivan, stando agli spoiler, non arriva a sentenza definitiva e propende per accomunare lo sventurato al novero delle vittime. E con questo si va alla radice di uno degli argomenti spinosi e decisivi della Memoria: come ricordare e come giudicare. Il pensiero va al caso più tragico e conosciuto, quello del rabbino di Vienna Benjamin Murmelstein, l’unico fra i capi religiosi dei ghetti d’Europa sopravvissuto allo Sterminio, l’ebreo che tornò dal campo di Theresienstadt, la “città ideale” della propaganda nazista dove invece morirono 33 mila ebrei, oltre alla moltitudine di quelli che furono deportati in lager meno “ideali”. Dapprima incaricato da Eichmann come consulente per l’emigrazione ebraica, riuscì a far uscire dall’Austria 125 mila ebrei. A Theresienstadt continuò il suo rapporto “grigio” con le gerarchie naziste, guadagnandosi il sospetto degli altri ebrei di essersi avvantaggiato, e salvato, a scapito di chi aveva invece la possibilità di proteggere. Fu processato dopo la guerra e, per quanto assolto, rimase “colpevole” per il mondo ebraico. Israele gli rifiutò il visto di immigrazione; a Roma, dove morì nel 1989, il rabbino capo Elio Toaff rifiutò la sepoltura nel cimitero ebraico e gli negò anche lo Yzkor, la preghiera israelita di commemorazione. “L’ultimo degli ingiusti”, per usare il titolo del film-intervista che Claude Lanzmann realizzò con lui nel corso del lavoro per il suo colossale film documentario Shoah. Lanzmann lo incontrò a Roma nel 1975. Ma quando nel 1985 Shoah uscì, di Murmelstein non c’era traccia. Il regista impiegò altri 28 anni, fino al 2013, per decidersi a completare il suo lavoro di memoria e pubblicare il documentario L’ultimo degli ingiusti. In una intervista alla tv svizzera, alla domanda sul perché la testimonianza del rabbino non fosse entrata nel film del 1985, Lanzmann rispose che semplicemente era troppo lunga, quasi ulteriori cinque ore.
Ma alla domanda sul perché ci fosse tornato soltanto dopo trent’anni, rispose laconicamente: “Me ne ero dimenticato”. L’unica risposta possibile e (in)credibile a una domanda impossibile. Ovviamente. Perché è impossibile rispondere al tormento della domanda sulla colpa o l’innocenza, con cui uno dei massimi storici-documentaristi della Shoah ha evidentemente convissuto per quasi mezzo secolo. Ma ciò che anche più colpisce è che, 28 anni dopo l’incontro con il rabbino di Vienna, Lanzmann lo riabilitò ritenendolo, se non completamente innocente rispetto ai fatti, di certo un non colpevole. Un punto interrogativo sull’abisso del Male. Servirà dunque a raddrizzare la memoria, la scoperta per via di algoritmo probatorio che il notaio di Amsterdam fu il traditore di Anna Frank? E ad aiutare la Memoria, quella cui ci si inchina il 27 gennaio, e tutte le altre memorie, spesso vissute come “concorrenti”, degli altri mali assoluti di cui non ci siamo liberati? O forse è ormai il momento di rinunciare al ruolo del ricordo e della testimonianza diretti, ora che anche i figli dei sopravvissuti se ne stanno andando? Qual è lo statuto, il ruolo e la necessità della Memoria?
Un gruppo di studiosi si interroga sul valore della Shoah, sulla molteplicità dei genocidi, su come prevenirli anche grazie a una “Carta della memoria”
Il grande intellettuale ebreo George Steiner, nel 1967, polemizzò pubblicamente con Elie Wiesel sostenendo che “chi raccontava la Shoah si dimostrava inadeguato, se presentava quel male estremo come una narrazione esclusiva”. Steiner andava al centro di un problema essenziale, affermando che i sopravvissuti portano “delle cicatrici terribili” ma, dopo Auschwitz, avevano un “unico privilegio”: “Potevano essere indelicati, irritanti, e sovversivi ogniqualvolta apparisse sulla scena pubblica una politica nazionalista, cattiva e disumana. Dovevano essere sentinelle del male”. Oggi è il valore, la necessità di quell’essere “sentinelle del male” che va preservato. A scriverlo – ricordando la posizione di Steiner sopra citata – è Gabriele Nissim, saggista, fondatore e presidente di Gariwo - La Foresta dei Giusti che ha promosso l’istituzione della Giornata dei Giusti, il 6 marzo, per ricordare tutte le persone che si sono opposte a qualunque genocidio.
