l'architettura del ricordo
Gli edifici dove si consumò la Shoah sono un palinsesto della memoria. Un libro
"La memoria dei campi" di Chiara Becattini analizza i segni fisici di quattro campi di detenzione e sterminio tra Italia e Francia, un modo più consapevole e olistico di leggere le persecuzioni con gli strumenti della storia dell'architettura
Niente alimenta più conflittualità della memoria. Il libro di Chiara Becattini, La memoria dei campi (Giuntina, 18 euro), vincitrice del premio della Fondation Auschwitz di Bruxelles, ha il merito di rileggere le ideologie contrapposte e i fatti storici a loro sottesi analizzando non solo i documenti, ma soprattutto il territorio inteso come palinsesto, vale a dire l’accumulo incessante di tracce che possono essere “spazzolate contropelo” dalla ricerca storica. Non è un caso che questa figura, il palinsesto, sia stata proposta da uno storico dell’architettura e dell’urbanistica, lo svizzero André Corboz – introdotto in Italia da Paola Viganò e Bernardo Secchi –, perché è precisamente in questi ambiti disciplinari che il saggio si colloca. I segni fisici di quattro campi di detenzione e sterminio, come sono stati utilizzati, conservati e istituzionalizzati permettono di analizzare in modo estremamente tangibile la Shoah così come si studia un edificio, in un modo più consapevole e olistico. Per molto tempo infatti la storia dell’architettura si è limitata a dare conto del progettista e del committente, fermandosi all’inaugurazione dell’opera, niente veniva detto su ciò che avveniva dopo, cioè sulla vita vera e propria degli edifici, il loro uso, abuso o disuso.
Becattini invece ha studiato quattro ex campi, due in Italia e due in Francia, fornendo un’analisi stratificata nel tempo e nello spazio, trovando molte corrispondenze imputabili soprattutto alla fase collaborazionistica di Vichy e Salò, come il mito del “bravo italiano” e del “cattivo tedesco” ma non solo. I memoriali pubblici, le giornate nazionali di commemorazione e i calendari condivisi, lavorano tutti per creare luoghi comuni attorno ai quali si forgia l’identità nazionale, scrive James E. Young, ma questo è vero anche per l’architettura. Se compariamo infatti il Monumento in ricordo dei caduti nei campi di concentramento in Germania nel cimitero monumentale di Milano (1946) del gruppo Bbpr con il Mausoleo alle Fosse ardeatine (1951) del gruppo di Giuseppe Perugini troviamo infatti due linee di ricerca alternative: quella dell’architettura milanese (astratta, razionale) e quella romana (organica, espressionista) così come il Mémorial des Martyrs de la Déportation (1961) sull’Île de la Cité di Georges-Henri Pingusson rappresenta quella francese d’impronta lecorbusieriana.
Peraltro il contributo ebraico alla ricostruzione dell’architettura italiana fu considerevole perché erano ebrei alcuni fra i più influenti teorici, storici, critici e docenti del dopoguerra (Ernesto Rogers, Mario Fiorentino, Eugenio Gentili Tedeschi, Daniele Calabi, Manfredo Tafuri), pertanto colpisce nel libro soprattutto l’assenza di Bruno Zevi, autore di Ebraismo e architettura: “Siamo e ci sentiamo fortuiti sopravvissuti, e questo ci induce a vivere nel disperato, quasi colpevole, tentativo di sostituire, col nostro impegno, qualcuna di quelle vite perdute”. Tuttavia il fuoco dei quattro paesaggi memoriali presi in esame consta nella contesa identitaria, oggetto di ripensamenti e aggiustamenti continui: Il campo di Fossoli, vicino Carpi, Natzweiler-Struthof in Alsazia, Drancy poco fuori Parigi e, soprattutto, la Risiera di San Sabba a Trieste, città travolta più di altre dalla Seconda guerra mondiale perché contesa fra i due blocchi vincitori come forse solo Berlino. Rovine, baracche, monumenti, memoriali, musei, spazi del trauma, l’evoluzione di questi ex campi è avvenuta per strappi spesso in parallelo con i processi agli ex collaborazionisti o anche agli stessi ex nazisti riacciuffati nel corso degli anni 70 e 90, non di rado a poca distanza dalle ex vittime. La memoria luttuosa dei campi che era alla base dell’antifascismo internazionale di sinistra confliggeva non solo con quella della “zona grigia”, ma anche con la sensibilità dei profughi giuliano-istriano-dalmati, ecco perché San Sabba, unico campo di sterminio su suolo italiano, è un caso estremamente ricco di sfumature storiografiche ed ideologiche.
È anche un capolavoro architettonico sebbene l’autore, Romano Boico, avesse vinto il concorso del 1966 in maniera non del tutto limpida (era anche presidente dell’ordine degli architetti di Trieste), superando fra l’altro i rimarchevoli progetti di Costantino Dardi e Gianugo Polesello. San Sabba è capolavoro di minimalismo e silenzio, quindi senza scritte né opere d’arte, seguito per questo anche nei memoriali di Daniel Libeskind e Peter Eisenman a Berlino o in quello per l’11 settembre a Manhattan. Nel 1975, a progetto completato, Zevi sull’Espresso rimarcava: “Il riassetto era indispensabile non per conferire alla Risiera un vettore estetico, ma, all’inverso, per impedire che acquistasse la capacità di emettere messaggi pop – irruenti ed oratori”. Far parlare questi luoghi è infatti compito degli storici e delle nuove generazioni, vale a dire una memoria al futuro.