Nissim lo scrive nel saggio d’apertura di un ottimo “libro corale”, come lo definiscono gli autori, che si pongono delle cruciali Domande sulla memoria. Il lavoro (272 pagine, 14 euro) ricco di punti di vista è stato promosso e realizzato dalla Fondazione Gariwo assieme alla Libreria editrice Cafoscarina di Venezia e raccoglie le “riflessioni sull’importanza dello studio di tutti i genocidi” di un folto gruppo internazionale di storici e studiosi di varia estrazione e formazione: lo storico israeliano Yehuda Bauer, il saggista Francesco M. Cataluccio, l’attore e compositore Enrico Fink, lo storico dei genocidi Marcello Flores, Anna Foa docente emerito di Storia moderna alla Sapienza, la giornalista Viviana Kalam, Pietro Kuciukian, medico e attivista della memoria armena, lo scrittore Stefano Levi Della Torre, il regista Vittorio Pavoncello, la semiologa Valentina Pisanty, lo storico polacco Robert Szuchta, i filosofi Francesco Tava e Amedeo Vigorelli, Anna Ziarkowska storica della Casa degli incontri con la Storia di Varsavia, il giornalista Simone Zoppellaro. A tema non c’è, innanzitutto, il dibattito identitario sulla unicità della Shoah e il suo valore. Ma, scrive Nissim, il fatto che avendo mostrato nella sua enormità anche geografica “le responsabilità non solo dei nazisti”, lo sterminio degli ebrei ha “posto per la prima volta nella storia la questione della prevenzione dei genocidi”. Con ciò la Shoah “ha dato modo ad altri popoli, come gli armeni, i ruandesi, i cambogiani, gli yazidi, i popoli vittime del Gulag nel sistema totalitario comunista di rivendicare sulla scena pubblica il diritto al riconoscimento delle loro sofferenze”.
Il lavoro lungo quasi otto decenni dei testimoni, degli storici, dei memorialisti della Shoah – nel cui solco il lavoro di Gariwo si colloca – è servito innanzitutto a contestualizzare e rendere centrale il termine “genocidio”, che venne utilizzato per la prima volta, nel 1944, da un ebreo polacco, Raphael Lemkin, riflettendo sulla distruzione degli ebrei d’Europa e su quella degli armeni durante il Primo conflitto mondiale. Oggi interrogarsi sulla Memoria, tenerla viva, è – nella prospettiva degli studiosi qui intervenuti – un necessario interrogarsi anche sulla “concorrenza delle memorie”. In un mondo che a oltre settant’anni dalla Shoah sa che quella “unicità” non è stata purtroppo unica. Alla domanda: è possibile prevenire le atrocità di massa?, Yehuda Bauer risponde: “Sì, ma con grandi difficoltà. Perché gli esseri umani sono mammiferi predatori”. Si fa perciò ancora più cruciale il tema della conoscenza e dell’essere sentinelle, mentre le minacce non smettono di incombere e sorgono ovunque tentativi di imporre nuove e diverse memorie selettive. Ma si assiste anche al rischio di un riduzionismo identitario che, scrive Nissim, ruota solo attorno a due questioni, “certo molto importanti, l’antisemitismo e la difesa di Israele” ma che rischia di indebolire quella portata universale ben presente nelle parole di Steiner. Mentre Yehuda Bauer invita a tener presente che “non ci siano ‘lezioni’ da trarre dal genocidio”, e che “il nesso tra diritti umani e Shoah esiste, ma non è così stringente come si pensa”. Bisogna prima comprendere il “testo” di una vicenda durata 17 anni (dal 1933 al 1950, dice: il ritorno a casa di tutti i sopravvissuti) e il “contesto” storico in cui si inserisce, compreso l’atteggiamento degli Alleati nelle curve del conflitto.
“Altri popoli entrati sulla scena pubblica chiedono il riconoscimento dei loro genocidi”. La “memoria disseppellita e di parte”, i monumenti
Anna Foa ricorda che dalla Shoah sono derivati due cambiamenti radicali in due ambiti cruciali, quello religioso e quello giuridico, che “nel Novecento genocidario né il genocidio degli herero né quello degli armeni e nemmeno ‘l’inutile strage’ della Prima guerra mondiale ero riusciti a edificare”. Anche perché, spiega, gli elementi di modernità, di scientificità introdotti dal nazismo non hanno precedenti. Ma quando tutto questo diviene “criterio di differenziazione assoluto, dogma” si finisce per allontanarsi dalla Shoah nella sua dimensione storica, indebolendo anche il suo significato universale. Marcello Flores annota che è forse il momento, nel mondo globalizzato e diviso, di puntare maggiormente sulla conoscenza storica che sulla memoria, che contiene sempre una dimensione selettiva. Cita la provocazione dello storico americano Daniel Riff: perché una vittima del genocidio in Ruanda dovrebbe ricordare le vittime del Gulag? E perché un giovane venticinquenne del Cairo o di Pechino dovrebbe ricordare entrambi? “La forza dell’imperativo morale di ricordare, in un mondo in cui i valori universali sembrano in crisi e si sono moltiplicate le tragedie che le vittime (ma non solo) ritengano debbano essere ricordate, sembra in realtà poco praticabile”.
Che fare dunque, per preservare l’imperativo della Memoria, mentre quella della Shoah si indebolisce per cause naturali e mentre si moltiplicano altre memorie, e si soggettivizzano, generando a volte riscritture forzate se non abusive? La memoria che non si aggancia a un riconoscimento storico diventa forzata, e certo non possono esistere memorie condivise “a forza”, come ha ricordato qualche settimana fa sul Foglio Adriano Sofri a proposito della memoria divisa dei “territori orientali” italo-sloveni. E basterebbero le polemiche sulla data del Giorno del Ricordo delle foibe e della tragedia degli esuli italofoni – fissata al 10 febbraio perché è la data della firma dei Trattati di Parigi, ma per alcuni sarebbe invece un tentativo di sminuire la Memoria della Shoah – per capire la difficoltà, pur nel contesto pacifico europeo, di maneggiare la Storia. La fine del totalitarismo comunista, ricorda Flores, ha liberato nuove memorie, ma non le ha certo ricomposte. Qualche giorno fa, in occasione dell’anniversario della morte di Varslam Salamov, enorme testimone del Gulag, sulla Stampa Mattia Feltri, che ha il dono della sintesi e perciò ne approfittiamo, ha ricordato l’espulsione da una nuova edizione Einaudi di Kolyma della prefazione-dialogo tra il traduttore Piero Sinatti e Gustaw Herling: “Herling si infuriò e disse che la ragione del taglio era il parallelo scandaloso in occidente” tra lager e Gulag. Per dire quanto il dissidio non sia sempre e solo tra memorie personali, ma tra lasciti ideologici. Questo è tanto più grave nel momento in cui “altri popoli entrati sulla scena pubblica chiedono il riconoscimento dei loro genocidi”. Da cui l’impegno di Gariwo per far riconoscere a livello internazionale una “Carta della memoria” da affiancare alla Convenzione della Nazioni Unite per la prevenzione dei genocidi nottata nel 1948.
Scrive Stefano Levi Della Torre che la memoria si “organizza per ‘monumenti’, dove gli eventi vissuti o tramandati sono interiorizzati come poli di una visione del mondo. In definitiva, come mentalità e cultura”. Così è la memoria ebraica, dice Levi Della Torre. (Claude Lanzmann, con amaro disincanto, diceva anche: “La follia memoriale credo sia una malattia ebraica”). Ma la parola monumenti non può non evocare quanto sta accadendo, nel mondo anglosassone, con l’abbattimento o rimozione di statue che rappresentano una memoria non più condivisa o radicalmente rifiutata, “disseppellita e di parte, opposta alle memorie dominanti”, come ha scritto Adriano Sofri. Serve di più, oggi, questa parzializzazione dello sguardo o è preferibile una storicizzazione che permetta, se non una memoria condivisa, la costruzione di riferimenti non modificabili? Per i saggisti raccolti in Domande sulla memoria, l’indicazione è che proprio la memoria della Shoah, nella sua unicità, si propone come l’avvertimento “di una tragica possibilità per tutti. E va dunque tenuta viva”. Soprattutto, aggiungiamo, per le nuove generazioni globalizzate e parcellizzate. Quelle già malamente convinte che la Seconda guerra mondiale sia finita come la racconta Bastardi senza gloria e con gli ebrei che si vendicavano dei nazisti. E a cui ora è meglio far sapere che Anna Frank non è un simpatico cold case ancora da risolvere.